Il mito di Sisifo a Buccinasco

Genitori e figli, insegnanti e allievi, cittadini e istituzioni
al teatro Fagnana per un’alternativa alla fatica di Sisifo

Il lavoro del Gruppo della Trasgressione sul mito di Sisifo, avviato nell’intento di intercettare fantasie antiche, è diventato nel tempo uno strumento formidabile per riflettere sul presente e per recuperare passaggi centrali di chi ha perso la fiducia nelle istituzioni e nel proprio futuro. 

Le vicende di Sisifo sono diventate un racconto nel quale specchiarsi, motivando studenti e detenuti del gruppo a indossare i panni dei diversi personaggi e a interrogarsi sul problema della siccità a Corinto, sui conflitti di Sisifo con Giove, degli adolescenti con il limite e l’autorità, del cittadino con le istituzioni, dell’uomo con i suoi bisogni terreni e le sue ambizioni di eternità.

Sul mito di Sisifo

Legami profondi

Gratitudine e rancore. Che strano binomio! Questo il mio pensiero quando tale binomio è stato proposto per la riflessione. Mi sfuggiva il legame esistente tra i due termini.

Mi sono addentrata nella ricerca del significato della parola rancore e ho scoperto che la dinamica di relazione tra due persone tra le quali intercorrono episodi ripetuti di gentilezze e favori ricevuti presenta risvolti inaspettati e reazioni non necessariamente benevole.

Una gentilezza compiuta a favore di qualcuno che non l’ha richiesta può suscitare disappunto. La gentilezza può aver luogo, infatti, solo se c’è una mancanza in cui inserire l’azione, un bisogno più o meno esplicito che la giustifichi. Alle volte dunque, la gentilezza può essere percepita come una sottolineatura della mancanza, dell’incapacità di affrontarla della persona che ne fruisce. Un esempio banale ma efficace può essere quello di chi cede il posto a sedere sul tram a una persona che secondo il cedente ha più bisogno di stare seduta di lui. Ma compiendo questa gentilezza il cedente sottolinea la mancanza che vede nella persona omaggiata: mancanza di energia, mancanza di gioventù. La sua gentilezza può risultare sgradita. Insomma la gentilezza, quando non richiesta, se continuamente reiterata, può generare rancore invece che gratitudine.

Quando poi, leggendo Rainer Maria Rilke, mi sono imbattuta in una poesia sul figliol prodigo, ho compreso che il poeta aveva invece intuito la possibile problematicità nella relazione tra chi ama non richiesto e l’amato. Ciò mi ha costretto a pensare al significato della parabola e ad ammettere che, in fondo, non l’avevo mai veramente capita.
Non avevo capito la fine, con questa festa esagerata per accogliere un ingrato, né tanto meno l’inizio. Perché il figlio abbandona la casa paterna? La parabola non lo spiega.

Rilke propone una chiave di lettura che mi sarebbe parsa sconcertante prima della mia ricerca: il figlio se ne va, perché non vuole essere amato.
E perché non vuole essere amato? Forse perché non ha chiesto lui di essere generato. Forse perché essendo amato si sente privato di una porzione di libertà in quanto deve ricambiare, deve essere grato. Alla luce di questa interpretazione la parabola acquista finalmente un senso compiuto.
Il figlio che abbandona la casa paterna non è capace di gratitudine. Il figlio che ritorna l’ha imparata.

Il padre che lo amava all’inizio in quanto figlio, continua ad amarlo quando ritorna, ma forse con la festa grande non celebra solo il ritorno del figlio perduto ma la sua acquisita capacità di dire grazie, di provare gratitudine per l’amore ricevuto e non rancore.

Gratitudine e Rancore

Gratitudine e Rancore è il tema del nostro prossimo convegno.

Parlandone col dott. Aparo, ho pensato di mettere a confronto, per quella occasione, da una parte alcune immagini mie e di mio figlio e dall’altra la Medusa, una scultura che vedo al cimitero monumentale di Milano dove lavoro.

Ogni volta che la guardo, mi sento guardato e mi ricordo che il rancore pietrifica la crescita.

