La mia Aurora

E chi l’avrebbe mai detto, io che commento un dipinto di un artista!

Partecipando e guardando le diapositive con il dott. Zuffi, il quadro dove ci siamo più soffermati è “La vocazione di San Matteo” che si trova a Roma, presso la chiesa San Luigi dei Francesi.

Quello che risalta è l’illuminazione, con le luci, le ombre, le facce dei vari personaggi, da Gesù a San Matteo, ai fanciulli.

Accosto il dipinto alla mia vita attuale e anche io in questo periodo rivedo mia madre che mi chiama, oltre a mia moglie e mia figlia. E penso anch’io di essere stato illuminato. Mi spronano e cercano di farmi capire, come hanno sempre fatto, che ero su una strada sbagliata, mi rimarcavano sempre le mie malefatte. Bene o male, mi posso paragonare al personaggio di San Matteo: anche lui non è che era  tanto un buon esempio, fare l’esattore e arricchirsi a spese del popolo!

Nelle mie riflessioni interiori, spesso mi capita di parlare tra me e me del passato; e mia mamma, anche adesso che non c’è più, mi ricorda ancora che facevo male agli altri, a chi mi sta vicino, ma anche a me stesso. Ho buttato via più della metà della vita per ora vissuta.

Pensando all’artista, ho fatto delle ricerche ed ho appreso che anche lui non è che sia stato un modello di persona, penso anche perché in tenera età ha perso il padre. Un punto di riferimento è fondamentale, specialmente in fase di crescita.

Poi, detto tra noi, ha anche avuto le sue avventure carcerarie a causa del suo carattere collerico. Fortuna sua che la natura l’ha dotato della capacità di dipingere, anche se molti quadri sono stati rimandati al mittente perché, da quanto ho capito, offendevano il ceto superiore.

Ha però avuto un’altra fortuna: il Cardinale del Monte ha sfruttato le sue qualità per suo tornaconto, ma lo ha anche protetto. Accostando questa sua vita a quello che capita al Gruppo, possiamo anche noi immaginarci nella stanza delle riunioni del Gruppo, dove c’è quella luce che arriva dalla finestra e noi che guardiamo il dottor Aparo che marca e ci rimarca sugli errori commessi in passato, stimolandoci con i suoi metodi apareschi, per farci apprendere i veri valori della vita.

In più il dipinto, più lo guardi, e più puoi avere altre interpretazioni, come lo sguardo su ogni faccia dei vari personaggi. Io mi posso immedesimare in ognuno di loro, tranne nel ruolo di Gesù Cristo. Ora interiormente mi sento più riflessivo, accetto volentieri consigli, in più mi piace molto ascoltare e scoprire cose nuove, come ora.

Scusatemi se torno indietro di qualche settimana, attorno a me sento fiducia, perché sto notando anche che sono più padrone di me stesso e in più certi miei pensieri corrispondono e camminano paralleli ai miei progetti.

Ringrazio tutti i componenti del Gruppo, quando parlo con voi sento segnali di affetto, non come quelli di mia moglie Cinzia e di Aurora, ma quasi.

Concludo, ringraziando il dottor Aparo per aver accolto la parte migliore di me e Aurora, che è mia figlia e che è la luce della chiamata, questa volta non di Caravaggio ma di Nunzio Galeotta.

Nunzio Galeotta

Caravaggio in città

Il mio infinito

Forte sei stato pensiero
Quando volevo essere protetto
Da sguardi e parole
Come siepe mi hai parato
Da venti e tempeste

Così
Nei silenzi infiniti oggi ascolto
Gli anni passati
Comparando la presente stagione.

Vivo adesso in questa immensità
Col mio pensiero che s’annega
In questo mare immenso.

Giuseppe Di Matteo

Poesie

Potere e libertà

Durante un incontro del Gruppo della Trasgressione il Dottor Aparo ha fatto la seguente domanda: “Sei più libero quando ti senti autorizzato a fare, senza alcun limite, quello che vuoi, o quando temi che forse non hai il diritto di fare qualsiasi cosa ti passi per la testa?

Sfogliando nel mio passato, vedo che c’è stato un tempo in cui mi divertivo con poco, senza preoccupazione. Poi, la prima volta che mi sono azzuffato con un mio compagno di scuola, sottomettendolo, mi sono sentito appagato, ho sentito il mio potere crescere, ma non mi sono reso conto che stavo iniziando costruire la mia catena.

