Il male complesso e banale

Un incontro aperto per allargare i confini dell’indagine
che il Gruppo della Trasgressione conduce da anni su

La banalità e la complessità del male

Una intervista registrata di Tiziana Elli e di Edoardo Conti a Roberto Cannavò e ad Adriano Sannino e il dibattito che ne è seguito con loro giovedì 17 dicembre 2020 sulla pagina  Facebook del Gruppo della Trasgressione per

  • esplorare come si sprofonda nella palude del male e con quali mezzi se ne può uscire;
  • comunicare gli obiettivi e le responsabilità del nostro gruppo nella società;
  • conoscere la complementarità fra i diversi componenti del Gruppo della Trasgressione (autori e vittime di reato, studenti e detenuti, cittadini e istituzioni);
  • coltivare le risorse e le alleanze utili per onorare quanto indicato dalla costituzione;
  • investire sulla impegnativa costruzione di nuovi equilibri con nuovi cittadini più che su una lunga e improduttiva segregazione di chi ha offeso in passato il bene comune.

Disamistade (Fabrizio De André), La Trsg.band a Peschiera Borromeo, Novembre 2018

Collegamenti e Approfondimenti possibili:

 

Sconfinare verso nuovi equilibri

Katia Mazzotta

Una fonte cui attingere

Luigi Petrilli

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

Una crescita continua

Adriano Avanzini

Benefici per la comunità

Valentina Marasco

Le interviste del Gruppo della Trasgressione

I miei cento passi

Non ho memoria dei miei primi passi, ma ricordo la mano di mia madre che mi sosteneva; sapevo dentro di me che quella mano non mi avrebbe mai lasciato. Un giorno che non saprei descrivere smisi di camminare e incominciai a correre.

Sentivo una spinta interiore che mi spingeva a correre sempre più veloce. Sono passati gli anni e oggi ho solo un vago ricordo di cosa provavo quando smettevo di correre e riprendevo a camminare. Quei ricordi sono la mia vera vita vissuta. Camminando, assaporavo i dettagli del mondo che mi circondava, vedevo e sentivo le persone…

Ma erano solo pochissimi passi, poi l’urgenza di correre riprendeva senza che ne sapessi il perché. Sono cresciuto correndo all’impazzata senza comprendere il mondo che mi circondava, ma soprattutto senza capire perché correvo.

Poi in una pausa dalle mie corse sei arrivato tu, figlio mio. Assistere alla tua venuta al mondo è stato ed è ancora oggi il più grande evento della mia vita. Ma a quel tempo quella gioia è durata un battito di ciglia. Ripresi di nuovo a correre, ma questa volta le mie corse non erano più tanto frequenti e lunghe come le altre volte. Così ricordo bene il tuo respiro mentre ti stringevo forte, ti osservavo mentre dormivi, ti sussurravo di fare sogni belli che papà era lì con te. Ricordo i tuoi primi passi sostenuto da me e dalla mamma e quando andavi per casa con il girello.

Ed ecco che di nuovo quella maledetta spinta mi fa correre sempre più veloce. Stop! Mi hanno fermato, arrestato per l’ennesima volta. Ma questa volta c’eri tu e io ti ho abbandonato per correre. Ci sto male, sento di aver bisogno di aiuto per comprendere il mio male, ma l’orgoglio e l’arroganza, che insieme al rancore sono stati la mia quotidianità, non lo accettano.

Ma la stessa spinta inconsapevole che mi aveva fatto correre mi spinge adesso a cercare di capire, a chiedermi il perché. E così ho conosciuto il gruppo della trasgressione e il suo coordinatore. All’inizio non riuscivo a comprendere la mia nuova spinta, anzi cercavo con tutte le forze di respingerla. Ma per mia fortuna non ci sono riuscito e mese dopo mese diventava una mia nuova inconsapevole ossessione comprendere il perché delle mie corse.

Incominciai a non correre quasi più. Incominciai a camminare sostenuto dal gruppo e dal dott. Aparo e con loro cominciai a riconoscere che quella spinta che mi faceva correre aveva dei nomi ben precisi: dolore, rancore, arroganza, mancanza di punti di riferimento, cancellazione dell’altro. Ho compreso che le mie corse non erano altro che il risultato del mio disagio interiore e che il mio rancore mi portava dove voleva lui senza che io potessi impedirlo. Ero un burattino nelle mani dei miei stati d’animo.

Tu, figlio mio, sei stato, insieme alla mia voglia di vivere con te, quella fiammella che con l’aiuto di del gruppo mi ha permesso di fermarmi. Adesso il mio stato d’animo è sereno. Oggi cammino, vivo e mi incuriosisco della vita. Ora di fronte a me ci sono tante scelte e strade da percorrere… e non bastano cento passi. Nel mio futuro ci sono mille e poi ancora mille passi con te, figlio mio.

