Il principio di un rovesciamento

Rocco Ferrara

Da almeno due anni faccio parte di un gruppo denominato “Gruppo della Trasgressione“. Il nome è singolare, perché ha un significato opposto a ciò che facciamo. Durante gli incontri tra noi detenuti e un gruppo esterno di studenti e comuni cittadini trattiamo temi sociali come bullismo, devianza, tossicodipendenza, conflitti genitori-figli e molto altro ancora.

Mi sento fortunato di frequentare questo gruppo, che mi ha dato la possibilità di vivere il carcere da un punto di vista diverso. Coordinati dal dott. Aparo, esperto in materia di psicoterapia, gli incontri con gli studenti esterni favoriscono il confronto delle idee. I detenuti si sentono accettati e tutto questo apre un varco a un nuovo modello di detenzione, che sino a qualche tempo fa ce lo sognavamo.

L’appuntamento di oggi coinvolge i familiari dei detenuti, che affronteranno in un faccia a faccia i figli, nipoti o parenti, dei quali si vuole capire come hanno fatto a scegliere una vita rovinosa che ha danneggiato loro e coinvolto nella sofferenza anche le famiglie. Mi chiedo cosa possa venir fuori da questo confronto dentro le mura di un penitenziario dove saranno presenti anche operatori del settore, agenti e dirigenti. Direi che è il principio di un rovesciamento di un sistema di cui si è parlato tanto, ma che adesso viene attuato veramente, puntando a un recupero più energico nei confronti di soggetti che nutrono un serio desiderio del cambiamento.

 

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Un evento speciale, 29-06-16

Marcello Portaro

Innanzitutto, ci tengo a ringraziare tutti per questa occasione, per me senza precedenti, attraverso la quale ho la possibilità di rendere partecipi i miei familiari del percorso intrapreso col Gruppo della Trasgressione, in una direzione che in passato a me, e forse a tanti di noi, era ignota, se non addirittura impraticabile e incompatibile per la nostra cultura. In realtà, oggi, questa direzione è per me la più adeguata e soddisfacente che avessi potuto inseguire e praticare.

Oggi qui davanti a me ho mia sorella e mentre leggo questa lettera faccio fatica a incrociare il suo sguardo, senza provare rammarico per quante sofferenze ho portato a lei e a tutti i nostri familiari per una quantità indescrivibile di cose sbagliate fatte fin da quando ero ragazzino, con una progressione talmente negativa da farti chiedere, mia dolce sorella, se valeva la pena di viaggiare da un carcere all’altro per stare vicino a quel tuo unico fratello che lentamente sciupava la sua vita e quella degli altri.

Oggi ho qui anche la mia nipotina e voglio raccontarle una favola. Il protagonista sono io, piccola principessa, che durante il percorso della vita mi sono trovato di fronte a dei bivi che non ho compreso quanto fossero importanti.

Lo zio ha sempre scelto la via più facile e giorno dopo giorno si è ritrovato impantanato in una palude buia e piena di sabbie mobili che lo hanno portato sempre più giù. Il mare aperto era vicino, tuttavia la paura m’impediva di muovere le braccia per nuotare e lasciare quella palude che ormai sembrava la mia casa.

Un giorno vidi passare un veliero con il suo capitano e con tutto ii suo equipaggio. Il veliero aveva un nome molto bizzarro, si chiamava Gruppo della Trasgressione. Ebbene quel capitano dall’aspetto burbero mi tese una mano e col suo linguaggio a volte colorito a volte provocatorio m’invitò a fare un giro. Mi disse che forse le mie gambe, chiuse dal fango, potevano lentamente riprendere a camminare e, collegandosi con dei pensieri nuovi, forse avrebbero imparato a scegliere delle strade, più difficili da percorrere, ma che mi avrebbero riportato da te, bellissima nipotina, e dalla tua mamma e soprattutto non mi avrebbero più portato nella palude buia.