Più crescevo, più mi sentivo libero di fare quello che volevo. Il mio campo d’azione si espandeva e la catena si allungava sempre di più, dandomi la sensazione di libertà, ma diventando sempre più pesante.

Guardo nel mio passato per capire chi era quello stronzo che mi ha dato la licenza di fare quello che volevo, fino al punto di abusare senza timore del potere che mi ero costruito. Chi mi ha dato la licenza di fare questo? Mi guardo allo specchio, intravedo riflessa una persona che non conosco. Guardo meglio e capisco che quello stronzo sono io!

Adesso che ho preso più consapevolezza del mio passato, mi sento più libero. Gli abusi non mi hanno reso libero come credevo; al contrario, mi hanno reso uno schiavo legato da una lunga catena.

Salvatore Luci

Percorsi della Devianza

Una sfacciata, irritante fragilità

Ho 59 anni, di cui 28 passati dietro le sbarre e altri 4 tra affidamento sociale e sorveglianza speciale.

Vengo arrestato per numerose rapine (17). Passata la prima settimana di euforia nel rivedere gli amici e a raccontare che il mio arresto non dipendeva dalla mia scarsa bravura di rapinatore ma dalle informazioni di un pentito, incominciai a sentire la mancanza di mio figlio, che all’epoca aveva 16 mesi, e della mia ex compagna.

Dovevo trovare il modo di uscire il prima possibile. Quello era il mio solo obbiettivo. Forte del fatto che era la quarta volta che venivo arrestato, mi sentivo padrone della situazione, sapevo come muovermi. Così, dopo aver esaminato le solite proposte del carcere, individuai una novità: il gruppo della trasgressione.

Ero convinto che quella novità mi avrebbe fatto uscire prima, perciò dovevo assolutamente sfruttarla. Avevo già girato 18 carceri e non avevo mai visto né sentito di un gruppo di studenti, neo laureati e liberi cittadini, che si sedevano insieme ai detenuti attorno a un tavolo e senza la presenza degli agenti. Di solito, a quei tempi in carcere, si stava noi da una parte e loro d’altra e c’era sempre la presenza degli agenti. Era impensabile che ci potesse essere un dialogo, figuriamoci un confronto.

Per 4 mesi ascoltai i temi che si discutevano, intervenendo pochissimo, ma cominciai a notare una anomalia. Sentivo gli studenti mostrare la loro fragilità con una naturalezza che trovavo sfacciata e persino irritante. Come è possibile parlare di fragilità in carcere, dove non puoi assolutamente essere fragile? Devi essere forte, un duro, se sei debole vieni calpestato!

Il mio disagio aumentava a ogni incontro… anche perché cominciavo a condividere i loro pensieri e i loro stati d’animo. Ricordo ancora, come se non fossero passati 15 anni, che iniziai a domandarmi perché, se loro provavano le mie stesse sensazioni, io ero dentro e loro no. Ad accrescere sempre più la mia confusione erano le domande che mi esplodevano nella testa come fuochi d’artificio.

Così, quasi senza rendermene conto, incominciai a comunicare le mie sensazioni e, più esprimevo quello che sentivo, più la distanza fra loro e me si accorciava, addirittura cominciavo a sentire non così distante anche l’autorità su cui all’epoca il gruppo aveva fatto un convegno.

Fra noi e gli esterni del gruppo le distanze si accorciavano sempre di più e questo mi portava a domande che non mi ero mai fatto prima, ma anche a una certa confusione. Di solito, quando provavo malessere, lo scacciavo via procurandomi una eccitazione dietro l’altra… anche se il rimedio che adottavo non durava molto. Adesso la situazione era senza soluzione, allora cominciai a scrivere e a portare quello che scrivevo al gruppo, un po’ come sto facendo adesso.

Passo dopo passo, le colpe che avevo sempre attribuito agli altri adesso mi sembravano mie e questo peggiorava la situazione. Cominciavo a non essere più tanto sicuro di chi era responsabile di avermi rubato la vita. E così è nato un conflitto interiore che non avevo mai provato prima. Incominciai a mettere in discussione ogni mio pensiero, ma anche a condividere con loro quello che mi passava per la testa e che non riuscivo a risolvere.  A poco a poco, non ero più tanto sicuro dei pregiudizi che avevo sempre creduto la gente avesse nei miei confronti (e che avevo io stesso verso di loro).