GENITORI E FIGLI

Riscoprirsi per i figli

Antonio Tango

Le interviste del Gruppo della TrasgressioneI cento passi
Gratitudine e rancoreTango spara al cimiteroLa luce di Caravaggio

Tango spara al cimitero

di Michele Focarete -LIBERO 17/11/2020

Di questi tempi punta la pistola alla fronte delle persone. Ma si tratta del termoscanner per misurare la febbre a chi deve entrare nel cimitero Monumentale. In altri tempi avrebbe puntato il “ferro” contro le forze dell’ordine e i gioiellieri per guadagnarsi la fuga o rapinare.  E sì perché Antonio Tango, 57 anni, 29 dei quali passati dietro le sbarre di 20 prigioni italiane, ora è un bandito in cerca di riscatto. Un balordo che, come dice lui, “voglio diventare un cittadino”.

Tango è detenuto nel carcere di Bollate, ma gode dell’articolo 21, che gli permette un lavoro all’esterno. Dalle 8.30 alle 19.30. Poi rientro in cella. Quando lo hanno beccato l’ultima volta, nel 2008, gli affibbiarono 7 rapine e lo condannarono a 18 anni. Vista la buona condotta dovrebbe uscire nel settembre 2022.  Adesso, intanto, lavora al Monumentale. Dove la gente chiede informazioni e ha l’obbligo di provare la febbre per accedere alle tombe. In passato aveva già dato una mano durante Expo.

Non ha tatuaggi, ma solo ferite da mostrare. “Mi hanno sparato quattro volte”, ricorda senza imbarazzo, “alla schiena, al braccio, alla pancia. Anche una coltellata durate una rissa in discoteca, con la lama che si era spezzata dentro al polmone destro”. Ferite che gli sono valse l’appellativo di Robocop. E ricorda quando i complici lo scaricarono mezzo morto davanti al San Carlo. “Devo sempre ringraziare quei medici che hanno compiuto il miracolo. Fu durante un conflitto a fuoco con un gioielliere, ma a colpirmi fu un proiettile di un mio compagno. La pallottola rimbalzò sul tettuccio dell’auto e mi entro nella schiena zigzagando. Attraversò l’intestino, la milza lo stomaco i polmoni e si impiantò nella punta del cuore. I dottori chiamarono subito mia madre per acconsentire all’intervento. Dodici ore sotto i ferri. Tre giorni in coma, 15 in rianimazione e poi immobile su una sedia. Ripresi a camminare dopo circa 4 mesi”.

Di rapine ne ha fatte tante. E le sue prime condanne furono per colpi messi a segno a Cattolica. Tre in un giorno solo, che in gergo viene chiamata la tripletta. I suoi obiettivi le banche, i supermercati, i Bingo. “Poi quando ti prendono”, continua Tango, “racconti che lo facevi per soldi, per la famiglia che aveva bisogno. Tutte balle. Ero rancoroso, ce l’avevo col mondo intero e incolpavo tutti del mio disagio. Rapinare mi faceva sentire vivo e mi dava un senso di potere. Quando andavo in giro per Milano, guardavo solo le banche, le gioiellerie. Ero maniacale. Un disagio mentale che mi portavo addosso fin da piccolo”.

Poi, 13 anni fa, la svolta. L’incontro in carcere con Angelo Aparo, lo psicoterapeuta che trasforma i detenuti in cittadini. Il medico che tutti chiamano Juri, nome preso in prestito da antichi pensieri sul dottor Zivago. “Entrai così nel suo “Gruppo della Trasgressione”, accanto a assassini, corrotti, ladri, poco importa. Per farne parte e avere diritto di parlare dovevi recitare una poesia o il teorema di Pitagora. Dovevi insomma dimostrare che ti eri impegnato a imparare qualcosa. Per viaggiare, come direbbe De André, “in direzione ostinata e contraria” al nostro passato criminale. Autoanalisi, analisi di gruppo, incontro con le vittime di reato e uscite nelle scuole e con le istituzioni”.

E poi il figlio. Che Tango aveva di fatto abbandonato quando aveva 15 mesi. “L’ho ritrovato. Adesso fa la terza media e ha ottimi voti e ne sono orgoglioso. Dentro di me ho dovuto ricreare un equilibrio e togliere i conflitti. Ma come, mi sono detto, per lui avrei dato la vita e l’ho abbandonato. Così ho scoperto un lato buono di me e l’amore di un figlio. Lui ha capito che suo padre si è riscattato, che adesso è un ex bandito”.