Sai, all’inizio sono salito sulla nave e quel capitano a volte un po’ antipatico cominciava a parlarmi di cose strane, incomprensibili, come il delirio d’onnipotenza, i limiti, l’autorità, fragilità, vulnerabilità, seconda possibilità, e tante altre cose.

Pensa che noia all’inizio! Poi però le varie tematiche cominciarono a fare breccia nella mia mente facendomi riflettere e quelle cose, che sembravano noiose e incomprensibili, mi portavano a farmi tante domande su quanto è bello il piacere della responsabilità e della consapevolezza.

Cominciai a pensare che ognuna di quelle cose che per lo zio erano insignificanti, uniti alla voglia di crescere troppo in fretta quando ero bambino, mi hanno lentamente portato in quella palude buia.

Ma ora sono sul veliero della Trasgressione e ogni approdo che facciamo è una ricchezza in più da condividere con voi. Ciao piccola principessa, ciao dolce e amata sorella. Un giorno approderò da voi. Grazie a tutti.

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Il sorriso perduto

Maurizio Giuseppe Piseddu

L’altro giorno camminando per strada
ho trovato per terra un sorriso
e ho pensato che forse qualcuno
l’avesse lasciato cadere.

L’ho raccolto e ho deciso di darlo
a qualcuno che l’avesse smarrito.
D’improvviso vidi arrivare
una donna truccata, elegante

Ma… qualcosa le mancava sul viso
forse, era proprio il sorriso…
La fermai… e le chiesi:
Signora… per caso le manca qualcosa?

Screanzato e villano che è
a fermare una nobile donna
che di certo non pensa ‘stè cose
e nemmeno a uno che osa!

Disturbare persone perbene
è senz’altro un gran disonore
per cui, smetta di chiedere cose
e mi lasci… che ho tanto da fare!

Maltrattato e un tantino anche offeso
pensai di buttar via quel sorriso,
ma ascoltando la mia voce interiore
lo serbai per un’altra occasione.

Quasi che fossi stato ascoltato,
vidi lesto arrivare un ragazzo
che gioioso abbracciava una tipa
come se… fosse il suo fidanzato.

Chiesi loro se potevo mostrare
quel che in tasca avevo serbato
ma le facce stupite dei due
eran quelle… di chi ha altro da fare.

Sconsolato e pien di rancore
maledivo chiunque incontravo
fino a quando non vidi arrivare
un bambino solo… e piangente.

Lo fermai e gli chiesi il motivo
di cotanta tristezza infinita
Ma… rispose con lacrime amare
come se… non avesse più vita.

Mi commossi a vedere il suo viso
sconsolato e rigato dal pianto
carezzai la sua testa piegata
e dolcemente lo invitai a raccontare

Oh, mio giovane e triste bambino,
io non so cosa c’è che ti affligge
ma di certo… parlandone insieme
cambierà quel che sembra un destino.

Come mai tu procedi da solo
e non sei insieme a qualcuno
che ti segua nelle tue esplorazioni
e ti protegga su questo cammino?

Vorrei tanto poterti aiutare
e portarti dai tuoi genitori
che chissà quale grande spavento
stan provando per il loro piccino.

C’è una cosa che ti voglio donare
e che presto potrai utilizzare…
ecco… guarda… è un grande sorriso
che ridipinga il tuo bellissimo viso.

Tieni a mente questo grande segreto…
“Che la vita è una lunga avventura
e che vince soltanto colui
che sorride senza alcuna paura! ”

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Caro fratello

Caro fratello
Noemi Ottaviani

ti scrivo perché da un po’ tempo mi sta succedendo una cosa strana: sento il bisogno di condividere la mia vita con la mamma! Tu sai perfettamente quali sono stati in passato i miei sentimenti verso di lei e sai quanto abbia sofferto la sua assenza e la sua distanza.

