L’esperienza di “Delitto e Castigo”

L’ultimo incontro mi ha permesso di capire quanto sia importante l’impegno dei detenuti, delle istituzioni,dei familiari delle vittime, della società civile.

Molti dei detenuti con i quali abbiamo avuto modo di parlare hanno raccontato di aver ucciso e di non aver provato, nel compiere quell’atto, alcuna sofferenza o compassione per la vittima, in quanto la ritenevano solo un ostacolo da eliminare, un oggetto piuttosto che una persona umana.

In questi giorni, guardando in quello specchio che il Dottor Cajani ha donato ad ognuno di noi, mi sono resa conto di quanto anch’io abbia compiuto quell’errore, perché, prima di questa esperienza in carcere, ho ridotto, più di una volta, i delinquenti al reato che avevano commesso, etichettandoli come colpevoli, assassini, devianti, senza rendermi conto che, in realtà, sono anzitutto degli esseri umani.

Forse così, metaforicamente, anch’io li ho uccisi e, solo ora che ho avuto modo di conoscerne l’umanità e la fragilità, mi accorgo di quanto ancora io debba lavorare per avviare in me un cambiamento, che non si arresti al pregiudizio, ma che vada oltre, verso la comprensione dell’altro, consentendomi di restituire loro quella dignità, anzitutto di esseri umani, di cui io per prima li avevo privati.

Nessuno di noi è perfetto, ognuno ha i suoi limiti, ognuno ha commesso degli errori nel proprio percorso, ma credo vivamente che ogni persona sia passibile di un cambiamento ed è per questo che ritengo che tutti noi dobbiamo prendere esempio da Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani che, nonostante il dolore che hanno provato da familiari di vittime, hanno saputo credere nel cambiamento dei detenuti e hanno teso loro una mano, per aiutarli a cambiare.

Se tutti facessimo così, se ognuno di noi facesse un passo verso l’altro e ognuno di noi donasse un pezzo della propria esperienza agli altri, forse si potrebbe, tassello dopo tassello, ricostruire quel “puzzle” che si è distrutto, si potrebbe riparare la frattura sociale che si è creata attraverso la commissione del reato e lo si potrebbe fare proprio grazie alla riconciliazione con il prossimo.

Il Gruppo della Trasgressione offre al detenuto l’opportunità di mettersi a nudo, di raccontarsi e di imparare dai propri errori, gli permette di provare, forse per la prima volta, dei sensi di colpa e sono propri questi sensi di colpa a responsabilizzarlo, in un’esperienza quale quella carceraria, che spesso, invece, è tutt’altro che responsabilizzante.

Anche dare un ruolo ai detenuti, farli sentire parte di una comunità e fare in modo che possono svolgere un compito importante per la società può responsabilizzarli.

Questo, però, non basta. Non è sufficiente la rieducazione sociale e il recupero del condannato all’interno delle mura del carcere, ma c’è bisogno di un impegno collettivo reale per garantire, anche nel momento in cui si raggiunge il fine pena, un reinserimento sociale e lavorativo effettivo affinché queste persone non siano portate a rivivere quella esperienza di emarginazione che, come i detenuti hanno raccontato, li aveva portati a delinquere.

Ecco che allora, ed è per questo che sono grata di aver avuto l’opportunità di vivere questa esperienza, in primis io non devo arrestarmi ai miei pregiudizi, non devo giudicare gli altri e, anche se può farmi paura, devo tentare di avere un dialogo con queste persone, devo aiutarle a reintegrarsi in una società di cui non fanno parte da troppo tempo o di cui forse non hanno mai veramente fatto parte.

Credo che ognuno di noi debba comprendere quanto sia importante accompagnare i detenuti in questo miglioramento di sé, affinché l’espiazione della pena non risulti vana, ma acquisti un senso e restituisca a vittime e “carnefici” la dignità che tutti, a prescindere dai nostri errori, meritiamo di avere.

È importante che, accanto alla “pena morale” che vive Raskòl’nikov nel romanzo e che i detenuti vivono oggi per il male commesso,  possa oggi vivere in loro la speranza di redimersi dai propri errori e di rendersi utili per gli altri.