Io ero in balìa del rancore e lo usavo come una corazza per tenermi distante dagli altri e dai miei bisogni più intimi. Il risultato è stato che per anni mi sono sentito solo e ho rischiato di lasciar crescere da solo mio figlio Michael. Grazie al lavoro fatto in questi anni col gruppo, oggi sento che posso vivere anche senza quella corazza.

Auguro a tutti buon Natale e un felice anno nuovo e soprattutto un futuro ricco di legami e di gratitudine.

Antonio Tango

Le pesche di mio padre

Nicola Petrillo

Nella mia famiglia mostrare i propri sentimenti era come vietato dalla legge. Soprattutto sentire pronunciare da mio padre “ti voglio bene” era una cosa difficilissima, come mettersi a nudo davanti a un’altra persona, un segno di debolezza che doveva essere nascosto, come il corpo dai vestiti.

Ecco, io sono cresciuto così. Questo non significava la mancanza d’amore da parte dei miei, ma un lavoro più attento per percepire i segnali e i gesti di chi ti ama. Sono arrivato a questa consapevolezza solo dopo aver perso tutti i capelli e passato metà della mia vita credendo di non essere amato.

Nonostante i conflitti avuti da giovane con mio padre, nonostante le mie continue ribellioni, fino a vanificare tutti i suoi sacrifici e a distruggere quello che lui costruiva, nonostante buttassi disonore sulla famiglia, lui mi amava lo stesso. Forse aveva un modo strano di dimostrarlo, ma sempre di amore si trattava.

Una cosa che ho notato solo quando è venuto a mancare erano le pesche che mi portava al colloquio e, anche quando a causa della sua malattia non poteva più venire personalmente, me le mandava tramite mia madre.

I frutti erano pesche, ma erano grandi come piccoli meloni, facevo fatica a mangiarne una intera, non so dove riusciva a trovarle ma per me comprava il meglio. A confronto le pesche di mia madre erano grandi solo come pesche. Adesso, ogni volta che ne mangio una, non riesco ad evitare di fare il confronto con quelle di mio padre.

Le mettevo sempre in bella vista, in modo che ognuno che entrava nella mia stanza potesse vederle ed invidiarmi. Con orgoglio raccontavo che me le portava mio padre, spiegando che era il suo modo di dirmi che mi voleva bene. lo stesso, ogni tanto, andavo a guardarle, le toccavo assaporandone la consistenza, il profumo che emanavano. Cercavo di farle durare il più a lungo possibile, la sola vista di quei frutti mi addolciva il cuore.

A qualcuno che ritenevo amico, ogni tanto ne regalavo una, ma non lo facevo molto volentieri, mi sembrava di regalargli un po’ dell’amore di mio padre, come se lo togliesse a me.

Di questo rito, che fino all’anno scorso davo per scontato, ora sento la mancanza, mi manca quello che esprimevano le sue pesche.

Questo tipo di comportamento mi è stato tramandato, deve essere un’identità di famiglia. lo stesso, anche quando sento il desiderio di manifestare affetto, faccio molta fatica, come se qualcosa mi trattenesse da dietro.

A differenza di mio padre, io compenso questa carenza con i dolci. Chi vuole il mio affetto sappia che è soggetto ad ingrassare. Se la frutta fa bene, i dolci un po’ meno. Ma essere amati fa bene a tutti.

Ti voglio bene papà
Nicola

 

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Ricordi di schiena

Ivan Puppo

Frugo nella memoria con la cecità progressiva degli anni, estraggo un ricordo: mia madre ferma, dritta nella schiena, sguardo di madre lupa che m’avvolge e ammonisce il mondo. Allora inghiotto a secco, ho un tuffo al cuore.

L’infanzia poteva durare per sempre. Per un bambino che gioca, spazio e tempo non hanno confini. Da bambini il tempo ci corre addosso, più tardi siamo noi a corrergli incontro.

Il mondo ricominciava ad ogni risveglio, sembrava non scampare al sonno l’orma misera del giorno prima. A quell’età si possiede una specie di salvacondotto. Col tempo le notti non bastarono più!

Di occhi larghi e respiri mozzi è fatta la paura, di metallo è il suo sapore, di ghiaccio il suo abbraccio. Di desolazioni impronunciabili sono fatti i mutismi dei bambini.

