Non ricordo se ero

«Accade nel primo deserto.
Due braccia scagliarono una gran pietra.
Non ci fu un grido. Ci fu sangue.
Ci fu per la prima volta la morte.
Non ricordo se ero Abele o Caino»

[Jorge Luis Borges, Génesis IV,8 in La rosa profunda, 1975]

William Blake – The Body of Abel found by Adam and Eve, 1826 [Tate Gallery]

«Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto.
Abele rispose:
– Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più; stiamo qui insieme come prima.
– Ora so che mi hai perdonato davvero, – disse Caino – perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare.
Abele disse lentamente:
– È così. Finché dura il rimorso dura la colpa»

[Jorge Luis Borges, Elogio dell’ombra, 1969]

 

Il sangue grida (p. Guido Bertagna, 9.6.2001 – atti del Convegno “Il raptus”)

Una giornata in montagna

Quando in carcere, alle ore 6:00 del mattino, si accendono le luci della stanza, di solito è per recarsi in tribunale o per qualche visita ospedaliera. Proprio la mia stanza era tutta accesa, tra gioia e, non lo nascondo, anche ansia. Ma l’attesa era ricca di felicità. Ero già pronto dietro alla porta, ma dovevo aspettare perché la chiave non è attaccata.

Appena aperto, esco subito per recarmi al blocco dell’uscita; alle 7:00 mi aspettava la nostra dottoressa Boccaccio, per noi Carlotta. Anche lei fa parte del gruppo della trasgressione e ha un ruolo per i detenuti del gruppo molto importante: è lei che si prende la responsabilità di accompagnarci agli eventi, come oggi che ci porterà in montagna. L’appuntamento, per detenuti e non, era sotto casa del Dott. Aparo per poi partire tutti insieme.

Anche mia figlia Martina, quando può, viene agli eventi che organizziamo con il gruppo, oggi infatti c’è anche lei. È arrivata sola da casa, con la sua macchina e mentre cercava di parcheggiare io ero lì che la guardavo preoccupato e curioso; era la prima volta che la vedevo con una macchina. Quando mi hanno arrestato Martina aveva 12 anni, oggi ne ha 22 e io mi sono perso tutti gli anni più belli della vita dei miei figli (e anche come lei ha imparato a guidare una macchina). A vedere tutto questo iniziavo a pensare che oggi sono un uomo e un padre fortunato. Avere ottenuto questa autorizzazione dal magistrato è proprio un vero miracolo e non posso tradire la sua fiducia.

Appena Martina esce dalla macchina ci abbracciamo e solo il fatto di sentirmi chiamare papà mi rende libero e mi dà sicurezza, mi fa emozionare perché quel distacco e quella lontananza dati dalla mia carcerazione mi fanno un grande male e sento di essere stato uno stronzo.

Salgo in macchina con lei e partiamo. Ero sbalordito a sentire il rumore delle macchine, era 10 anni che non prendevo la Milano-Lecco. Vedere la Brianza mi sembrava un sogno, si vedevano da lontano le montagne, il verde. Questa strada che ci porta in Valsassina a Barzio la conosco bene, l’ho fatta per anni e ho anche una casetta dove andavamo tutti i sabati a portare i bambini a sciare.

Arrivati a Barzio ci attendevano delle persone con due grandi Jeep per portarci al rifugio per la nostra camminata. Siamo saliti così in alto che la temperatura è scesa. Martina mi aveva portato un maglioncino, uno zainetto con dei panini e una borraccia, ha pensato pure a questo. Mi sentivo rinato, tutta cosi premurosa, cosi dolce, sentivo le scosse al cuore. Questi gesti, questa libertà, lo starmi attaccato, erano emozioni che non provavo da anni.

Si parte per una lunga camminata, il Dott. Aparo andava come un treno, Matteo e Carlotta ridevano, credevano che io non sarei arrivato alla meta, dove c’era il lago Sasso. A un certo punto della strada mi giro a guardare, uno shock! Vedere tutta quella bellezza, sentire quel profumo di verde, i colori delle pietre, questi sentieri cosi strani, avevo voglia di urlare. Sentivo nella mente che la sera tutto questo sarebbe finito e che dovevo tornare in carcere, ma mia figlia Martina è la mia cura, insieme a lei sparisce tutto. Una giornata così bella e cosi emozionante non c’è mai stata, il piacere era alle stelle.