A parer mio, solo così il carcere può avere un valore, perché un isolamento in carcere, senza opportunità di riflessione e di confronto con gli altri, non porta a nulla. Probabilmente può restituire molto di più alla vittima vedere un condannato che riconosce i propri errori e che si impegna in un continuo miglioramento di sé che non il saperlo chiuso in una cella per venti o trent’anni senza alcuna funzione.

Ritengo che esperienze di questo tipo debbano essere proposte più spesso agli studenti, perché lo scambio tra noi, i detenuti e le vittime permette un arricchimento di tutti:

  • permette a noi di vedere anzitutto come la vittima, diversamente da quello che spesso propongono molti media, non sia sempre una persona che ricerca una giustizia retributiva o che punta a bilanciare il proprio dolore con la sofferenza inflitta al reo;
  • ci permette di avvicinarci a detenuti, apparentemente così distanti dalle nostre realtà e, invece, così simili, per certi aspetti, a noi;
  • permette a ragazzi emarginati, proprio come lo sono stati loro, di sentire un monito, non dai genitori, che il più delle volte non viene recepito, ma da chi quegli errori ha commesso;
  • permette ai detenuti di responsabilizzarsi e di risvegliare quelle “coscienze addormentate”, parlando di fronte a ragazzi che potrebbero essere i loro figli e, di fronte ai quali, forse ritengono di dover dare il buon esempio;
  • e, infine, rinnova un senso di giustizia in noi cittadini, in quanto ci permette di vedere che una Giustizia esiste e che quella finalità rieducativa che l’art.27 co.3 Cost. attribuisce alla pena è effettivamente attuabile.

Maria Claudia Raimondi

Delitto e Castigo

Finalmente liberi

Frequento il gruppo purtroppo solo il martedì, in quanto per adesso gli altri giorni non riesco. Sono detenuto a Milano-Opera in regime di semilibertà. Non so bene come stiate studiando il testo in questione, ho letto “Delitto e Castigo” più o meno due anni fa quando ero detenuto nel circuito di Alta sicurezza presso l’Istituto di Asti.

Mi piacerebbe lasciare il mio contributo, cioè dirvi cosa è rimasto a me di detta lettura. Ricordo nitidamente il protagonista Raskòlnikov che io identifico in ognuno di noi detenuti. La sofferenza di un popolo, il popolo russo incarnato nel protagonista che vive una vita di stenti. Impantanato nel degrado della miseria più totale, decide di uccidere l’usuraia perché come ogni deviante non le riconosce lo status di persona ma la trasforma in qualcosa d’altro, in una non persona, la trasforma in una sudicia figura che perpetra il male. Raskòlnikov, convinto di compiere un atto di moralità superiore, la uccide e uccide anche la sorella, proprio come la spirale del crimine che investe e distrugge ogni cosa ostacoli il suo corso.

Nella follia di noi dediti all’illecito c’è la falsa credenza del delitto perfetto, del delinquere senza dover fare i conti con la punizione, ma poi la realtà è assai diversa, non solo bisogna fare i conti con la verità giuridica e normativa della legge ma, come per il protagonista del Romanzo, arriva inesorabilmente il senso di colpa che è il tribunale più spietato.

Ma come nell’epilogo di questo racconto, la redenzione è nel riconoscimento della legge come mezzo di libertà. Dove alla base dei diritti c’è il riconoscimento degli obblighi, si fa la scelta di seguire Sonja e finalmente si è liberi.

Rocco Panetta

Delitto e Castigo

Attraverso lo specchio [Lost&Found]

«Facciamo finta che tu sia la Regina Nera, Kitty! Sai, io credo che se ti mettessi a sedere e incrociassi le zampette, sembreresti proprio precisa. Provaci, su, tu che sei la mia beniamina!». E Alice prese dalla tavola la Regina Nera e la mise dritta davanti al gattino perché se ne servisse come modello da imitare: ma la cosa non riuscì, soprattutto, dichiarò Alice, perché la gattina non voleva incrociare le zampe come si deve. Perciò per punirla, la sollevò davanti alla Specchio, perché potesse vedere anche lei come era inquieta, «e se non sei buona subito», aggiunse, «ti farò passare dalla Casa dello Specchio. Ti piacerebbe che lo facessi?»