Si cresce tacendo, mettendo una grande distanza fra sé e gli altri, si cresce bastando a se stessi. Si cresce sotto i colpi e lo spreco di un padre lontano, resistendo e non concedendo il disarmo del pianto.

Si cresce di bar fumosi e strade bagnate di scirocco, di puttane tristi come madonne dipinte, di silenzi custoditi e fitti di equivoci.

Si cresce solcando una città vecchia di vicoli e anni violenti, stretti come dita su una pistola, e di nuovo stretti di cemento e nostalgia fra uomini spazzati dal vento come foglie di cortile.

Ritorna nelle aule di tribunale il mutismo dell’infanzia come risposta al “vostro onore” di turno.

Che equivoco irrisolto è la vita: anziché rispetto ti regalano paura e tu la ridai in cambio di rispetto; predatore per correggere un destino da preda, creditore di giustizia pagato con la legge.

Qui, titolare di questa porzione miserabile di vita, testimonio il mio fallimento; qui, dove la rabbia muta in rimpianto, mi visita lo stesso ricordo di mia madre, che guarda il suo bambino muto e dice: “era solo un brutto sogno, ora è passato, dormi figlio”.

La guardo attraverso, intravedo qualcuno e mi chiedo: “è la mia questa figura di spalle che se ne va nella pioggia?”

 

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Una giornata particolare

Pasquale Fraietta

Oggi, in questo giorno particolare, ho finalmente l’opportunità di parlare con voi, in modo nuovo, mie care Maria Sole, Marianna e Serena. Vi ho lasciate così piccole che forse non avete ricordo di quel tempo: tu Serena non parlavi neanche, e tu Marianna lo facevi appena. Mentre tu, Maria Sole, hai un ricordo che mi fa pesare la mia inadeguatezza come papà, in quanto è legato a uno schiaffo ricevuto quando non avevi ancora 5 anni, perché in una giornata distratta vi avevo perse e non riuscivo più a trovarvi. La reazione istintiva al mio spavento è stata quella di darti uno schiaffo, forse quell’istinto acquisito nella mia infanzia, forse quello stesso che ha contribuito a farmi divenire quel che sono stato e che in parte sono ancora adesso. Non lo so! So solo che oramai, il fatto che Papà si trova in carcere, lo sapete da quando avete cominciato a sapere che dopo la notte arriva il giorno.

La Mamma ed io, abbiamo cercato di proteggervi dalla verità, pensando comunque di fare il vostro bene, forse in realtà quel che ci spaventava maggiormente è la responsabilità di gestire e amministrare questa verità. Tuttavia non possiamo impedire il naturale scorrere del tempo, per cui avete saputo anche il motivo per quale Papà si trova in carcere. Perché in una giornata maledetta ha tolto la vita ad una persona, e con essa, i suoi sogni, la sua esistenza e la gioia dei suoi cari. Ma quel che irrimediabilmente è successo, mie care bambine, è stata, purtroppo, la conseguenza di una cultura e un’educazione deviata fatta di riferimenti e guide sbagliate, che hanno portato inevitabilmente a delle scelte, forse inconsapevoli, ma dannatamente brutte e sbagliate.

Ma oggi sono qui con tutti i miei compagni del Gruppo della Trasgressione, a vivere una giornata particolare e forse anche speciale, una giornata in cui posso dirvi che il vostro papà si sta sforzando di ritrovare le guide e i riferimenti che orientano al bene, per raccontarvi che qui nel carcere e nelle scuole ci confrontiamo con tantissimi studenti che hanno solo qualche anno più di voi, proprio su quelle culture, quella educazione e quelle guide sbagliate. In un certo senso, ho la sensazione di vedere voi, fra qualche anno, forse in scuole diverse, ma con la medesima espressione negli occhi, gli stessi sogni, le stesse fragilità e insicurezze di tutti gli adolescenti.

Infine, mie amatissime, voglio dirvi che, se attualmente non posso essere presente alla vostra crescita, e in generale alla vostra vita, il mio desiderio sarebbe quello di farvi partecipare il più possibile alla mia vita di detenuto che si sta rivedendo e che vuole diventare una persona consapevole, un Papà presente e responsabile, attraverso l’insostituibile laboratorio di riflessione del Gruppo della Trasgressione, che mi fornisce gli strumenti necessari per praticare il piacere della consapevolezza e della responsabilità a tutti i livelli.