 

L’arma migliore contro il degrado

L’istituzione era mia grande nemica in passato. Quando mi arrestarono presi questa punizione con tanta arroganza che non mi importava nulla delle conseguenze che potevo creare a me stesso e agli altri. Non ho reati di sangue, ma questo non significa che il mio spaccio di droga sia meno grave, anzi con la mia incoscienza alimentavo come uno stormo di uccelli il degrado della collettività oltre a danneggiare me stesso.

Quando ero molto giovane ero ammaliato da personaggi che nel mio quartiere sembravano i padroni di tutto e tutti. Io li imitavo e li seguivo fino al punto che, se avevo dei problemi, loro c’erano, mi aiutavano. Più il tempo passava più forte diventava la mia corazza, con la nebbia negli occhi la rabbia cresceva e anche la mia incoscienza, a tal punto che non ero più io a chiedere aiuto ma erano loro a rivolgersi a me quando avevano un problema da risolvere. Ero diventato un pilastro importante di quella organizzazione.

Oggi riesco a capire che sì, ero un pilastro solido e importante, ma del degrado, tanto è vero che sono qua rinchiuso. Accetto questa punizione con molta più serenità perché so che con le mie azioni ho contribuito ad aumentare il degrado nella società e non ho più bisogno di un giudice che mi punisca per capire quello che è giusto o sbagliato.

Sono contento di avere ritrovato me stesso e di essere finalmente pulito con la mia famiglia e questo mi fa sentire libero, anche se è strano sentirsi liberi quando la coscienza ti dice che hai sbagliato. Credo che questo è il risultato del percorso fatto col gruppo della trasgressione, anche se so che dovrò lavorare ancora e che devo imparare a confrontarmi. Punizione e regole ci devono essere, ma noi dobbiamo capire le nostre responsabilità e l’istituzione non deve dimenticarsi di noi.

Credo che le istituzioni devono e possono fare molto di più con strutture e personale qualificato per facilitare il recupero dei detenuti. Oggi l’istituzione si deve rendere conto che, se vuoi contrastare il degrado, le persone con caratteri difficili non vanno abbandonate ma aiutate.

Nella vita ho indossato molte maschere cambiandole come un camaleonte in base alle situazioni, ma la migliore che mi dà più soddisfazione è quella che indosso ora con un terzo occhio che mi fa vedere oltre il muro che avevo alzato molto tempo fa.

Fino a poco tempo fa non avevo detto la verità ai miei figli; dicevo, come la maggior parte di tutti i genitori detenuti, che lavoravo e con questo cercavo di proteggerli o, per lo meno, così pensavo. Il dott. Aparo ci ha spiegato e fatto capire che è sbagliato mentire, ed ecco che grazie a quella maschera con il terzo occhio che io chiamo l’occhio della coscienza, ho avuto il coraggio e la serenità di comunicare ai miei figli la verità… che sono in galera e che le istituzioni non sono i nostri nemici ma l’arroganza e l’incoscienza che il loro papà aveva quando era giovane.

Ora capisco che se avessi continuato a tradire i miei figli, un giorno loro si sarebbero sentiti altrettanto in diritto di tradire e questo sarebbe grave per il loro equilibrio. Spero che nel tempo questo nuovo modo di parlare con i figli arrivi anche ai miei compagni detenuti che non hanno la possibilità di frequentare questo gruppo, ai cittadini che sono fuori liberi e alle persone che ancora si fanno travolgere dall’idea di diventare importanti in fretta. La coscienza è l’arma migliore per difendersi.

Paolo De Luca

Genitori e FigliArroganza e Coscienza

 

Le zanzare vincono quasi sempre

Le zanzare per nostra sfortuna vincono sempre, o quasi.

È una notte d’estate, mentre tutti dormono, sento le zanzare che cercano ostinatamente di attaccarmi: è un combattimento impari, vincono quasi sempre loro. In questa battaglia notturna mi viene in mente mio padre. È molto tempo che non lo ricordavo più, chissà perché. Fa un caldo terribile in queste celle, il caldo toglie il respiro, mi vien voglia di urlare, intanto penso a mio padre. Cerco anche di ricordare i visi delle persone che conoscevo, ma inutilmente; sarà il caldo, penso. Mi sforzo ma è inutile ricordare i loro visi, non ho neppure le foto di tutti coloro che vorrei ricordare e associare alla mia vita passata. Ho trascorso parecchio tempo in carcere e ho incontrato molte persone. Con alcune di loro abbiamo fatto un percorso di confronto culturale e personale, tuttavia ricordo a stento i loro nomi. Ho sempre pensato che è meglio non affezionarsi a nessuno, specie in luoghi come questo.