E poi facciamo finta che tu, giovane Giorgio, riuscivi a toglierti questo paraocchi tramite il quale vedevi solo quello che ti avevano fatto imparare della vita.

E poi facciamo finta, cara Giada, che usare questo spray per prevenire la formazione di pidocchi intorno a te non sia più necessario…

Bene: ora ciascuno impugni il suo specchio dalla parte giusta, non tanto per scoprire – attraverso il vetro – mondi così diversi dal proprio ma per guardarsi finalmente negli occhi.

Dopo essersi persi e ritrovati, dentro questa aula universitaria che sta davvero per riscaldarsi, proviamo allora a vedere insieme se riusciamo davvero a progettare un distributore automatico di conflitti, a beneficio della umanità intera.

Ci vediamo mercoledì prossimo!

Ft. il bidello

Delitto e Castigo

Gli orizzonti della miseria

Vedo nelle riflessioni pseudo-sociologiche deliranti di Raskolnikov la sapiente costruzione di un nemico contro cui combattere e potersi scagliare, un nemico che legittima la sua identità.

L’usuraia è il “pidocchio” perfetto da eliminare senza porsi troppi interrogativi. Persino il caso, che fa capolino tra le righe, viene comunque piegato a beneficio delle sue teorie e dei suoi obiettivi.

Per caso entra in trattoria e ascolta la conversazione tra due sconosciuti a proposito dell’usuraia e le informazioni che riceve dal loro colloquio sempre più lo autorizzano a compiere un’azione per la quale non esiste nessuna possibile autorizzazione.

Emerge la Russia in questo romanzo, come in tutti gli scritti di Dostoevskij, una Russia, tra le altre cose, poverissima.

Si delinea una miseria che spinge le persone ad abitare in stanzucce così anguste da poter raggiungere il chiavistello della porta d’ingresso senza alzarsi dal divano.

Una miseria che fa girare Raskolnikov malvestito, sudicio perché non possiede biancheria di ricambio, con gli stivali sfondati.

Una miseria che tiene Raskolnikov a pane e acqua, per giorni senza mangiare, in preda a una febbre che lo porta al delirio, mascherando con questo quello precedente, forse innato o stimolato dalle circostanze.

Una miseria che lo spinge fuori corso, gli fa abbandonare l’Università, lo allontana da quei dibattiti nei quali amava infervorarsi e che testimoniano il bisogno di rinnovamento che come un fremito percorre la Russia del periodo.

Una miseria così nera da spingere a porre una domanda, che talvolta io ancora oggi mi pongo e a cui non è così scontato trovare una risposta soddisfacente: una persona febbricitante e digiuna da giorni quanto può essere lucida? Esiste un rapporto tra malattia e crimine? E se esiste qual è? Come lo si definisce?

Delitto e Castigo

Eletti e pidocchi

Manie di protagonismo. Questo termine, declinato in una dimensione non strettamente patologica, va a descrivere e strutturare l’idea del crimine come strettamente connessa con la psiche dell’autore del delitto.

Se in “Delitto e Castigo” viene descritta una realtà come squarciata tra “eletti” e “pidocchi”, ecco che il pidocchio si fa eletto nel compiere un atto, come quello dell’omicidio, che va a sovvertire non solo il diritto positivo, bensì quello naturale. Pur spogliando il diritto alla vita dalla sua lettura religiosa e legata all’ambito canonico (nonostante l’importanza del divino nella lettura del romanzo) – la vita è permeata del senso di intangibilità percepito come tale dalla natura umana, dalla coscienza.

