Libertà di ascoltare la chiamata

Il dipinto raffigura il momento in cui Gesù, affiancato da san Pietro quasi di spalle, sceglie Matteo, esattore delle tasse di Roma, come suo apostolo. Delle cinque figure presenti nell’opera, solo tre (Matteo e due giovani) si accorgono della presenza di Gesù (sono girati verso le due figure e Matteo indica se stesso), mentre le altre due (un uomo e un giovane) sono intente a contare dei soldi.

Secondo me questa scena potrebbe indicare il fatto che Dio si rivolge sempre a tutti gli uomini, ma ciascuno è libero di ascoltarlo o meno a rischio però della propria “salvezza”.

Arianna Festa

Gli Scout AGESCI su “LA CHIAMATA”

Conti di fine giornata

Un ragazzo sta contando del denaro assistito da una persona più anziana e gli altri due personaggi a lato (dx) sembra che lo stiano cercando, visto che lo stanno indicando. Invece i 3 centrali sembra che siano pronti a difenderlo, soprattutto quello in primo piano con i pantaloni bianchi che si sta alzando.

A me sembra che i personaggi siano i proprietari di un piccolo negozio che fanno i conti a fine giornata e due ragazzi poveri che chiedono aiuto a loro.

Aurora Bossini

Gli Scout AGESCI su “LA CHIAMATA”

 

Agenti delle tasse

La scena del dipinto “Vocazione di San Matteo” rappresenta degli uomini attorno a un tavolo che, riferendomi al vangelo, sono degli “agenti delle tasse”.

La vocazione è suggerita dalla luce che arriva dall’alto a destra e che illumina Matteo, indicato dagli altri personaggi rappresentati nel quadro.

La luce in alto a destra crea un contrasto con il buio che travolge le persone sedute al tavolo.

La scena rappresenta un uomo, credo sia Matteo dato che viene indicato dagli altri personaggi della scena, che conta dei soldi e viene interrotto da Gesù che porta luce nella stanza.

Alice Toffanello

Gli Scout AGESCI su “LA CHIAMATA”

Il dito puntato

Il dipinto è ambientato in una stanza, che sembra essere illuminata per lo più dalla luce proveniente da destra.

Inoltre sulla destra sono presenti 2 uomini in piedi rivolti verso altri 5 uomini, giovani e vecchi, seduti intorno ad un tavolo che occupa il centro e la parte sinistra del dipinto.

Questo dipinto l’ho studiato durante le ore di storia dell’arte e, da quel che mi ricordo, uno dei due uomini in piedi è Gesù, mentre l’altro è San Pietro. Entrambi puntano il dito verso uno degli uomini seduti, questo è San Matteo, che a sua volta si auto indica quasi in cerca di una conferma.

Se non avessi trattato quest’opera a scuola, e se non sapessi il titolo di questo dipinto, a primo impatto questo dito puntato verso San Matteo non mi sembrerebbe una chiamata o un invito, ma piuttosto un’accusa.

Mi dà questa impressione perché diciamo che il dito puntato contro qualcuno è un po’ il gesto universale dell’accusa, ma questo dito accusatore di Gesù e di San Pietro non viene notato da tutti, ci sono un paio di uomini seduti a quel tavolo che non hanno ancora alzato il capo.

Elodie Stagno

Gli Scout AGESCI su “LA CHIAMATA”

Chi sceglie chi?

La “Vocazione di san Matteo” è ambientata in una stanza chiusa, illuminata da una luce obliqua che sembra quasi spezzare la scena. Non si vede la fonte luminosa ma, come suggerisce il titolo, dell’opera probabilmente rappresenta in qualche modo la presenza e l’apparizione di Dio agli occhi di Matteo. Sono presenti sette uomini di varie fasce di età, il più giovane al centro della scena sembra quello più sorpreso e confuso. I due personaggi più a destra indicano con aria minacciosa un signore anziano sulla sinistra che si auto-indica con un’espressione interrogativa sul volto. Alla sua sinistra un ragazzo seduto a un tavolo sta contando delle monete, e un altro signore anziano sembra non capire cosa stia succedendo, mentre dall’altro lato del tavolo un ragazzo giovane sembra che sia pronto ad alzarsi per “difendere” il vecchio.

Ho provato a descrivere l’opera prima di guardare un commento ufficiale, ho fatto un po’ di confusione sui personaggi, non mi aspettavo che uno dei due personaggi sulla destra fosse Gesù… Non nascondo la mia perplessità, pensavo che fosse il credente a scegliere Dio e non Dio a scegliere il credente…

Nicolò Travagnin

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L’atmosfera è cupa

L’atmosfera è cupa, come divisa dalla luce che entra dalla finestra. I personaggi non si vedono molto perché rimangono in ombra ad eccezione di qualche viso illuminato dallo spiraglio di luce.