Volevo arrivare in cima, era una sfida! Il Dott. Aparo sì e io no? Martina chiedeva aiuto al suo papà per attraversare i ruscelli da un sasso all’altro, quella mano che mi chiedeva aiuto era così pronta e rimaneva attaccata alla mia, era la prima volta che le sentivo dire: “papà stai attento che cadi!”. Il suo preoccuparsi mi dava una carica per stare sempre più vicino e mi faceva rendere conto che posso ancora riprendere la mia vita e costruire un futuro con i miei figli.

Più si saliva più si sudava, ma il pensiero di essere oggi libero con Martina e con il gruppo mi fa crescere dentro un desiderio di responsabilità, di una vita senza sbarre, senza muri, ma con la consapevolezza che devo pagare questo mio debito per gustarmi i valori che la vita offre.

Giunti al rifugio eravamo stanchi, Martina che si lamentava, ma è valsa la pena per vedere quel paradiso terrestre. Erano quasi le 15:00 e dovevamo pranzare. Ad un certo punto mi sento chiamare, una grande sorpresa: era mio figlio Mattia. La gioia si era completata, mi mancava anche lui ed essere tutti insieme con loro mi dà la speranza di poter tornare ad essere un papà migliore. Martina si emoziona a vedere me con suo fratello, anche perché è stata proprio lei a stargli vicino in questi duri anni, insieme alla loro mamma.

Sanno che ho sbagliato e che tutto questo è solo colpa mia, ma loro fanno tanto per me. Oggi l’essere venuti a camminare qua ci unisce e rinforza il nostro rapporto e il nostro amore. Questo nuovo confronto tra padre e figli, la possibilità di essere in questa giornata fuori dal carcere dà una speranza a chi non crede più e ricarica quei figli che avevano perso le speranze di rivedere il loro papà a casa fra loro. Mi sento fortunato e anche meritevole di aver ottenuto questo beneficio, ma c’è un angolino dentro di me che mi fa sentire triste, perché penso a quei carcerati che non possono avere questa occasione come me, quella di passare una giornata cosi bella con i propri figli e da padre che si sente libero.

Per finire, voglio dire la cosa più importante di questa giornata, anche se avrei potuto dirne tantissime indimenticabili: il rientro in carcere, la consapevolezza di tornare fiero e stanco in cella, di aver lasciato Mattia e Martina felici che presto il loro papà potrà tornare a godersi piccoli spazi di libertà e il grande lavoro del gruppo, che si fa con serietà e fatica. I progetti da portare avanti sono molti e anche questo mi fa tornare felice in carcere, perché dietro di me ci sono persone che mi aiutano e mi danno la loro fiducia.

Anche questo percorso fa parte della mia carcerazione, percorso che desidero portare avanti anche quando potrò essere un cittadino e un uomo libero. Devo molto al gruppo della trasgressione, sono fiero di farne parte e sto vivendo momenti di vere riflessioni, emozioni e anche di riconoscimento. Rispettare le regole significa rispettare se stessi, i propri figli e la società.

Sento il mio cambiamento dentro al carcere e fuori dalle mura. Se oggi riesco a comprendere tutti i miei errori è grazie a tutte quelle persone che hanno lavorato e dato fiducia a me, come il dott. Di Gregorio e l’ispettore che mi hanno permesso di lavorare in carcere, la dottoressa Cossia, che ha concesso di potermi recare nelle scuole, al Beccaria, a San Vittore e anche in questa bellissima giornata e il dott. Aparo per il lavoro che porta avanti con il gruppo. Spero che queste occasioni vengano concesse anche ad altri detenuti come me.

Ignazio Marrone

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Ti ho cercato subito, giovedì appena uscito dal carcere di Bollate alle sei del pomeriggio.

Avevo qualcosa di nuovo da chiederti.

[continua qui]

I Conflitti della famiglia Karamazov

Materiali per I fratelli Karamazov

Abbiamo trovato 63 studenti/esse (di giurisprudenza, psicologia ed altre facoltà) per dare forma – dentro le mura del carcere di Bollate – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni.

Dopo la nostra lettera di invito, sono giunte ben 81 candidature anche grazie ad un articolo di Luigi Ferrarella pubblicato sul Corriere della Sera.

Siamo, allo stesso tempo, ugualmente soddisfatti per avere ricevuto il dono di alcune copie de I fratelli Karamazov necessarie al progetto e destinate alle persone detenute.

Giovedì 1 febbraio abbiamo iniziato …. ecco i materiali per seguire la nostra ricerca anche fuori dal carcere:

I ritratti dei quattro fratelli Karamazov sono stati realizzati, appositamente per questa nostra ricerca, da Luca Lischetti.