Una coscienza che stando alle parole di Giorgio e Pasquale, appare come soppressa e poi ricostruita. L’idea di una coscienza soppressa e dell’atto delittuoso come impulsivo, per quanto intrinsecamente legato a volontà di elevarsi da un contesto sociale tragico, più che trasformare l’uomo al lato divino, lo avvicina al lato bestiale.

Raskolnikov, dopo la commissione dell’atto, vede il delirio di onnipotenza evolversi, tramutarsi in “altro” vivendo la necessità impellente di raccontare il delitto. Un delitto all’apparenza perfetto.

La scuola di criminologia di Chicago ha indagato da anni e anni sulle relazioni che intercorrono tra il crimine e il contesto sociale del soggetto che va a plasmare, dunque, la coscienza dell’individuo.

Ma se la coscienza è plasmabile, allora, il concetto stesso di diritto naturale dell’uomo, intrinsecamente legato alla sua esistenza, può venir stravolto in maniera decisiva dai primi anni di sviluppo di una persona che sentendosi “pidocchio” trova nel crimine una via d’uscita.

Tuttavia, se si va a guardare una prospettiva di ampio raggio, pur considerando il crimine come legato allo status, una determinata tipologia di delitti appartiene ai ceti più alti.

I crimini dei white collar, per esempio, sono dunque crimini compiuti da eletti? E’ un eletto, il white collar che delinque, che nella commissione di un delitto va per smania di potere a consolidare ancora di più la propria intangibilità? Diventa eletto, colui che la società ha trattato come pidocchio, dopo la commissione del delitto?

Sono convinta che questa divisione sociale, tra pidocchi ed eletti, vada ad essere intrinsecamente criminosa. La decostruzione della concezione dell’essere umano solo come prodotto del proprio ambiente, accompagnata da risorse che fanno percepire come meno iniqua l’esistenza, potrebbe essere punto di partenza per fornire un deterrente all’aprirsi in una strada di delitto.

La soppressione della coscienza e la volontà di elezione, così come il possesso di tale coscienza, sono dunque legate all’essere umano e poi, il contesto sociale e quello psicologico, legato di rimando fanno da quadro in una cornice da mutare.

Tutti desiderano essere visti. Tutti desiderano essere ascoltati. Tutti desiderano qualcosa di più. Qualcosa di meglio. Il delitto è il varcare il confine tra il proprio benessere e il malessere dell’altro.

La volontà superiore di Raskolnikov, che va a giustificare l’omicidio, si può leggere in criminologia come una TECNICA DI NEUTRALIZZAZIONE.
“L’ho fatto per un bene superiore.”
“Lei era un pidocchio, io un eletto.”

Le medesime tecniche di neutralizzazione che vengono associate a Napoleone. Tecniche di neutralizzazione che incidono sulla coscienza e la sopprimono per annientare il senso di colpa (umano e tipico, salvo motivazioni legate a disturbi di natura psichiatrica, per esempio, di natura antisociale).

Ma oltre ad una tecnica di neutralizzazione, è curioso notare come per il protagonista, sia anche il movente. Uno dei moventi.

Nel parlare di persone conosciute, in ogni caso, non ho riscontrato l’uso di tecniche di neutralizzazione bensì consapevolezza e rammarico nella commissione delle proprie azioni. Che sia dunque la consapevolezza ciò che porta alla formazione e all’evoluzione della coscienza?

 

Angelica Falciglia

Delitto e Castigo

Noi, la sorte e la scelta

Credo non ci sia nulla di più lontano della criminalità dal mio mondo, dal mio vissuto e dalla mia infanzia.

Eppure, forse, proprio perché è un mondo così lontano e sconosciuto (ignoto), ho sempre voluto conoscere i meccanismi e il perché di certe scelte di vita.

Ascoltando i detenuti e gli interventi dei compagni, ho potuto riflettere sul fatto che forse la mia sia stata solo fortuna, che quella criminalità per molti è stata la quotidianità, la ‘normalità.’

Allora mi sono domandata se davvero fosse solo fortuna, se chissà chi, un Dio per chi crede, avesse dunque deciso già dalla nascita cosa ci spettasse, in quale ambiente nascere e che da li’ non ci si potesse scostare più di tanto, che i ‘pidocchi’ sarebbero dovuti rimanere tali e la brava gente anche (una sorta di criminalità da generazioni).

