Ricordi d’infanzia

Sono nato a Reggio Calabria. Ricordo quando ho iniziato a esplorare il quartiere dove sono cresciuto, dove i palazzi nuovi si mescolavano alle case vecchie: per cinque anni ho vissuto in una di queste case vecchie, prima che il cemento coprisse la natura circostante.

Era un cascinale di tre appartamenti, costeggiato da una stradina poco asfaltata con rientranza di un piccolo pergolato: la prima casa era di un vecchietto che la usava come deposito di piccoli rottami. Ogni volta che andavo a trovarlo, l’odore di grasso e di oli esausti mi rimaneva impresso e ogni volta che entro in un’officina meccanica mi viene in mente Don Ciccio, questo era il suo nome. Mi insegnava come si smontavano gli avvolgimenti delle casse acustiche e dei trasformatori, per recuperare il filo di rame. Subito dopo c’era la mia casettina dove vivevo con mia madre, mio padre, le mie sorelle e i miei fratellini. La casa non era grandissima ma si stava bene. Il cascinale era ben lontano dalla strada e con i miei fratelli ci giocavamo senza che mia madre dovesse preoccuparsi per noi in mezzo alla strada trafficata. 

Più in là viveva una signora anziana, che per rispetto chiamavamo nonna Giulia. Era piccolina di statura e un po’ curva ma di cuore grande. Mi ricordo che viveva da sola. Mi è rimasto un bel ricordo di nonna Giulia. Lei ci rimproverava per il casino che facevamo con i miei fratelli giocando. Dopo averci rimproverati ci chiamava offrendoci dei biscotti fatti da lei e ci diceva: “u sapiti che vi voju beni!”.

Un altro mio ricordo era la festa patronale: mi divertivo a girare tra le bancarelle fermandomi a guardare come preparavano le mandorle pralinate e anche un tipo di biscotto fatto con tanto miele che noi chiamavamo ZIDDA o MUSTAZZOLI. La particolarità di questo dolce erano le molte forme, esempio pesce, cavallo, cestino, casetta, ecc. Sono belli da guardare e buoni da mangiare per chi ha denti forti. 

Un altro mio ricordo di mia mamma è il fischio con cui ci chiamava e col quale io e i miei fratelli capivamo che era l’ora di ritornare a casa.

Le passeggiate in Via Marina, il lungo mare di Reggio Calabria, con la sua ringhiera di ferro antico che affaccia sul mare e in lontananza si vede la Sicilia. La via marina come noi la chiamavamo, arrivando dal porto, divide le due strade a senso unico, un chiosco di gelati che ha circa 80 anni e dove per prendere una brioche con il gelato devi aspettare circa 30 minuti, però ne vale la pena. I gusti che prendevo di solito erano il caffè, la nocciola e la panna. La gustavo pianissimo per quanto era buona.

Più crescevo e più mi piaceva esplorare. Un giorno mio padre mi regalò una bicicletta misura 14 marca Graziella. E’ stata una gioia grande potermi spingere più lontano per conoscere la mia città.

La mia prima meta con la bicicletta è stata la Stazione Centrale con la sua piazza dove facevano capolinea i pullman di linea e quelli della città. Al centro della piazza sovrastava la statua di Giuseppe Garibaldi a cavallo.

Proseguendo in direzione nord, sul corso dedicato sempre a Garibaldi s’incontra la Villa Comunale con i suoi enormi alberi dai nomi esotici. Dalla parte di sotto, nella Villa Comunale si trova un laghetto pieno di pesci rossi che se la contendevano insieme ai cigni. Prima dell’uscita c’era un piccolo zoo con due leoni, tre babbuini, un pavone e una gabbia di uccellini.

Continuando sul corso Garibaldi si arriva al Duomo con le due statue di S. Pietro e Paolo e la grande piazza con i magazzini ai lati. Proseguendo si arriva al museo dove si trovano le statue di bronzo ritrovate a Riace che tutto il mondo ci invidia!

Questa è una parte della mia città .

Bollate, 16/09/2022
Salvatore Luci

Officina creativa

Il mio sporco gioco

Mi chiamo Giuseppe Amendola, nato a Napoli nel 1963.
Vi dico subito che il fatto per cui mi trovo in carcere da 32 anni non è colpa di nessuno e ci tengo a dire che i miei famigliari sono state delle brave persone.