Le volte in cui il mio malessere svaniva senza dover ricorrere all’eccitazione diventavano più numerose e aspettavo i giorni in cui c’era il gruppo a San Vittore. Compresi che quello che io chiamavo “malessere” era in realtà la mia fragilità, la mia coscienza e la mia voglia di sentirmi utile, di avere uno scopo, una funzione.

Compresi che fino a quel momento non avevo mai fatto una scelta che fosse figlia di un progetto o di un obbiettivo. Le mie scelte dipendevano dal mio stato d’animo rancoroso. La rabbia aveva il potere di decidere cosa io dovevo fare, ero in balia della corrente e la rabbia era il mio sestante. E andando avanti, mi sono reso conto di essere stato il suo burattino per quasi 40 anni.

Incominciai a vedere le cose non più in bianco e nero, ad assaporare la bellezza della diversità dei colori e dei loro contrasti. Incominciai a sentire i componenti esterni del gruppo come alleati, alcuni addirittura amici. Non li vedevo più come un oggetto, come il mio carnefice o come la mia vittima. E ogni settimana nascevano nuove iniziative che preparavamo insieme, cosa che succede anche oggi.

Il mio progetto iniziale di usare il gruppo per uscire in fretta non mi è riuscito, ma sono riuscito a sentirmi libero anche se ero in carcere. Ora so di avere uno scopo, una funzione, ho tanti progetti e obbiettivi, ma soprattutto sento di non essere più un burattino.

Ora è quasi un anno che non sono più detenuto (non ho scritto “libero” di proposito, perché ho incominciato a sentirmi libero già anni fa, quando ero ancora dietro le sbarre). Adesso continuo a sentirmi sempre più libero di fare le mie scelte, perché so che sono figlie dei miei progetti e dei miei obbiettivi. Il mio divenire lo sto costruendo con mio figlio e con i miei alleati e non mi sento più solo contro il mondo.

Grazie Juri e grazie a tutti i componenti del gruppo vecchi e nuovi.

Antonio Tango

Percorsi della devianza

Non lasciarlo mai solo

Io credo che un giovane al suo primo ingresso in carcere, a maggior ragione se ha commesso un reato grave come un omicidio, non debba mai essere lasciato da solo, soprattutto nel primo periodo. Il ragazzo deve sapere che c’è qualcuno disponibile ogni volta che lui ha bisogno di essere ascoltato.

Dico questo per esperienza personale. Io sono entrato in galera la prima volta a 46 anni per omicidio e voi non potete capire come una persona si senta. Volevo farla finita, mi sentivo vuoto, non avevo più emozioni, fissavo sempre il soffitto della cella, su un letto, non avevo sentimenti, sentivo troppo il peso che mi schiacciava per ciò che avevo fatto, mi domandavo come ero potuto arrivare a togliere la vita ad una persona che credevo di amare.

Per questo dico che il detenuto nuovo va seguito, va ascoltato, va preso per mano e va motivato a seguire un percorso individuale per far sì che si senta un po’ meglio con se stesso.

Altra cosa importante è la famiglia, in questa fase il detenuto giovane ha bisogno di sentirsi amato. Questo gli darà forza per affrontare le conseguenze e le difficoltà del suo percorso.

Queste sono le cose primarie per un ragazzo che entra per la prima volta in carcere soprattutto per un grave reato come l’omicidio. Deve trovare per prima cosa un suo equilibrio psicofisico, poi, dopo, viene il lavoro, poi la scuola, poi lo sport, poi i gruppi.

Un altro aspetto importante di questo reparto, per permettere al detenuto di avere idea di cosa lo aspetta, è la presenza in reparto di detenuti con alle spalle una certa esperienza della detenzione; bisogna scegliere detenuti in grado di aiutarlo ad inserirsi in questo reparto e di affiancarlo nei momenti di difficoltà. Devono essere detenuti responsabili, consapevoli del reato commesso, con un cammino alle spalle, ragazzi e uomini che credono nel cambiamento, che possono dare qualcosa in più ai giovani che entrano in carcere.