Mio padre era un semplice contadino, ha cercato per quanto gli fosse possibile di darmi degli insegnamenti; ha fatto di tutto, sono io che non ho fatto nulla per aiutarlo. Ricordo in particolare quando durante l’estate ci svegliava prestissimo per aiutarlo ad irrigare i campi dove lui lavorava, dal momento che il suo turno di erogazione dell’acqua gli veniva concesso durante la notte; ricordo le sue corse con la zappa in mano per tappare i buchi nel terreno, quelli lasciati dalle piccole talpe che fuoriuscivano alla ricerca di refrigerio, onde evitare che andasse persa qualche goccia d’acqua.

A pensarci bene, non ho una foto da adulto insieme a lui. Lo ricordo sempre alla ricerca di una giornata di lavoro, ce la metteva tutta per portare, come si dice, il pane a casa. Abitavamo in una casa colonica, di caldo ne faceva tanto durante l’estate in quel profondo sud. Invece oggi debbo sopportare lo stesso caldo, con la differenza che a casa potevo uscire e dormire fuori all’aria aperta, magari sopra l’erba rinfrescata dalla brina notturna; mentre qua non è possibile, ci sono i cancelli di ferro. Ecco che di nuovo il pensiero corre a mio papà, alla mia infanzia, ai miei quattro fratelli e a mia madre. L’ultima volta che ho incontrato mio padre è stato in carcere, era venuto a trovarmi, forse ad abbracciarmi per l’ultima volta; stava per morire, ho visto gli occhi di mia madre che me lo enunciavano, mentre lui si sforzava di chiacchierare forse per darmi coraggio. Pensava forse che avessi bisogno di quello.

Oggi penso a tutto quello che avrei voluto dirgli, raccontare di me, della mia vita, manifestargli il mio affetto, la mia stima, la mia ammirazione per la sua grandiosità di essere uomo, per la sua umiltà, per non averci mai fatto mancare nulla, né a noi né a mia madre, che venerava. Non ho voluto farlo, forse per non apparire debole ai suoi occhi e me ne rammarico.

Mi bastava guardarlo per capire quello che gli passava per la testa, era una persona semplice, non conosceva cattiveria, malizia, invidia. Non sapeva cosa fossero. Non erano sentimenti che gli appartenevano, per questo molti si approfittavano della sua nobiltà d’animo e della sua incapacità di sottrarsi alle richieste di aiuto; era facile per gli altri circuirlo, approfittando della sua semplicità, per non pagarlo della fatica che svolgeva nei campi. In poche parole era semplicemente una brava persona, perbene, con delle qualità rare, tanto da sembrare anacronistico nei suoi modi di fare. La sua vita sacrificata mi faceva arrabbiare parecchio.

Ho iniziato già da ragazzino ad applicarmi con l’intento di riuscire a dare ed avere qualche soddisfazione in più, ma diventando tutto l’opposto di lui. Ho avuto molte soddisfazioni per il mio carattere, ma questo mi ha anche trascinato fuori dal contesto sociale. Non desidero attenuanti. Invece vorrei parlare a mio padre in questa notte di caldo, chiuso in una cella insieme ad altre due disgraziati come me, che adesso dormono beatamente con il lenzuolo bagnato appositamente d’acqua sopra il corpo. Vorrei chiedergli scusa per la mia assenza al suo funerale, non è dipeso dalla mia volontà; chiedergli scusa per tutte le volte che avrei voluto abbracciarmelo forte per dirgli quanto mi è mancato, quanto mi hanno fatto sentire sicuro i suoi di abbracci, per dirgli “grazie Papà per tutto quello che hai fatto per noi”.

Ieri ho chiamato mia madre e dopo i primi convenevoli, mi ha detto che a breve ricorre l’anniversario della morte di papà. Ho risposto che quella data non la dimentico e che ho pensato di fare recitare una messa dal cappellano. È una bugia, non sono credente e mia madre non lo sa; se lo sapesse ne farebbe un dramma.

Non riesco a dormire ed accendo a volume zero la tv, guardo le immagini di migranti sui barconi; molti non arriveranno a destinazione, altri forse ce la faranno e sono contento per loro. Penso questo perché credo che ognuno abbia bisogno di opportunità, di una chance, per raggiungere la felicità, o perlomeno per tentare di migliorare il proprio stato. Mi rattrista pensare che molti rimarranno delusi nelle loro aspettative non trovando l’isola felice che speravano di raggiungere. Alcuni di loro dopo la lunga attraversata, si ritroveranno in carcere, inghiottiti in questa buia voragine, aggiungendo alla sofferenza passata quella che il carcere riserverà loro, comprese le torride notti di caldo trascorse a lottare contro l’infinito esercito delle zanzare, che cercano continuamente di attaccare e che, per nostra sfortuna, vincono sempre, o quasi.

Vincenzo Martino

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