Grazie anche ad Andrea Spinelli, illustratore giudiziario in Tribunale e visual soul painter per i nostri progetti in carcere, per aver accettato di aiutarci nella realizzazione della serata di restituzione pubblica del 9 marzo.

Qui la intervista a RAI Radio2 Caterpillar (puntata del 25.2.2024 – grazie a Sara Zambotti, Massimo Cirri e a tutta la redazione):

Chi sono io? Esercizio di Martina Intano

 

Let it be, Karamazov! (by cescofrancobolli)

La serata di restituzione pubblica del 9 marzo 2024, al teatro del carcere di Bollate, è stata interamente ripresa da Radio Radicale ed è visibile qui

A coronamento del progetto di ricerca, RAI Radio2 Caterpillar vi ha dedicato l’intera puntata del 19 marzo 2024 con una diretta nazionale “un po’ dentro, un po’ fuori” visibile, anche in visual radio, qui

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Caro figlio mio

Caro figlio mio, o figlio mio caro: spesso noi due scherziamo – ripassando la grammatica anche in questo faticoso inizio di prima media – su come il mio professore di italiano al liceo diceva che la diversa posizione di una virgola nella stessa frase può cambiarne radicalmente il senso.

Ma anche la diversa disposizione delle parole conta…. e così nel “figlio mio caro” l’accento non cade più sull’amore ma sui costi della faticosa sopportazione da parte del genitore, in questa tua preadolescenza sempre più inquieta.

Capita spesso che fin da bambino qualsiasi esperienza ci venga proposta sempre suddivisa in due categorie: bianco o nero, buono o cattivo. E forse per questo cresciamo nel dissidio interiore di dover dare ascolto solamente ad una voce: e, preferibilmente nelle intenzioni di mamma e papà, quella dell’angioletto piuttosto che quella del diavoletto.

Se mi volto a guardare indietro, il ricordo ancora nitido è quello di me diciassettenne nell’anno di Noviziato con gli scout di Sesto San Giovanni: oggi sempre di più posso dire che è stato proprio quello il tempo in cui ho imparato a mettere ordine dentro me stesso. Fino a quel momento mi guardavo intorno e, forse per superare la banalità della gran parte delle cose che mi circondavano, avevo iniziato a trascrivere a mano su dei quaderni rossi i testi delle canzoni (soprattutto quelle in lingua inglese) che più mi facevano sentire vivo. Perché, al di là dello scoutismo e dei legami forti generatisi all’interno dell’ambiente scolastico nel quale i miei genitori mi avevano sapientemente inserito, per me “era sempre difficile rimettersi in marcia e, ogni volta che ritornavo a casa, era tutto e solamente un aspettare la successiva uscita. La città da una parte, così indecifrabile e indigeribile;  il bosco dall’altra, così desiderabile e terapeutico”.

E così arrivai alla fine della route di quella mitica estate 1988 e i miei compagni di Noviziato mi affidarono in dono, come totem e pertanto segno caratteristico del mio essere, quello di Tigre Gioiosa. Dove, al di là della tigre che ancora oggi connota il mio carattere spigoloso, l’aggettivo gioiosa mi fu assegnato in termini “migliorativi”, come cioè un invito a collocarmi di più verso sfumature di colori sentimentalmente più caldi.

Già, le sfumature. Perché con il tempo mi arrivò in premio un’altra folgorazione, dopo il senso di quell’anno straordinario del Noviziato e dopo tutte quelle parole vitali delle quali mi nutrivo ricopiandole su quei quaderni rossi, come fossero un breviario laico per l’anima.

Fu ad un campo scout di “formazione capi” quando, durante una sessione serale e nel fiume in piena dei miei 22 anni, sentii pronunciare dagli educatori che avevano cura di noi l’elogio dell’equilibrista: colui che per rimanere in piedi sul filo, e non cadere nel baratro o nel vuoto che sia, deve continuamente sbilanciarsi da una parte e dall’altra. In quell’immagine, così semplice ma per me straordinariamente efficace, trovai la soluzione a tutti i miei residui mali. 

E iniziai a non tormentarmi più nella vana ricerca di un equilibrio stabile, perché solamente una sana instabilità poteva farmi andare avanti, un passo alla volta. Perché in ogni singolo passo c’è inevitabilmente il segno plastico di tutto questo: sbilanciarsi in avanti per non rimanere fermi.