Io credo che noi detenuti che stiamo facendo tanti anni di carcere abbiamo il diritto ed il dovere di dare anche noi qualcosa in più ai giovani ragazzi che entrano per la prima volta in carcere.

Reparto La Chiamata

Educare a evadere

Educare. Dal latino “ex+ducere”, condurre fuori. In sostanza, educare significa condurre fuori, guidare il vero io di una persona alla realizzazione di sé.

Evadere. Dal latino “ex+vadere”, andare fuori. In sostanza, evadere significa uscire, andarsene, liberarsi di ciò che ti tiene chiuso dentro.

È un’idea che mi fa sorridere quella di unire questi due concetti pensando al carcere. Educare a evadere, però, è l’unica soluzione che vedo a tanti problemi.

Nei corridoi del carcere di San Vittore ho visto diverse facce, per quel poco che ho visto. Tante tristi, arrabbiate e strafottenti; alcune inquietanti; poche con il sorriso. Queste ultime le ho viste durante gli incontri con il gruppo de La Chiamata. Non so cosa abbia portato questi ragazzi in carcere e non so se lo voglio sapere, perché sento che potrei cambiare lo sguardo con cui li guardo. So solo, che se vengono tutti i giovedì mattina hanno qualcosa che li spinge, qualcosa che li fa stare meglio di come stanno quando non sono con noi. Lo dico non per superbia, ma perché quando arrivano hanno sempre il muso, gli occhi incazzati e tutto sommato poca voglia di sentire me, o altri, fare queste riflessioni filosofiche sulla galera. Però, alla fine di tre ore di sproloqui, questi sorridono. Sorridono tra di loro e sorridono a noi. Sorridono persino al magistrato che fa parte del gruppo. E se ci fosse una guardia, sorriderebbero anche a lei, sicuro.

Io non so cosa gli facciamo di bello, perché io spesso torno a casa incupito e con un sacco di pensieri ingombranti. Ma magari il senso del Reparto La Chiamata è proprio questo: creare relazioni. E come in tutte le relazioni favorire lo scambio di sé stessi. Io do a te, tu dai a me. Quello che hai, quello che sei.

Il detenuto mi dà un po’ di fatica, io gli do un po’ di normalità. Lui mi dà il suo senso di colpa, io gli do il mio senso di inadeguatezza nel non sapere come aiutarlo. E così andiamo avanti, tutti e due cercando di costruire un mondo, fuori e dentro dalla galera, migliore e che valga la pena di essere vissuto.

Costruiamo insieme una relazione che ci educa, che ci conduce fuori da noi stessi, per diventare altro, per diventare meglio. Per evadere, finalmente, dalle nostre gabbie personali e diventare persone libere.

Si, liberi. Noi e loro. Perché per quanto noi siamo fuori, siamo spesso in gabbia, presi come siamo dalla routine perdiamo il contatto con il reale e ci inscatoliamo dentro una così detta “vita normale”. E quando entriamo in carcere, parlo per me almeno, mi rendo conto di cosa voglio che nella mia vita sia diverso, che cosa mi renderebbe felice. Che cosa mi farebbe evadere dalla prigione in cui mi trovo io.

La galera, il Reparto La Chiamata e il gruppo mi stanno educando a evadere. Vorrei che questo diventasse un modus operandi non solo mio, non solo nostro, ma di tutta la società.

Evadere dalle galere deve essere il nostro obiettivo. Sicuramente è il mio.

Reparto La Chiamata

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 5

Io/Tu- Voi/Noi.

  1. Anime salve [Fabrizio De Andrè]
  2. La zone [Rhove]
  3. Mr. simpatia [Fabri Fibra]
  4. Smisurata preghiera [Fabrizio De Andrè]
  5. Ti sposerò perché [Eros Ramazzotti]
  6. Liberi… liberi [Vasco Rossi]
  7. Supereroi [Ultimo]
  8. Dubbi [Marracash]
  9. Il ragazzo della via Gluck [Adriano Celentano]
  10. Alibi [Lazza]
  11. Vita spericolata [Vasco Rossi]
  12. Lime St. [Neck Deep]
  13. Al giusto momento [Fulminacci]
  14. Todos los dias sale el sol [Bongo Batrado]
  15. La storia [Francesco De Gregori]

Reparto La Chiamata

Il padre

I Greci antichi avevano capito molte cose. Tra le loro opere l’Odissea può ancora oggi trasmetterci messaggi preziosi che, tra l’altro, aiutano anche a chiarire alcuni concetti su cui anche noi del Gruppo stiamo riflettendo, accettando alcune interpretazioni o dubitandone.