Giorni fa, al teatro del carcere di Opera dove si svolgeva il corso della Trasgressione con il dott. Aparo, c’era anche il professore di scuola d’arte Stefano Zuffi. Ci ha fatto vedere un quadro di Caravaggio che io ho intitolato: “La chiamata di ritorno”. In questo quadro c’è Cristo con Pietro: Cristo punta con il dito Matteo che si trovava in compagnia di uomini non graditi a Cristo.

Non potete credere quante volte, quando ero fuori, mi puntavano quel dito addosso, era come una spada che mi trafiggeva il cuore.

La mia vita è stata tutto un gioco. Ho giocato e mentre giocavo cercavo di scappare e di nascondermi da questo gioco che io facevo con il finto sorriso sulle labbra. Dovevo proteggere la mia famiglia, una famiglia fatta di persone per bene. Non gli facevo capire niente, io giocavo e loro erano felici nel vedermi giocare con la vita, ma non conoscevano le mie paure, il mio sporco gioco. Dovevo nascondere i soldi che guadagnavo e andavo avanti con tante bugie per giustificare con mia moglie quei pochi soldi che portavo a casa.

Dio mio, quanti dolori ci sono dentro di me, come vorrei che qualcuno mi ascoltasse e mi facesse capire che non sono più solo e che questo mio gioco è finalmente finito.

Ora voglio parlare a tutti i ragazzi che si rovinano la vita proprio come ho fatto io da ragazzo. Miei cari ragazzi, se non credete a queste mie parole fate una cosa, cercatemi e, quando mi avrete trovato, guardatemi bene e vedrete in me un uomo distrutto per il male che ha fatto, vedrete un uomo che ha giocato troppo sporco con la vita. Vi raccomando, quando mi guarderete, fatelo con il cervello e non con il cuore poiché se mi guarderete con il cuore vi posso solo fare pietà, ma se mi guarderete con il cervello capirete che non vi conviene fare la mia stessa fine.

Io vi prego, salvatevi! Non date soddisfazione a chi non vede l’ora di puntarvi il dito addosso, proprio come nel quadro di Caravaggio, per dire: “Eccolo, quello è il cattivo”. No, non dategli questa soddisfazione, fategli capire che avete capito questo gioco e dite ad alta voce che ogni tipo di mafia fa schifo. Vi prego, smettetela di rovinarvi la vita. Voi siete ragazzi intelligenti e non potete non capire che vogliono la vostra vita a tutti i costi per vivere sulle vostre spalle. Senza di voi il gioco è finito.

C’è un’ultima cosa che vi voglio dire:  mi trovo in carcere da 32 anni ma non sono bastati per togliermi, come diceva il grande signore Giovanni Falcone, “il puzzo che c’era dentro di me” e così, nel 2021, ho fatto chiamare il sostituto procuratore della D.I.A. di Napoli e mi sono liberato del puzzo che c’era dentro di me ovvero un passato di violenza e malavita.

Concludo chiedendo scusa e perdono a tutte le vittime di mafia, ai loro famigliari e a tutti quelli che ogni giorno combattono con la propria vita la criminalità organizzata e quella comune. Chiedo scusa alla mia famiglia per avere messo la vergogna sui loro visi. Ringrazio tutti quelli che fanno di tutto per metterci sulla strada giusta.

Grazie di cuore.

Caravaggio in città

La vocazione di San Matteo

Mi colpisce la differenza d’abbigliamento fra le figure di Cristo e di San Pietro, entrambi in piedi, e di quelle sedute al tavolo. Da una parte, abiti senza tempo o riconducibili al tempo di Cristo; dall’altra abiti dell’epoca del dipinto.

Questo, probabilmente per mie esigenze affettive del momento, mi porta a fantasticare che il quadro parli di una comunicazione e di un uomo in altalena fra due dimensioni, quella che prescinde dal tempo e quella storica.

A noi tocca vivere nella dimensione del divenire, dove si nasce, si cresce e si muore, ma sembra che, per quanto ci si sforzi, sia per noi tutti troppo difficile rinunciare all’idea di una nostra parentela con…  l’Infinito.

A mia volta, pur consapevole del fatto che nulla di ciò che sento prescinde dalla storia, vado sempre sognando un ascensore che mi permetta di andare, almeno con lo sguardo, oltre l’ultimo piano del mondo finito.