Il mio desiderio è di accompagnare il più possibile la vostra crescita e di consegnare a voi la mia crescita affinché un giorno nelle aule scolastiche e in generale nella vostra vita non dobbiate solo vergognarvi del vostro papà, ma possiate, con orgoglio raccontare come il vostro Papà sia riemerso dall’abisso del male alla luce della responsabilità. Come dice De Andrè «dai diamanti non nasce nulla e dal letame invece, possono nascere i fiori».

Vi amo tantissimo mie care e grazie a tutti voi del Gruppo della Trasgressione per averci regalato questa insolita, giornata particolare che promuove l’inclusione nel nostro percorso con i nostri figli e familiari. Grazie!

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Non è mai troppo tardi

Pasquale Trubia

Comincio proprio con questa affermazione, non è mai troppo tardi per riappropriarsi della propria vita, della propria dignità di padre, di marito. Non è mai troppo tardi per quella mia rivoluzione umana che mi consente di godere della mia vera identità. Non è mai troppo tardi per sfatare quel luogo comune che vuole che il figlio necessariamente debba emulare il padre.

Questa giornata avrei voluto viverla con la presenza anche di mio figlio, per sentire insieme con lui parte di quelle emozioni che purtroppo, a causa di una mia condotta morale votata al male e al delirio d’onnipotenza, sono mancate per troppo tempo. La mia esistenza, fin da quando ero poco più che un ragazzo, è stata costellata di violenza e turbamenti, provocando dolore immane a tante persone e a tutta la mia famiglia e, in particolare, al mio unico figlio, privandolo fin dalla nascita di suo padre.

Conoscendo l’ambiente dove sono nato, ho cercato in tutti i modi di farlo allontanare da quel contesto che inquina le menti e distrugge i sogni dei giovani, rendendoli prigionieri dell’ignoranza. Ho cercato in tutti i modi (compatibilmente alle condizioni economiche familiari) di farlo allontanare da Gela il mio giovane e unico figlio, ma nonostante gli innumerevoli sforzi attraverso le lettere, considerata la lontananza delle varie carceri dove mi trovavo recluso, non sono riuscito ad esercitare minimamente la funzione paterna, e ora si trova poco più che ventenne in carcere.

Ricordo che mancavano pochi mesi affinché conseguisse la qualifica di metalmeccanico, quando lo convinsi di trasferirsi nella città di Parma. In quel periodo mi trovavo recluso nel carcere di Parma. Avevo conosciuto un volontario che si era adoperato per inserirlo come apprendista (ancora diciassettenne) in un’azienda. Alloggiava in una residenza gestita dalle suore salesiane. Ha lavorato lì per circa un anno, poi purtroppo la crisi economica che attraversa tutto il paese da diversi anni ha compromesso anche la sua assunzione a tempo indeterminato. Sicché, non potendo far fronte alle spese per l’alloggio e il vitto (se pur economico) è stato costretto a rientrare a Gela.

Come un segno di un destino avverso, mi ritrovo mio figlio in carcere, accusato di associazione mafiosa perché prestava la sua macchina allo zio (sorvegliato speciale) o perché lo accompagnava in qualche posto, essendo lo zio privo della patente di guida. Nonostante io abbia ormai la consapevolezza che si perde la libertà a causa delle proprie debolezze, non posso fare a meno di pensare che le sue responsabilità non sono tali da giustificare l’estrema ratio della custodia cautelare per un giovane ventenne, catapultandolo nel mare più profondo, in balia delle seduzioni e delle tentazioni. Forse era sufficiente un ammonimento o forse ancora un procedimento a piede libero.

Il mio rammarico più grande è quello di non essere stato nelle condizioni di trasmettere a mio figlio questa mia sorta di “rinascita”, questa sorta di rivoluzione che sto vivendo nell’acquisire valori morali nuovi, finora del tutto sconosciuti, che mi consentono di vivere il presente aspirando al domani per me, mio figlio e mia moglie, nonostante il mio fine pena mai.

Mi dispiace che oggi non ci sia anche lui ad ascoltare suo padre, a vederlo nella sua vera identità, e non per quella che, scelleratamente, si era costruito fin da giovanissimo, per arrivare poi al nulla. Concludo ringraziando tutti e, se oggi sono qui con voi tutti del Gruppo della Trasgressione, qualcosa mi dice che non è mai troppo tardi.