Nell’isola di Itaca spadroneggiano i Proci, figure proterve che circondano con la loro tracotanza Penelope, regina dell’isola, rimasta sola a governare perché il marito Ulisse è partito per la guerra e, dopo anni, ancora non fa ritorno. La insidiano, si sono installati nella reggia dove passano il tempo tra gozzoviglie e alterchi. Insidiano la sua virtù di donna chiedendola in moglie e pretendendo che lei scelga uno di loro e insidiano nel contempo il suo potere, perché bramano il regno.

Penelope si difende come può, procrastinando la scelta fino al momento in cui avrà finito la tela che la vede impegnata ogni giorno. Ogni giorno diligentemente tesse e la tela si allunga ma poi la notte con altrettanta diligenza la disfa, accorciandola.

Telemaco, il principe figlio di Ulisse e Penelope, cresciuto senza padre e divenuto adolescente non sopporta più la situazione. È arrabbiato col padre perché è cresciuto senza di lui, gli sono mancati attenzione, affetto, insegnamenti, sicurezza che la presenza di un padre dovrebbe garantire. È arrabbiato, poco gli importa che suo padre sia un guerriero valoroso, un eroe di cui la società ha bisogno.

È molto arrabbiato ma capisce che senza il padre la situazione sua, familiare, dell’isola, sarebbe precipitata fino a un punto di non ritorno. E allora prende la sua prima decisione da uomo: va a cercarlo. Arma una nave, si procura l’equipaggio e lui, giovane che non si è mai allontanato da casa, inesperto di mare e digiuno di arte della navigazione, va a cercare il padre.

Reparto LA CHIAMATAGenitori e Figli

Nuccia Pessina

Sentirsi parte del mondo

Sono atea ma credo nell’uomo. Credo fortemente che l’essere umano abbia la necessità, dalla nascita alla morte, di sentirsi aiutato a comprendere se stesso, a farsi strada nel mondo per sentirsene parte vitale. Ognuno di noi sente il bisogno di essere supportato e affiancato lungo questo cammino, per riconoscersi ed essere riconosciuto per ciò che si è o che si vorrebbe diventare. Che sfida! Che lavoro e… che fatica!

Quanti di noi possono dire di avere avuto, nel percorso della propria storia, alleanze e collaborazioni che lo abbiamo supportato ed aiutato a scoprirsi e a valorizzarsi con un progetto credibile? Io, per prima, se penso a me stessa in adolescenza, ho immagini e sensazioni di frustrazione ed immane senso di disorientamento, condito con una buona dose di sfiducia ed il tutto accompagnato da paura del futuro e senso di inadeguatezza.

Sono sensazioni alle quali il più delle volte non troviamo una giustificazione o di cui non arriviamo a comprendere il senso e l’origine, la complessità. Molte volte si incontrano persone, adolescenti per i quali a tale complessità si aggiungono rabbia, arroganza, fonti di frustrazioni e malesseri tali da portarli all’abuso sugli altri e ai reati.

Bene, di fronte a loro e con loro, altri uomini hanno la possibilità di esserci! Con il reparto “La Chiamata”, esseri della stessa specie spalancano, gli uni agli altri, il portone alla bellezza ed al valore della propria esistenza. Persone, tutte le persone che saranno parte di questo progetto (detenuti, ex detenuti, studenti, psicologi, comuni cittadini, ecc.), dovranno scambiarsi emozioni, pensieri, vita.

Penso che attraverso la riscoperta della grandezza dell’essere umano e la frequentazione delle sue bellezze (letteratura, opere d’arte, scienza, filosofia), in questo reparto si debba dare a ciascuno, con lo sguardo, l’ascolto, il confronto, la possibilità di rendersi attivamente partecipi di questa immensità e di arrivare ad appropriarsene, a crescere e, perché no, a creare nuova bellezza. Ciò che di immenso e bello ha potuto creare un uomo, può e deve essere per altri un contenitore per sentirsene parte e uno stimolo per aggiungere la propria parte.