Gesù indica S. Matteo e l’uomo girato di spalle davanti a Gesù è S. Pietro. Gli altri apostoli non sembrano interessati alla scena e tengono chino il capo. San Matteo, sentendosi chiamato, indica se stesso e dimostra sorpresa ma allo stesso tempo titubanza. Il gesto di Gesù è molto diretto ed evidente, accentuato dal fascio di luce nella direzione in cui indica.

Subito il dipinto mi ha fatto pensare ad una scena dell’Inquisizione, colui che ha subito un ipotetico torto ovvero Gesù, indica il colpevole mentre tutti gli altri non si curano della scena, come non fosse un problema loro, mostrando omertà e lavandosene le mani, sollevati di non essere i prescelti.

Questa visione è scaturita dalle espressioni dei volti dei presenti che sembrano tese, corrucciate, stupite.

Noemi Varoli

Gli Scout AGESCI su “LA CHIAMATA”

La potenza della chiamata divina

La vocazione di Matteo mi suscita molti pensieri ed emozioni. Innanzitutto, ammiro la maestria artistica di Caravaggio nel rappresentare la scena con tanta intensità e realismo. La luce divina che avvolge Gesù e il contrasto tra l’ombra e la luce sul volto di Matteo mi trasmettono una sensazione di meraviglia e mistero. Mi fa riflettere sulla potenza della chiamata divina e sulla possibilità di redenzione per ogni persona, indipendentemente dal proprio passato.

Mi fa anche pensare al coraggio di Matteo (prima esattore delle tasse) nel rispondere a questa chiamata e nel lasciare tutto per seguire Gesù. Mi emoziona pensare alla trasformazione interiore che avviene quando si accoglie la chiamata di Dio (i volti della scena ne sono la dimostrazione) e si decide di percorrere un cammino di fede.

In sintesi, La vocazione di Matteo mi ispira a riflettere sulla spiritualità, sulla possibilità di cambiamento e sulla forza della fede.

Gabriele Maggioni

Gli Scout AGESCI su “LA CHIAMATA”

Un’accusa o un invito?

Senza consultare alcun commento ufficiale riferito a questo quadro, e quindi non sapendo effettivamente cosa stia succedendo e quali siano i personaggi coinvolti, lo descriverei in questo modo: Seduti attorno ad un tavolo posto in una stanza oscura, quasi nascosta, vi sono diversi personaggi, molti uomini ed una sola donna.

Essi sembrano avere un’espressione sbalordita scaturita dall’azione dei due uomini posti alla destra del quadro: questi ultimi, infatti, indicano con tono accusatorio uno degli uomini seduti al tavolo che conseguentemente, con vergogna, china il capo. Probabilmente in seguito a questo gesto, anche uno degli uomini seduto al tavolo ha deciso di puntare il dito contro l’accusato.

Sapendo invece che il quadro rappresenta la vocazione di San Matteo, la descrizione cambia totalmente in quanto l’episodio non rappresenta una catastrofe bensì la chiamata di Gesù a San Matteo per farlo diventare suo discepolo.

Mariesol Verdicchio

Gli Scout AGESCI su “LA CHIAMATA”

Chi riguarda la chiamata?

Nel quadro di Caravaggio “La chiamata” troviamo sette figure all’interno di uno spazio chiuso che fa immaginare una locanda. Cinque figure sono sedute, due sono in piedi. Tra le due figure in piedi si riconosce quella di Gesù, colui che indica verso gli uomini seduti.

Tra le tante Interpretazioni che si possono dare a questo quadro mi colpisce un aspetto correlabile al progetto di cui farò esperienza in carcere: non è possibile sapere chi è la persona indicata. Allo stesso modo anche nella vita non è possibile sapere chi, come e quando viene chiamato. Dunque ognuno di noi, anche chi si è macchiato di reati, merita sempre una possibilità, poiché nessuno può sapere se e quando arriverà la sua chiamata, proprio come Matteo.

Colui che in passato ha peccato viene chiamato per primo a compiere bene. La storia di Matteo ce lo spiega chiaramente: Gesù ha deciso di chiamare lui, in quella locanda perché aveva fino ad allora peccato, lo chiama benché non sia propriamente giusto. Ognuno di noi è chiamato a fare il bene indifferentemente da ciò che ha segnato il suo passato.