Capirai allora perché quando, all’inizio del nostro cammino all’interno del Reparto La Chiamata, ho sentito il nostro comune amico Juri parlare dell’altalena, ho avvertito il cuore nuovamente battere forte come in quella sera di 30 anni fa. E ho realizzato che in questo ultimo viaggio nel sottosuolo del carcere di San Vittore sei sempre stato tu il protagonista dei miei pensieri. E proprio per questo ho deciso di vedere quali pagine dei miei quaderni rossi, giovedì dopo giovedì, tale nuova esperienza di comunità educante sarebbe riuscita a fare riemergere dopo tutti questi anni.

Perché la musica, ormai e per fortuna, fa parte anche della tua giovane vita. Non potrò mai dimenticare uno dei miei primi timidi approcci con te sul tema… quella sera quando, sdraiati sul lettone di casa e dopo averti fatto ascoltare l’assolo di Gilmour a Pompei, mi avevi confidato: “Non male papà, ma lo sai che anche Rovazzi sa suonare la chitarra?”.

Sicuramente l’Hotel California nel quale un tempo cercavo rifugio, trasportato dalle note della mia chitarra bianca, può avere lo stesso significato della Swishland del cantante che oggi preferisci: un luogo di evasione.

Ma io ti auguro di trovare qualcuno che sappia poi dare voce al tuo dáimōn, affinché quella naturale ed innata voglia di evadere non ti porti all’autodistruzione ma sia capace di farti realizzare il disegno che la vita ha in serbo per te. Non sarò geloso nei suoi confronti, ma infinitamente grato: del resto il nonno e la nonna, che tu ben conosci, hanno avuto la capacità di coltivare il terreno, prepararmi la strada indicandomi una direzione di senso (nonostante la naturale timidezza del primo e qualche milligrammo di ansia – ugualmente naturale – della seconda) con l’esempio e senza tanti giri di parole. Ma sono stati poi altri, diversi dai mei genitori, a raccoglierne il testimone e a fare con me e su di me “il lavoro sporco”: una maestra elementare e a seguire una manciata di altri bravi insegnanti, un prete e una suora, alcuni capi scout, un amico di famiglia.

Quando, ancora oggi, devo affrontare qualche momento di difficoltà e sconforto, mi fermo ad ascoltare le loro voci che ancora tutte risuonano dentro di me. O rileggo le parole messe in poesia che mio papà ha pubblicato prendendo spunto dalle lettere che ci scambiavamo quando ancora non sapevamo come parlare alle nostre reciproche anime. O ripenso a qualche bigliettino che, ancora oggi, mia mamma non si stanca di lasciarmi infilato in qualche sacchetto.

Perché anche tu scoprirai, con il tempo, che essere te stesso non significa tanto ritrovare dentro di te il tuo vero io quanto sapere fare sintesi della molteplicità di voci che necessariamente abitano in te. E, come un direttore di orchestra, saper far suonare insieme tutti gli strumenti. Certo, avendo il coraggio di ascoltarli tutti, nessuno escluso, e di accordarli nel modo migliore affinché il suono così generato sia quello più utile e proficuo per l’occasione richiesta.

Confesso anche che credevo, nel mio strampalato senso giovanile di onnipotenza, di poter trarre da tutte le parole che con cura trascrivevo su quei quaderni non solo nutrimento interiore ma anche ispirazione per una canzone che avrei voluto scrivere io, e che sarebbe per ciò solo passata alla storia. Da anni sorrido di tutto questo anche perché ormai mi è chiaro che, se rinasco, non voglio più essere un cantautore ma un sentimental dj, sempre pronto a trovare – in ogni occasione della vita – quel disco capace di far star meglio una persona attraverso l’invito a curarsi, facendo risuonare dentro di sé parole di altri. E, proprio grazie a quella cura, saper ritrovare le proprie parole e riuscire finalmente a pronunciarle, come atto creatore capace di dare il vero nome alle cose.

Ma, a pensarci bene, è questo anche l’impegno che voglio prendere oggi – in questa festa del papà cosi particolare e quantomai sentita – con te e con tutti i giovani adulti del Reparto la Chiamata.

Per amore del mio popolo non tacerò”, e per aver invitato altri a non tacere più qualcuno ha anche perso la vita: il suo nome è don Peppe Diana, ucciso un 19 marzo di tanti anni fa (era il 1994) nella sua Chiesa, a soli 36 anni e nel giorno del suo onomastico, da un killer del clan dei casalesi. E ancora oggi sono molti a rimpiangerlo, perché in lui erano riusciti a trovare un padre.  Ma, come era solito dire ai suoi parrocchiani, “non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte”.