Mi rendo conto che il rischio dell’arroganza è forte, anche se, per fortuna, le costruzioni e il divertimento che derivano dai tentativi di addomesticarla non sono da meno.

Ecco, nel dipinto c’è una luce che arriva da un punto fuori dallo spazio visibile (direi fuori dalla storia) e che, passando sopra la testa di Cristo, giunge fino al tavolo degli uomini che vivono dentro i confini dello spazio e del tempo: lo spazio della locanda, il tempo dei loro abiti.

Dunque, uomini che vivono, scelgono e divengono in un tempo e in uno spazio finiti, in risposta a una luce e a una vocazione che sembrano provenire dalla dimensione dell’infinito, dopo essere state mediate da Cristo, figura a cavallo tra le due dimensioni.

E, per concludere, mi chiedo se la mediazione tra finito e infinito, che nel dipinto viene affidata a Cristo, non sia una delle rappresentazioni possibili di quel che ci serve: ora per non smarrirci fra i mille sentieri e le responsabilità di una storia ancora da costruire; ora per prevenire l’allucinazione di volare oltre l’ultimo piano.

Caravaggio in città

Delitto e castigo al carcere di Opera

“Cerchiamo 15 giovani studenti/studentesse di giurisprudenza per dare forma – dentro le mura del carcere di Opera – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni”.

 

Qui la lettera di invito: le candidature dovranno pervenire a info@lostrappo.net entro e non oltre il 22 Ottobre pv.

Gli incontri si svolgeranno i 5 mercoledì di Novembre 2022 (ore 9.00-13.00) all’interno del carcere di Opera.

Per iniziare può essere utile il resoconto dell’incontro del Gruppo della Trasgressione con il Prof. Fausto Malcovati su Dostoevskij  (5.7.2005).

Maggiori informazioni anche su la pagina Instagram de “Lo Strappo – Quattro chiacchiere sul crimine”.

PS: in ogni caso c’è anche un altro gesto utile per aiutarci in questa ricerca, considerato che tutti i protagonisti di questa rilettura collettiva parteciperanno a titolo gratuito: regalando una copia di “Delitto e Castigo” alle persone detenute nel carcere di Opera

[anche con una dedica e/o un augurio di buona lettura, se ritieni. Se non sai quale edizione scegliere ci permettiamo di consigliarti Einaudi o Feltrinelli. Indirizzo della spedizione/consegna a mani: Direzione Casa di reclusione di Milano-Opera, via Camporgnago 40, 20141 Milano. Ci faremo personalmente garanti della consegna dei libri alle persone detenute interessate].

Delitto e Castigo

La macchia gialla

Si era più o meno di questa stagione.

Il mio papà una mattina mi portò a casa di mio nonno. Mio nonno faceva il contadino e abitava in una casa che, come quelle dei suoi vicini , anch’essi contadini, si affacciava su un grande cortile, di fatto un’enorme aia. Non mi piaceva particolarmente andare a casa di mio nonno, non saprei dire perché. Quel giorno, però, mi aspettava una sorpresa. Quando arrivai, superato il portone d’ingresso nel cortile, non riconobbi il luogo. Una magia l’aveva trasformato: l’aia era diventata color giallo sole e il contrasto col cielo azzurro era sorprendente. Ai bordi erano sedute molte persone che stavano sgranando le pannocchie di granturco. Chi canticchiava, chi parlottava, e intanto i chicchi gialli cadevano per terra e si aggiungevano agli altri, e la macchia gialla si allargava sempre di più.

La bellezza di quell’immagine mi avvicinò a mio nonno e al suo mondo e dopo quella volta ci andai  volentieri.

La bellezza di quell’immagine mi è rimasta nel cuore.

Officina creativa

La “mia” mappa per la pena

Nel trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio (simbolo di una memoria collettiva rivolta a tutte le persone perbene, uccise da mani mafiose), rimetto in ordine alcuni appunti e li affido – sempre più fiducioso – alla nostra capsula del tempo

 

Accadde che un pomeriggio di fine aprile 2022 Angelo Aparo detto Juri, con quel tempismo organizzativo che tutti gli riconosciamo, mi chiamò chiedendomi se “avessi piacere” a presenziare il 25 maggio successivo ad un incontro a Roma presso il Senato della Repubblica e a dire qualcosa.