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Il bivio

Marcello Cicconi

I bambini quando nascono sono tutti uguali, non hanno la consapevolezza di ciò che la vita futura potrà riservare. Ogni soggetto nasce in un determinato contesto famigliare, di conseguenza si forma acquisendo valori e improntandosi ad essi. Quando il contesto famigliare viene meno, l’ambiente in cui cresciamo è fondamentale, può formarci nel miglior dei modi o nel peggiore! Beh, io sono uno dei tanti che è cresciuto nel peggiore dei modi.

Oggi non sono più un bambino, bensì un uomo consapevole che quel bambino aveva mille difficoltà da combattere e la necessità di affrontarle. Mi sono indebitato col futuro nell’illusione di poter pagare i debiti del passato. Il mio comportamento mi ha portato ad avere tutto ma anche a perdere tutto. Ho perso molte battaglie lasciando quel bambino inerme sull’asfalto. Il tempo è passato lasciando sul mio corpo i segni dell’età e il ricordo di quel bambino abbandonato.

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Area verde, anno zero

Adriano Sannino

In occasione dell’incontro che il Gruppo della Trasgressione terrà, insieme ai nostri figli e familiari, il giorno 29 giugno 2016 presso l’area verde colloqui del carcere di Opera, mi farebbe piacere parlare della mia storia, o meglio, di cosa mi ha indotto a farmi perdere la libertà, cosa fa il gruppo nelle scuole e allo stesso tempo cosa ha dato a me.

Nell’ultimo incontro del “Mito di Sisifo”, il prof. Aparo, ha voluto che io provassi a recitare la parte di Thanatos (la morte). Thanatos nel mito è colei che procura la morte agli altri, o meglio Ade le dice di svolgere la sua funzione “uccidendo” le persone. Il personaggio di Thanatos mi ha portato indietro nel tempo quando svolgevo il ruolo del killer per un’organizzazione camorristica. Questo personaggio ha fatto sì che dentro di me si risvegliassero le emozioni di un tempo, per cui mi sono trovato in difficoltà a interpretare quel ruolo. Ho sentito il peso e il dolore che ho inflitto alle persone della mia famiglia, alla società e alle tante famiglie che per colpa mia non hanno più il loro congiunto.

Il nostro gruppo, come dicevo, va nelle scuole per fare prevenzione contro bullismo, tossicodipendenza, abuso e la devianza. Quando mi trovo davanti ai giovani, oltre a parlare a loro, parlo anche a me stesso, cioè al ragazzo che sta in me. Inoltre, nei volti dei ragazzi, vedo l’immagine dei miei nipoti, per cui parlo con gli studenti a cuore aperto e senza filtri. Sono felice se i ragazzi riflettono su quanto sia bello stare insieme con gli altri, su quanto sia bella la vita e quanto sia importante accettare le proprie fragilità, in quanto al mondo nessuno è perfetto.

Nelle scuole porto la mia testimonianza e ciò mi procura benessere, perché mi sento utile e apprezzato. Inoltre il pensiero che qualche ragazzo possa riflettere ascoltando la mia storia mi fa gioire, dà un senso alla mia vita e mi stimola a continuare nel percorso di miglioramento di me stesso.

Io ero un pezzo di legno imperfetto, poi mastro Geppetto con le sue competenze e con il suo modo di fare è riuscito a valorizzarmi fino al punto da farmi sentire importante. Questo ha fatto sì che, oltre a prendere sicurezza in me stesso, sono riuscito col tempo a esprimere le mie emozioni, invece di soffocarle come facevo prima. Imperfetto lo sono sempre ma, grazie al gruppo, ho capito che le imperfezioni non sono sempre negative, anzi, sono un valore aggiunto per chi le sa valorizzare.

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La Roma Sport

Nicola Petrillo

Arrivai a Milano nel 1967, in via Rovereto, traversa di Viale Monza. All’epoca era ancora periferia. Una zona piena di emigranti, in particolare calabresi e pugliesi, tutti con l’aspirazione di un futuro migliore garantito dal posto fisso e “con i libri”.