Caro figlio mio, “la vita è un bivio”: così ci ha ricordato – in maniera tanto semplice quanto efficace – Mattia durante uno dei nostri primi incontri a San Vittore. Quando anche tu ti sentirai prigioniero, ricordati quel pezzo di via Francigena che abbiamo voluto fare insieme – io e te soli – la scorsa estate: dopo 9 ore di cammino e portando anche il tuo zaino di fronte all’ultima fatica, imprecavo al cielo come un pazzo invitando il Sindaco di Monteriggioni a costruire un tapis roulant al posto di quella impervia salita che conduce all’ingresso delle mura medioevali.

 

Non abbiamo mai riso così tanto, perché anche tu sapevi che stavo scherzando: lo scoutismo infatti ci insegna che la strada più larga ed in piano difficilmente è quella che porta più lontano.

A differenza di Mattia e di tanti altri giovani adulti che non riescono più a trovare la via di casa, le scelte della tua vita tu le hai ancora tutte davanti. Buona strada allora: insieme a tua mamma e a tua sorella, sai che facciamo il tifo per te.

E io faccio il tifo anche per i giovani adulti del Reparto la Chiamata, perché ti auguro anche di scoprire sulla tua pelle che quando poi diventi padre le persone a cui vuoi bene le guardi e le ascolti come se fossero tutti figli tuoi.

Casa circondariale di Milano San Vittore, 12 gennaio 2023 – 16/19 marzo 2023

Reparto LA CHIAMATA        Genitori e figli

Il timone della mia adolescenza

Ricordo ancora il numero telefonico di casa dei miei nonni paterni, dove sono nato e dove ho trascorso infanzia e adolescenza. Tutti i giorni, in orari che mi dettavano i miei stati d’animo, aspettavo che squillasse il telefono (la chiamata di mio padre). Attese deluse, accompagnate sistematicamente dalle stesse mazzate.

Riuscivo a sentire la voce di mio padre grazie ai rimproveri di mia nonna che, almeno una volta a settimana, lo chiamava per ricordargli della mia esistenza e della sua irresponsabile assenza.

La solitudine che paralizzava le mie curiosità e la necessità di sentirmi accudito, cercavo di colmarle con i sorrisi e qualche carezza delle persone anziane del vicinato. Ma più tempo passava e più l’infame necessità di quel riconoscimento prendeva possesso del mio timone.

Iniziai così a farmi “guidare”, come una prostituta accetta la seduzione più proficua, dal miglior offerente: “Robertino, ma tu sei molto intelligente“, ”Aiutami a scaricare queste casse di sigarette che poi ti do 2 mila lire”, ”Bravo Roberto! Stai diventando un vero uomo e più tardi ti porto con me a vedere le corse clandestine dei cavalli “…

E così, pian piano, iniziarono per me le prime chiamate, fin quando arrivò, dopo tanti ”trofei ” conquistati, la vera, illusoria e definitiva chiamata di Lucifero.

Da quel giorno, pur tra improvvisi turbamenti e il delirio che li imbavagliava subito dopo, cominciai a sentirmi protagonista e compartecipe di un progetto chiamato distruzione e che oggi identifico con il mio fallimento.

La complessità del male aveva spianato la strada alla sua indegna banalità, fino a farmi abortire il dolore per la mancanza dell’unica, vera chiamata che, se ci fosse stata, mi avrebbe probabilmente impedito di consegnare il timone della mia adolescenza e della mia responsabilità al primo e più astuto offerente.

Lo 095/317006 non squillò mai e, quando lo fece, purtroppo per lui e me, si interruppe per sempre la linea.

Roberto Cannavò

Percorsi della DevianzaLa Chiamata

Il padre

I Greci antichi avevano capito molte cose. Tra le loro opere l’Odissea può ancora oggi trasmetterci messaggi preziosi che, tra l’altro, aiutano anche a chiarire alcuni concetti su cui anche noi del Gruppo stiamo riflettendo, accettando alcune interpretazioni o dubitandone.

Nell’isola di Itaca spadroneggiano i Proci, figure proterve che circondano con la loro tracotanza Penelope, regina dell’isola, rimasta sola a governare perché il marito Ulisse è partito per la guerra e, dopo anni, ancora non fa ritorno. La insidiano, si sono installati nella reggia dove passano il tempo tra gozzoviglie e alterchi. Insidiano la sua virtù di donna chiedendola in moglie e pretendendo che lei scelga uno di loro e insidiano nel contempo il suo potere, perché bramano il regno.