Io però non voglio credere che una persona non sia fautrice del proprio destino, voglio pensare che tutti possano scegliere cosa e chi diventare, indipendentemente dal passato e dal vissuto.

Noi siamo le nostre esperienze e soprattutto i nostri traumi, ma questi non possono determinare le nostre sorti. Possiamo sempre scegliere da che parte stare, pur avendo avuto e ricevuto una certa educazione.

Alice Garovo

Delitto e Castigo

Polisemia

Un dipinto per molte interpretazioni

Ognuno di noi osserva e coglie della realtà aspetti differenti. Anche nell’arte un’unica opera riesce a trasmettere emozioni diverse, in quanto viene letta da ognuno secondo le proprie lenti di interpretazione.

Così è accaduto al Gruppo per la Vocazione di San Matteo di Caravaggio. In questo quadro molto realistico l’autore ci regala una scena incredibilmente nitida: partendo da destra, Gesù, seminascosto da San Pietro, indica San Matteo al tavolo; quest’ultimo è accerchiato da altri personaggi: due sulla sinistra, intenti a contare dei soldi, e due a destra, che sembrano osservare interdetti l’arrivo di Gesù e del Santo.

Secondo un’altra interpretazione del quadro, San Matteo potrebbe essere la figura a capotavola intenta a contare i soldi, se così fosse l’uomo con la barba lo starebbe indicando come per chiedere conferma che si tratti di lui.

Nel caso in cui il Santo fosse quel personaggio, Matteo non si sarebbe reso conto dell’entrata di Gesù e di San Pietro. in questo caso sarebbe interessante chiedersi come la scena potrebbe proseguire. Io immagino Matteo che, assorto nei suoi pensieri, magari anche grazie al mormorio dei presenti, si sbalordisce di essere illuminato da una calda luce e, alzando lo sguardo, si trova davanti a delle figure senza tempo che lo indicano. Ecco, mi sembra quasi di percepire lo stupore e la meraviglia nello sguardo di Matteo.

Osservando, invece, la scena nella sua lettura comune, ovvero quella in cui San Matteo è rappresentato dall’uomo seduto al tavolo con la barba lunga, personalmente vedo Matteo stupito riguardo alla visione dei due personaggi, ma non rispetto al fatto che sia lui ad essere chiamato.

Mi appare, infatti, un Matteo sereno, come se stesse aspettando quella Chiamata, come se vedere Gesù e San Pietro che lo indicano fosse già una conferma di questa vocazione, tanto che il dito che lui punta verso sé stesso potrebbe essere visto come un gesto eseguito per riflesso come a dire “sì, sono io colui che stai chiamando.”

Elisa Parravicini

Caravaggio in città

“Non devi trattenere il dolore per trattenere la memoria”

“You don’t have to hold onto the pain to hold onto the memory”
[Janet Jackson, Memory]

 

Il cammino con Marcella e Marisa, passato nel 2016 attraverso l’incontro con il Gruppo della Trasgressione al carcere di Opera, ci porterà il 21 Novembre 2022 a Pavia (ore 18, Collegio Santa Caterina da Siena).

Ci vediamo là! [qui la locandina completa]

Il nuovo inizio

Il dipinto raffigura il momento nel quale Gesù chiama Matteo e lo invita a seguirlo.

Secondo l’interpretazione tradizionale di alcuni storici, Matteo sarebbe l’uomo con la folta barba che indica con l’indice rivolto a sinistra. L’altra ipotesi invece, è che Matteo sia proprio il ragazzo seduto a capotavola, ricurvo nell’intento di contare le monete sul tavolo. Di Matteo infatti si dice che era un esattore delle tasse, legato ad un’attività materiale e molto poco interessato alla spiritualità.