All’epoca eravamo poveri, per far quadrare il bilancio familiare mia madre, anche se aveva fatto solo la terza elementare, faceva invidia a una calcolatrice. Riusciva a far bastare sempre tutto. Erano i tempi che a casa mia si usava la “Frizzina”, poi diventata “Idrolitina” perché più economica. Per chi non lo sapesse erano bustine per far diventare l’acqua frizzante. Era impossibile convincere mia madre a comperare la Fanta, la domenica anche l’aranciata si faceva con le bustine. Mia madre per risparmiare allungava sempre tutto con l’acqua: dal caffè all’acqua stessa. Era un po’ come Gesù Cristo, moltiplicava il poco che c’era.

Il sogno di avere una bicicletta si fece strada nella mia mente quando facevo la prima media, avevo circa 12 anni. Ai tempi c’era la “Roma Sport”, una bicicletta da cross arancione, con il freno posteriore a pedale ed il sellino lungo, che ci si poteva stare anche in due. Era esposta nel negozio “Atala Sport” di Viale Monza, tra Pasteur e Piazzale Loreto. Quando ci passavo davanti, mi incantavo a guardarla, costava 20.000 Lire, una settimana di lavoro di mio padre. Era impensabile anche solo a parlarne. Le richieste a Babbo Natale non venivano esaudite, perché era povero anche lui. E anche la Befana si giustificava dicendo che la bicicletta, purtroppo, non entrava nella calza.

Durante il giorno i miei genitori lavoravano; io e mio fratello, più grande di 1 anno, andavamo in giro con due amici pugliesi, in cerca di opportunità per raggranellare qualche spicciolo. Un giorno arrivammo fino alla Stazione Centrale, attraversando Viale Monza, via Martiri Oscuri, via Ferrante Aporti, sempre dritto si arrivava ai treni. Era quasi impossibile perdersi. Quasi per scherzo, all’interno della stazione, aiutiamo una signora in difficoltà con i bagagli e glieli portiamo al binario dove lei doveva prendere il treno; ci diede 200 Lire di mancia per comperarci il gelato. Eravamo tutti contenti e, mentre ci leccavamo il gelato, ci venne l’idea che il giorno dopo potevamo ripetere l’esperimento, aiutare la gente che scendeva dal treno a portare i bagagli, nella speranza di una mancia. Funzionava fin troppo bene. Ogni tanto dovevamo scappare perché i portabagagli ufficiali, quando si accorgevano che gli portavamo via il lavoro, chiamavano la Polfer ma, tutto sommato, il rischio valeva la candela.

Insieme a mio fratello decidemmo che, se andavamo tutti i giorni e mettevamo da parte i soldi, potevamo comperarci una bicicletta. Una volta che avessimo avuto i soldi, nostro padre non avrebbe potuto trovare scuse.

Con mio fratello litigavamo spesso se comperare la “Roma Sport” nuova oppure due biciclette usate, da Medina in Viale Monza di fianco alla fermata del metrò Rovereto, che riparava biciclette ed aveva sempre delle buone occasioni nell’usato. In quel periodo aveva due bici tipo “Graziella”, che vendeva a 10.000 Lire l’una. Ogni giorno a ripetere la solita frase: “Scusi signora, vuole una mano a portare le valigie?”. Riuscivamo a guadagnare dalle 600 alle 1.000 Lire al giorno. Quando, qualche rara volta, riuscivamo a superare le 1.000 Lire ci compravamo il gelato al baracchino “da Sirtori” sull’angolo della stazione in via Ferrante Aporti.

Dopo circa due mesi, raggiunte le 20.000 Lire in contanti, la sera parlammo con mio padre, dicendogli che avevamo i soldi, spiegandogli come li avevamo guadagnati e che volevamo comperare la bicicletta. Mio padre si arrabbiò di brutto, perché ci eravamo allontanati così tanto da casa senza il suo permesso. Ci disse che la bicicletta non era indispensabile, ci sequestrò i soldi e comprò un lampadario per la nostra camera, che c’era ancora la lampadina che penzolava.

A me, all’epoca, della lampadina penzolante non me ne fregava proprio niente. La mia prima bicicletta me la sono rubata… anche la seconda, la terza, e via dicendo.

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