Quando ho riattaccato il telefono, dopo avergli detto di sì meravigliandomi di ritrovare in agenda proprio quella giornata libera da impegni di udienza, mi sono chiesto se per questo incontro avesse pensato a me come magistrato o come cittadino: la domanda è solo apparentemente mal posta perché, se mi guardo indietro, ho conosciuto prima il Gruppo della Trasgressione e, solo dopo un anno, sono diventato pubblico ministero per aver superato un concorso pubblico.

Ed in effetti fu proprio grazie alla lettura del libro “I pugni nel muro” che esattamente 20 anni fa aiutai un Professore di una scuola superiore a portare una sua classe nel carcere di San Vittore, perché ritenevo importante anche io – ai tempi solo un educatore,  anche se laureato in giurisprudenza – che dei giovani potessero avere occasioni di “aprire gli occhi” sul mondo che li circondava.

Di questo mio primo incontro con i detenuti del Gruppo ho già scritto una volta:

Ricordo ancora perfettamente 40 minuti fitti fitti a sentire parlare, tra le altre cose, di uno psicologo che aveva fondato un Gruppo detto addirittura “della Trasgressione” e ad un certo punto, seduto fino a quel momento in silenzio intorno al tavolo, una voce che soddisfa la mia curiosità: “il dott. Aparo sarei io”.

E’ capitato a molti di scambiare Juri per un detenuto, e così è capitato a me fino a quando l’ho sentito prendere la parola.

E non è stato amore a prima vista, si badi bene… questo lo ricordo sempre perché a quell’incontro ne seguì un altro, nei mesi successivi in un bar vicino al carcere, che suggellò quello che in altre occasioni ho definito “un patto tra macellai”.

Nella mia incoscienza educativa proposi [ad Aparo] uno scambio di prigionieri: carne giovane di giovani scout in cerca d’autore vs. carne meno giovane ma ugualmente interessante. I primi prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19/20 anni, i secondi prigionieri di mura troppo strette. Entrambi però desiderosi di evasione, e – sia pure in quella prima fase inconsapevolmente – di mettersi a nudo fino al punto di farsi tagliare a piccoli pezzi da questa prospettiva di cambiamento interiore.

Nonostante queste premesse e la circostanza che poi superai anche il concorso per magistratura, l’idea (nostra, perché in fondo in fondo so per certo che lui non aspettava altro per il Gruppo) risultò vincente: partimmo nel marzo dell’anno dopo (2003) con il primo incontro in carcere, e da quel momento non abbiamo mai smesso […].

Questo fiume vitale [di giovani, entrati negli anni in carcere] condusse, quale dono della moltiplicazione, all’approdo del Gruppo della Trasgressione in molti istituti scolastici. Ed impagabile fu per me il piacere di constatare che un gruppo di criminali riusciva ad incidere sull’indole di adolescenti, in 3 ore di “lezione” nelle classi, molto più di quanto gli insegnanti in un triennio.

All’esito di questo mio cammino ventennale, a me sembra importante (e spero utile) mettere ordine ad alcuni accadimenti – di cui posso dirmi testimone diretto in quanto legati alla mia frequentazione con il Gruppo della Trasgressione – i quali con il tempo hanno generato nella mente (e anche nella pancia) di un pubblico ministero questi due spunti di riflessione.

Il primo parte da un passaggio dell’intervento (a ricordo dell’impegno sociale e culturale di Francesca Morvillo con i più giovani) che ho sentito pronunciare dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia lo scorso 6 maggio quando anche io mi trovavo nell’aula bunker di Palermo all’esito dell’incontro dei Procuratori europei del Consiglio d’Europa:

“C’è un nesso tra educazione e contrasto alla criminalità che non dobbiamo stancarci di coltivare.

E c’è un nesso tra rieducazione dei detenuti e sicurezza pubblica che dobbiamo imparare ad apprezzare in tutta la sua portata, come ci indicano anche gli strumenti internazionali […]”.

Vorrei concentrarmi sulla prima frase e, dalla mia particolare prospettiva di pubblico ministero, affermare che questo “nesso tra educazione e contrasto alla criminalità” deve necessariamente essere coltivato a partire dalla formazione degli studenti di giurisprudenza, prima che essi intraprendano il percorso per diventare magistrati (ma anche, lasciatemelo dire, avvocati).