Spero e credo possibile che in questo reparto tutti possano giungere a sentirsi capaci e fieri di coltivare, anche attraverso la propria fragilità, le proprie potenzialità, fieri e capaci di guardare in faccia il proprio passato, ringraziandolo di essere tale e di proseguire il cammino, acquisendo ogni giorno nuova consapevolezza, responsabilità e il piacere di vivere per se stessi e per gli altri.

Reparto LA CHIAMATA

Ludovica Pizzetti

La parola come terapia

Una delle cose che mi ha colpita di più durante gli ultimi incontri nel carcere di San Vittore è stato l’uso della parola come terapia. Prendere parola davanti ad altre persone non è mai stato il mio forte, non intervenivo mai in classe, non rispondevo alle domande dei professori, nemmeno quando sapevo la risposta giusta. La paura di far brutta figura o di non essere all’altezza di quello che le altre persone dicevano mi ha sempre bloccata. Tante volte, poi, mi sono pentita di non essermi buttata, di non aver avuto il coraggio di parlare o di rispondere, di mettermi a nudo.

Mi ricordo il primo giorno che mi sono collegata al gruppo esterno online, tutta contenta ed emozionata di ascoltare gli altri con telecamera e microfono spento, come se fossi un fantasmino. La stessa cosa feci le prime volte in carcere. Ero convinta che andasse bene così, che bastasse starmene in un angolino ad ascoltare e ad osservare, a trascrivere tutto quello che sentivo sul mio quadernino.

Mi sbagliavo. Sono stata più e più volte (e per fortuna) incoraggiata dal professore a condividere con i presenti i miei pensieri e le mie emozioni. Inutile dire che, quando toccava a me, aprivo i rubinetti alla massima potenza senza dir nulla oppure tiravo fuori parole arrangiante in modo confusionario e disordinato, giusto per non fare scena muta.

Mi sono chiesta tante volte il motivo di questo mio atteggiamento, ma non ero mai riuscita a darmi una risposta che mi convincesse davvero. In questi giorni ci ho pensato ancora e forse una risposta l’ho trovata. Mi sono resa conto, da quando frequento il gruppo, che effettivamente la parola sblocca i pensieri che viaggiano incontrollati da una parte all’altra della nostra mente. Parlare permette di decifrare questi pensieri e, in questo modo, aiuta ad avere consapevolezza delle proprie emozioni.

Ecco perché mi riesce così difficile. Non sono molto brava a capire le mie emozioni, non riesco a decifrarle e a dar loro un nome. Questo mi porta ad arrabbiarmi e a piangere. Sto male e mi consumo, finché qualcuno mi ferma e mi aiuta a ragionare in maniera tranquilla. Ma che fatica!

Il problema è che dire qualcosa ad alta voce mi spaventa, come se la cosa diventasse vera per il fatto che la dico, che le do un nome. C’è stato un episodio in particolare nella mia vita che mi ha fatto rendere conto di quanto io faccia fatica a dire le cose ad alta voce e a chiamarle col loro nome, invece di trovare sinonimi che ne sminuiscano l’entità.

Ci sono state occasioni in cui, pur avendone bisogno, non sono riuscita a chiedere aiuto, a dire a voce alta che era successo qualcosa. Nella vita però sono stata fortunata, perché ho avuto accanto persone che sono state in grado di cogliere il mio malessere e di accompagnarmi piano piano alla decisione di parlarne con un professionista.

Questo mi ha aiutata a prendere consapevolezza di quanto mi era successo…  e non dico di essere riuscita a superare quel dolore al 100%, ma sono riuscita quanto meno ad accettarlo, a conviverci e a non farmene più una colpa.

Quando vedo persone che riescono a fare tutto questo io mi emoziono, perché ci vuole non poco coraggio. Spero col tempo di riuscire ad essere così brava anche io, di riuscire a togliermi di dosso questa maledetta insicurezza, perché a me, le persone che hanno il coraggio di essere loro stesse, piacciono tantissimo.

Camilla Bruno

Reparto LA CHIAMATA