Penelope si difende come può, procrastinando la scelta fino al momento in cui avrà finito la tela che la vede impegnata ogni giorno. Ogni giorno diligentemente tesse e la tela si allunga ma poi la notte con altrettanta diligenza la disfa, accorciandola.

Telemaco, il principe figlio di Ulisse e Penelope, cresciuto senza padre e divenuto adolescente non sopporta più la situazione. È arrabbiato col padre perché è cresciuto senza di lui, gli sono mancati attenzione, affetto, insegnamenti, sicurezza che la presenza di un padre dovrebbe garantire. È arrabbiato, poco gli importa che suo padre sia un guerriero valoroso, un eroe di cui la società ha bisogno.

È molto arrabbiato ma capisce che senza il padre la situazione sua, familiare, dell’isola, sarebbe precipitata fino a un punto di non ritorno. E allora prende la sua prima decisione da uomo: va a cercarlo. Arma una nave, si procura l’equipaggio e lui, giovane che non si è mai allontanato da casa, inesperto di mare e digiuno di arte della navigazione, va a cercare il padre.

Reparto LA CHIAMATAGenitori e Figli

Nuccia Pessina

“Non devi trattenere il dolore per trattenere la memoria”

“You don’t have to hold onto the pain to hold onto the memory”
[Janet Jackson, Memory]

 

Il cammino con Marcella e Marisa, passato nel 2016 attraverso l’incontro con il Gruppo della Trasgressione al carcere di Opera, ci porterà il 21 Novembre 2022 a Pavia (ore 18, Collegio Santa Caterina da Siena).

Ci vediamo là! [qui la locandina completa]

Mia madre, un’imbrogliona

Penso ingannasse anche mia sorella. Con me ha cominciato a farlo che ero ancora piccolissimo. Non mi piacevano le uova o mi sembrava non mi piacessero. Lei ogni mattina metteva un tuorlo d’uovo nel latte, miscelava il tutto per bene e me lo dava da bere. Di fronte alle mie perplessità sul nuovo colore del latte, mi diceva che, apposta per me, il lattaio aveva portato il latte della vacca giovane. A quel punto io riconoscevo che era proprio buono e mi sentivo un privilegiato.

Ma l’inganno più perfido e praticato per anni è partito quando, all’età di otto anni e arrabbiatissimo, volevo picchiare mia sorella Lina, che all’epoca ne aveva due. In quella occasione, mia madre, senza scomporsi, mi ha detto che avrei potuto farlo, ma che avrei dovuto aspettare che Lina avesse almeno una decina d’anni. E tutte le volte che io chiedevo se potevo picchiarla lei rispondeva “aspetta, a piccirida è ancora truoppu nica”.

E così siamo andati avanti fino a che io mi sono trovato a guardare “a piccirida” come facevano lei, mio padre, i nonni e le zie e, a quel punto, ho perso per sempre la possibilità di picchiarla.

Tra l’altro, sarebbe anche difficile, visto chi la difenderebbe.

Genitori e figli

La morte di mia madre

Sono stato preparato a questo evento dalla lunga vita di mia madre e dagli ultimi suoi anni di progressiva perdita di autonomia.

Questa mattina ho visto un piccolo rattoppo sul pigiama e, inevitabilmente, mi sono ricordato delle numerose volte in cui le portavamo abiti da rammendare o da aggiustare, un po’ per darle da lavorare, un po’ per sentire addosso gli effetti del suo intervento.

Lei era decisamente brava a cucire e a riparare strappi che avresti detto insanabili. Ma negli ultimi due anni la capacità di cucinare, rammendare, stirare si era ridotta di molto, mentre cresceva la frustrazione di non potere svolgere le azioni che erano la sua identità.

Ma mia madre ha vissuto e ha seminato dentro di me e di mia sorella quello che noi oggi siamo, il modo in cui ci sentiamo l’un l’altro e che uso fare dell’ago e del filo. Gli occhiali con cui guardiamo il mondo sono stati forgiati quando non eravamo noi a decidere cosa e come guardare e toccare.

E in quell’officina lavoravano mia madre, mio padre, i miei nonni, le mie zie. Adesso sono tutti morti; ci rimangono gli occhiali che nel frattempo sono diventati i nostri occhi.

Genitori e figli