Filippo Marchesini

Gli Scout AGESCI su “LA CHIAMATA”

Rispondo dunque sono

Durante uno dei miei primi incontri del Gruppo della Trasgressione a Opera, il professor Aparo disse una frase che mi colpì e che, da un po’ di tempo a questa parte, utilizzo anche io per spiegare di cosa si parla al Gruppo: “A questo tavolo non si parla di carcere.” Ricordo che rimasi abbastanza stupita, ero dentro ad un carcere con una decina di detenuti: di cosa potevamo parlare se non di carcere?

In quel periodo però per parlare dovevo emettere fatture e non volendo pesare eccessivamente sull’associazione, decisi che avrei trovato da sola la risposta alla domanda semplicemente ascoltando. Da due anni a questa parte ho ascoltato storie di genitori e storie di figli, storie di terre del Sud e di povertà, storie di potere, di arroganza e di seduzione, storie di morte e di vittime. Ma anche storie di rivalsa e di cambiamento, storie di responsabilità, di conoscenza e di sensi di colpa, storie d’amore, di vita e di libertà.

Storie di libertà, in un carcere. Com’è possibile?

Sempre più spesso mi capitava di sentire i detenuti dire che il Gruppo permetteva di sentirsi liberi e non capivo: come può una persona sentirsi libera quando è in una condizione di restrizione? Quando deve seguire regole in ogni momento e ogni cosa che gli capita dipende da altri?

La parola libertà io me la sono tatuata sulla pelle a ventidue anni, quando ero in Erasmus a Vilnius. Lì mi sono sentita per la prima volta totalmente libera, lontana da tutto ciò che conoscevo e completamente indipendente. Le prime settimane la libertà per me era poter tornare alle cinque del mattino senza dover rendere conto a nessuno, mangiare patatine sul letto guardando un film senza dover pensare a mettere in ordine le mie cose e poter bere alcolici senza dovermi preoccupare di nasconderlo a mia madre. Con il passare del tempo però la libertà è diventata anche l’essere in grado di fare una lavatrice senza tingere tutto di rosso, l’imparare una nuova lingua da zero ed essere in grado di sostenere gli esami, riuscire ad arrivare a fine mese con un budget tirato e, soprattutto, provare piacere nel chiamare la mia famiglia e condividere con loro la mia crescita. La libertà aveva assunto per me un nuovo significato: ero responsabile di me stessa e quindi, ero libera.

Sono stati gli incontri al Gruppo ad aiutarmi a mettere a fuoco la relazione tra responsabilità e libertà. I diversi confronti permettono infatti una crescita della coscienza che, nella maggior parte dei casi, culmina nella consapevolezza della propria responsabilità, individuale e collettiva. Assumersi la responsabilità delle proprie azioni comporta il raggiungimento di una libertà che non è più la libertà fisica di muoversi e fare quello che più ci piace, diventa libertà di conoscere e accettare noi stessi, con i nostri limiti, pregi, difetti e responsabilità, e imparare a conviverci.

Assumersi le proprie responsabilità non coincide solamente con il confessare i propri reati e il male che è stato fatto: è più un viaggio in profondità, che va a zappare, zolla dopo zolla, sulle convinzioni e sull’identità di una persona. È difficile per me, quindi fatico a immaginare come possa essere per un detenuto scavare nella sua identità e lavorare con il conflitto che si crea inevitabilmente quando si rielabora il proprio passato.

Tuttavia, è proprio il conflitto che spinge le persone a farsi delle domande e permette al detenuto di comprende che, forse, la libertà non l’ha mai conosciuta perché, nella vita, è sempre stato schiavo. Schiavo del potere, dell’arroganza, della facilità e della violenza. Schiavo del brivido e dell’adrenalina che porta una rapina compiuta. Schiavo della Mafia, che gli ha impedito di vedere e riconoscersi nell’altro. Perché la Mafia, alla fine, rende tutti schiavi, che tu sia una vittima, un parente, un soldato o un boss. La consapevolezza della schiavitù instilla il dubbio: ma sono stati i reati che ho commesso a rendermi schiavo oppure è stata l’incapacità di riconoscere l’altro?

La difficoltà è proprio nel riconoscere di essere stati schiavi, perché a ognuno di noi piace pensare di avere il controllo della propria vita e di essere consapevoli delle nostre scelte, di essere indistruttibili. Ma per essere liberi bisogna conoscersi e scoprirsi, portando a galla fragilità che nessuno vuole vedere.

Mi piace pensare al Gruppo come a una squadra di palombari che ci aiuta a portare a galla i nostri pensieri più profondi e, attraverso il confronto, li sostiene fino a che non imparano a galleggiare da soli, permettendoci di riconoscerci in essi.

E adesso capisco perché al tavolo non si parla di carcere: il carcere ti permette di restare immobile e in silenzio per anni, per essere liberi bisogna imparare a crescere e a rispondere di sé.

Percorsi della devianzaReparto LA CHIAMATA