Spesso ripenso a quando eravamo bambini, all’Orfea, la nostra baby sitter, ricordo che quando tornava nostra madre a casa io, invece di salutarla, correvo ad abbracciare e a dare il bacio della buona notte all’Orfea e, guardandola che se ne andava, mi si riempiva il cuore di tristezza perché io avrei voluto che lei mi rimboccasse le coperte quando era ora di andare a dormire.

Ricordo le ore che passavo da adolescente attaccata alla finestra alle 9 di sera, guardando fuori, nel buio della notte d’inverno e nel profondo della nebbia della pianura, aspettando di vedere la macchina della mamma che tornava da lavoro, qualche volta la vedevo, altre, le più numerose, non la vedevo tornare perché ad un certo punto mi arrendevo e andavo a dormire. Ricordo i tanti pensieri che mi passavano per la testa: perché torna così tardi? Perché non torna a ora di cena per stare con noi? Chissà se la mamma ha un altro uomo! Come mai non è ancora arrivata, avrà avuto un incidente? Ricordo come fosse oggi il vuoto che mi pesava sul petto e quella sensazione che mi faceva sentire così poco importante per una donna che per me avrebbe dovuto essere la Mia Mamma.

Ricordo quando lei e il papà litigavano, urlando da una stanza all’altra per ore, tutte le poche ore che la mamma passava a casa. Il sabato e la domenica erano due giorni di urla e insulti, io più di una volta ho scritto un bigliettino che recitava: “smettetela di litigare per favore!”, e la risposta puntualmente era: “noi non litighiamo, discutiamo. La mamma e il papà si stanno solo confrontando su alcune cose. E’ il nostro modo di parlare”, e allora io, non esattamente convinta della loro risposta, me ne andavo, fiera di averli fatti smettere per cinque minuti e triste per la breve durata di quegli stessi cinque minuti.

Ricordo tante cose poco felici e che mi hanno fatto crescere con un senso di odio nei confronti di quella donna che avrebbe dovuto essere la Mia Mamma, ricordo i suoi tentativi di separazione e la sofferenza che ci ha fatto vivere, potrei andare avanti ore a elencare cose di questo tipo, ma non ti sto scrivendo per questo.

Ti sto scrivendo perché in questi giorni al gruppo abbiamo parlato di cosa dovrebbero fare i figli per diventare adulti pur avendo pessimi rapporti con i propri genitori. Il Dott. Aparo, che per me è come un secondo padre e spesso mi rattristo pensando a te che non hai nella tua vita una persona come lui, ci ha parlato di bonifica dei genitori, cosa vuol dire?

Ognuno di noi nasce figlio di genitori incompleti e imperfetti e questo può far si che la vita dei loro figli venga segnata profondamente da queste loro imperfezioni. Per questo motivo ogni figlio ha il compito di bonificare il ruolo dei propri genitori perché è un’illusione che le persone di 30 o 40 anni possano diventare uomini veri senza un padre e una madre interiorizzati. Per diventare un adulto capace abbiamo bisogno di interiorizzare una figura che sia credibile, dobbiamo riuscire a far diventare l’immagine dei nostri genitori un’immagine positiva. Fino a quando conserviamo rabbia e rancore nei loro confronti non possiamo diventare persone adulte e quindi dobbiamo bonificare la loro figura. Dobbiamo rintracciare quello che di buono hanno fatto per usare questi ricordi come piccoli semi per far crescere dentro di noi un’immagine sufficientemente positiva di mamma e papà. Diversamente siamo condannati a replicare l’immagine distruttiva che abbiamo interiorizzato.

Io credo di essere sulla buona strada, perché, oltre ai ricordi di cui ti ho scritto sopra, sempre più spesso ricordo di quando la mamma nel periodo natalizio mi portava in tutte le chiese della città a vedere i presepi, insieme vivevamo quella magica atmosfera del Natale e dopo un intero pomeriggio di camminate mi portava a fare merenda in un bar dove bevevamo un thè caldo e mangiavamo un toast. Che buono quel toast in quel bar! Non sono mai più riuscita a ritrovare il gusto di quelle semplici fette di pane tostate da nessuna parte.