Un elemento fondamentale, sul piano simbolico e della struttura compositiva dell’opera, è la luce che proviene dall’alto che, passando sopra la testa del Cristo, si irradia da destra a sinistra. È una luce ultraterrena, proveniente da una fonte divina, ed è la principale chiave di lettura della direzione della scena: da destra a sinistra.

Personalmente mi sembra si possa dire, per ragioni di ordine formale e di significato, legate alla struttura compositiva dell’opera, che Matteo sia il giovane ricurvo sul tavolo all’estremità sinistra del dipinto.

All’interno della composizione del quadro, il giovane ricurvo si trova all’estremità opposta della fonte di luce che si irradia a partire da destra, sopra la testa del Cristo. La figura del giovane è, sul piano puramente strutturale compositivo, il punto di arrivo di un percorso di lettura che va da destra a sinistra e che, a sua volta, rimanda nuovamente all’estremità opposta, alla fonte di luce originaria.

Queste due estremità sono il contenitore spazio temporale, spirituale e materiale, all’interno del quale si costruisce la narrazione formale e di senso di tutta la composizione con i suoi diversi personaggi. Personaggi che hanno anch’essi la funzione di tramite, come “catena di trasmissione” che procede dal Cristo al giovane Matteo e viceversa, quasi fossero il contraltare terreno della luce divina. La bellezza del dipinto è proprio in questa intima connessione formale e di senso che si intreccia al movimento e al dinamismo dell’insieme, alle sue lucialle sue ombre, tra finito e infinito.

La struttura compositiva dell’opera, così intesa, suggerisce già di per sé una immediata lettura sul piano del significato. Il giovane ricurvo è colui che si trova all’estremità opposta del Cristo, ancora totalmente immerso nella sua dimensione unicamente materiale: è il contraltare della spiritualità e ad essa complementare.

La chiamata del Cristo non può che essere rivolta a colui che vive assorbito in questa condizione. La chiamata non può che essere un radicale stravolgimento dell’esistenza sin lì vissuta, la sua fine totalenon può che essere destabilizzante, spaventosa, comportare un completo abbandono di ciò a cui si è più attaccati e identificati (il denaro, i beni materiali).

Il giovane Matteo sa che cosa lo aspetta e vorrebbe sottrarsi al destino che lo attende; rimane ricurvo sul tavolo, la chiamata lo terrorizza, ne sente il terribile peso, non osa alzare gli occhi; fissa ossessivamente il denaro sul tavolo come a volervi rimanere disperatamente attaccato.

Il nuovo inizio, di cui sente il richiamo da qualche parte nel suo profondo, lo attende. La chiamata risuona al di là della volontà di autoconservazione egoica, risuona nel radicale e intimo desiderio di andare oltre. È stato chiamato e non potrà che rispondere.

Adriano Avanzini

Caravaggio in città

Tra picciotti e discepoli

La riflessione di Beatrice mi ha colpito perché è molto in sintonia con le considerazioni che ho fatto in occasione dell’incontro ad Opera con il Prof. Zuffi.

Ho avuto modo di vedere quest’opera dal vivo a maggio, a Roma, dove mi trovavo insieme al Gruppo in occasione del nostro convegno in Senato: “Una mappa per la pena”.

La cappella di San Luigi dei Francesi si trova proprio di fianco al palazzo del Senato. La Chiesa è poco illuminata poiché l’unica fonte di luce naturale è costituita da una piccola finestra e confesso che, un po’ a causa di questo ed un po’ a causa dei miei problemi alla vista, non sono riuscita a cogliere come avrei voluto le sfumature di questa opera.

Ammiravo il quadro, seguivo i commenti di Paolo e di Francesco e mentre lo guardavo pensavo alle parole del Dottor Aparo. Pensavo al contrasto tra la “chiamata della Mafia a diventare dei picciotti” e la “chiamata di Gesù che invitava San Matteo a diventare uno dei suoi discepoli”. Mi sentivo privilegiata ad essere a Roma in quel momento, appena prima del convegno al quale avrebbero partecipato da lì a poco anche l’ex Ministra della Giustizia, Marta Cartabia e il capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi.