Ricordo di quando ci portava a comprare le scarpe e dopo ci comprava il gelato in Piazza Garibaldi, al Master Cream, la gelateria migliore di tutta Mantova, e poi ci sedevamo sulle panchine del parco contenti delle nuove scarpe e ancora di più, del fantastico gelato che avevamo tra le mani.

Ricordo di quando la domenica mattina prima di andare a pranzo dalla nonna mi faceva la doccia e con una rara dolcezza, o forse una dolcezza da me immaginata, mi metteva lo shampoo nel capelli e mi diceva di guardare gli uccellini sul soffitto in modo che non mi andasse il sapone negli occhi.

Ricordo quando passavamo le serate a fare assieme i puzzle di 5000 pezzi facendo a gara a chi riusciva ad incastrarne di più.

Ricordo quando la domenica mattina ascoltava le canzoni di De Andrè e di Gaber mentre preparava da mangiare e noi insieme sul divano giocavamo e puntualmente finivamo col picchiarci, ma va beh… noi eravamo bambini!

Da un po’ di tempo dedico i miei pensieri a questi ricordi e da un po’ di tempo ho voglia di telefonarle per raccontarle le cose belle o meno belle che mi stanno succedendo!

Con affetto,
tua sorella.

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La scala dentro

La scala dentro
Sofia Lorefice

Un luogo dove scappare e ritrovarsi questo era per noi quella casa. Ha detto Carmelo al telefono.

E ora come facciamo? gli chiedo io. Ce la portiamo dentro. risponde mio fratello.

Sì ma non è facile, non lo è per noi, figurati per lui che se la è costruita e che lì dentro ha costruito la sua vita.

Mio padre è un architetto e sa costruire. Quella casa se l’è costruita per davvero. Non solo nella fantasia ma anche nei disegni, nei calcoli, nei mattoni, nelle piastrelle che mia madre gli ha fatto cambiare 16 volte per via delle fughe che a lei sembravano storte. Se l’è costruita con le finestre grandi, le pareti un po’ tonde e un po’ squadrate che escono dal volume delle stanze. Se l’è costruita con le terrazze, con il camino affusolato e con la scala a chiocciola dentro al centro della casa.

Quella scala era la parte più resistente sulla quale si reggeva tutto il resto. Bambini in caso di terremoto andate sotto alla scala, ogni tanto ce lo ricordava: Sotto la casa c’è l’argilla ma quella scala non crollerà né ora né mai, la ho fatta io.

Noi siamo cresciuti sostenendoci a quella scala. Ci abbiamo ballato intorno la sera quando rientravamo a casa con lui. E mamma non c’era. E lui accendeva la musica a palla e ballava per scacciare la nostalgia. Abbiamo sempre saputo che sotto c’era l’argilla ma sapevamo anche che quella scala teneva tutto e non sarebbe crollata. Perché? Perché la aveva costruita lui!

Dentro di me e di mio fratello e forse anche dentro a quella Nica c’è una scala a chiocciola costruita sull’argilla. È una scala che porta la firma di mio padre: la sua risata, la sua fatica, la sua forza, i suoi pensieri, la sua fantasia e l’allegria.

È una scala di marmo senza spigoli e con i buchi sul muro all’altezza di ogni scalino per non smettere di guardare il mare neanche mentre si sta salendo. È una scala dalle pareti bianche, più volte imbiancate perché tutti e tre noi figli, ciascuno a suo tempo, non ci siamo risparmiati la soddisfazione di disegnarci sopra con le matite colorate.

Dentro alla casa, nel suo cuore, ci sta quella scala che mio padre ha costruito perché sostenesse tutto il resto. L’ha fatta a prova di terremoto e di qualsiasi altra scossa. Fino ad ora aveva retto ed è difficile pensare che da una settimana esatta quella scala non sia più lì per noi. È faticoso convincersi di poterne fare a meno. E ora come facciamo? Proveremo a portarcela dentro.

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