Nonostante fossi consapevole da un lato che quella opportunità in Senato non ci avrebbe “cambiato la vita” dall’oggi al domani, dall’altro, non potevo non cogliere l’importanza che rivestiva l’essere lì dopo 17 anni di cammino all’interno di questa realtà che è il Gruppo della Trasgressione.

Lo sguardo di San Matteo, il cui dettaglio ho ammirato con più attenzione a Opera, mi colpisce molto perché lo vedo anch’io come felicemente stupito e contento di essere stato notato e di essere stato chiamato proprio da lui, da Gesù, che rappresentava per San Matteo una persona carismatica dalla quale era fortemente attratto.

 

Mi sono immedesimata anch’io in lui, come dice Beatrice. Mi sono ricordata del momento esatto in cui sono arrivata a lezione del corso di diritto di penitenziario, tenuto dalla Professoressa Mariella Tirelli. Mi ero iscritta a quel corso, che era facoltativo, scegliendolo di proposito.

Confesso che all’inizio ero lì seduta a lezione anche con aria di sfida perché mi domandavo se la Professoressa ci avrebbe rappresentato la realtà in modo veritiero o meno; da parte mia, ero a conoscenza di cosa significava essere la persona che si siede dall’altra parte del divisorio dei colloqui familiari in carcere. Erano passati pochi anni da quell’esperienza che mi aveva segnato a vita e che mi aveva lasciato dentro un sacco di domande senza risposta e un grande caos emotivo.

Fu in quell’occasione che conobbi il Dottor Aparo e i primi membri esterni del Gruppo della Trasgressione, che all’epoca erano studenti di Psicologia.

Dopo aver visto il modo in cui la Prof.ssa Tirelli affrontava le sue lezioni, sentivo molta ammirazione per lei e avrei desiderato avere ogni giorno lezione con lei per conoscere sempre di più quella realtà. Iniziai a confrontarmi dapprima in classe e poi ci venne data in seguito anche la possibilità di entrare in carcere e di conoscere gli altri membri del Gruppo, i detenuti.

Finché non detti l’esame, non raccontai né scrissi nulla riguardo la mia personale esperienza. Dopo l’esame, che fu il primo trenta della mia carriera universitaria e dopo il convegno sull’Autorità, chiesi di poter entrare a far parte del Gruppo della Trasgressione e iniziai a partecipare regolarmente anche agli incontri che si tenevano all’epoca nel solo carcere di San Vittore.

Non ci misi molto a tirare fuori. Il mio primo scritto dove mi “svelavo”. Ricordo ancora la strizza tremenda che mi accompagnava il giorno che il Prof mise sul tavolo lo scritto col quale parlavo della detenzione di mio padre. Temevo più che altro il giudizio dei miei compagni di corso e un po’ anche la reazione della Prof.ssa Tirelli, pur se, in cuor mio, sapevo che sarei stata “accolta” e che finalmente, almeno con loro, avrei potuto essere me stessa fino in fondo.

Ciò che avvenne fu proprio questo e tutte le mie paure svanirono all’istante perché mi sentii finalmente a casa, accudita, seppure si trattasse in fondo di un gruppo di sconosciuti.

La sensazione che ho provato quel giorno credo sia la stessa che provò San Matteo quando finalmente Cristo va da lui per chiamarlo a dare il meglio di sé. Anch’io, come San Matteo non aspettavo altro: qualcuno che mi chiamasse a dare il meglio di me, che non mi facesse sentire sbagliata e che mi accompagnasse nel cammino per diventare adulta. E di questo sarò per sempre grata a tanti membri del Gruppo della Trasgressione.

Oggi mi sento anche di condividere uno scritto che ho elaborato dopo il convegno di Roma. Il Ministro della Giustizia italiano è oggi cambiato, ma desidero rivolgere al Prof. Carlo Nordio le parole che ho scritto a maggio perché è bello sentire di poter comunicare con chi ha la facoltà di orientare il prossimo futuro dell’istituzione nella quale lavoriamo.

Alessandra Cesario

Caravaggio in città