Questa idea, che forse può apparire a prima vista un poco astrusa, io la voglio invece con forza ricollegare al bel titolo di questo incontro in Senato – “una mappa per la pena” – perché mi ricorda quando, alcuni anni fa, proprio con il Gruppo della Trasgressione siamo andati in un Istituto di istruzione superiore a Sesto San Giovanni a passare un intero pomeriggio solo perché una Professoressa (che si chiama Sofia Lorefice e che conobbi, quattordici anni prima, quale giovane scout partecipante ad uno dei nostri primi incontri in carcere) si era messa nella testa che si potesse parlare di Cittadinanza e Costituzione agli studenti del quinto anno anche in questo modo, ossia grazie ad un incontro di testimonianze apparentemente diverse.

Io arrivai a quell’appuntamento con un passaggio di un intervento di Piero Calamandrei (tenuto alla Assemblea Costituente nella seduta del 4 marzo 1947) il quale ricordava a tutti noi come la Costituzione è fatta anche di disposizioni cd. programmatiche e tra esse, a mio modesto avviso, è compreso anche l’art. 27 comma 3. Calamandrei propose di inserire questo tipo di disposizioni non già nella forma di articoli ben determinati ma in una sorta di Preambolo. Ma poi, proprio in questo intervento, spiegò chi riuscì a fargli cambiare idea e come:

Ecco, nell’essere pionieri in questo nostro viaggio dovremmo iniziare a distribuire queste mappe sulla pena nelle aule universitarie, prima che nei Tribunali. Perché, allo stesso modo, anche quando siamo andati – grazie, questa volta, ad un fecondo protocollo di intesa tra le università milanesi e l’associazione Libera – un intero pomeriggio all’Università Bicocca di Milano ad accompagnare alcuni Familiari delle vittime della criminalità mafiosa (ricordo, in particolare, Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani) ho percepito, alla fine della profondità dei loro interventi,  la fortuna che quei giovani studenti di giurisprudenza avevano avuto proprio grazie quell’incontro.

Fortune che, per esempio e per quanto possa qui valere, io non ho avuto: diversi Professori (da Federico Stella ad Angelo Giarda) mi hanno lasciato un segno indelebile nel diritto e nella procedura penale ma quanto a tutto il resto (che oggi è al centro di questo nostro ragionamento) io personalmente lo devo ai casi della vita e non alla struttura precostituita del mio percorso universitario.

Concludo allora questo primo spunto con una rivelazione per quei detenuti del Gruppo che erano a Sesto San Giovanni quel pomeriggio del 2019: alcuni mesi fa, mentre ero in ufficio in Procura, verso le 13 bussa alla mia porta un ragazzo che mi dice: “sono venuto in Tribunale per un convegno, lei sicuramente non si ricorda di me ma volevo dirle che dopo quell’incontro nella nostra scuola mi sono deciso ad iscrivermi a giurisprudenza. Buon pomeriggio e grazie”. Ecco, ve lo dico oggi perché se poi Giacomo diventerà un magistrato lo avrete anche voi sulla coscienza!

Questo poi lo dico anche perché ricordo perfettamente, una decina di anni fa, la posizione di alcuni magistrati (sia pure autorevoli) contrari al fatto che gli allora uditori giudiziari (oggi magistrati ordinari in tirocinio) cominciassero a svolgere – per la prima volta rispetto a quanto era sempre avvenuto in passato – una parte del loro percorso  formativo dentro il carcere, perché (si sosteneva) era importante rimanessero “non psicologicamente condizionati” in tal senso.

Per quanto mi riguarda, posso dire – come avrete ormai capito – di avere una fitta frequentazione (non solo nel mio lavoro quotidiano ma anche quando poi, quantomeno un fine settimana all’anno, mi metto le scarpe da tennis e vado a partecipare ai lavori del Gruppo in carcere) con persone detenute per aver commesso dei reati ma di stare invece, nonostante questo tipo di frequentazione, dalla parte delle vittime.

Io, tra vittima e carnefice” è appunto il titolo di una mia riflessione che accompagna un importante lavoro che, insieme a Juri Aparo e altri due professionisti (il criminologo Walter Vannini e il giornalista Carlo Casoli), nel 2017 – dopo una gestazione di oltre 7 anni – fa abbiamo regalato alla città di Milano, a Libera, all’Agesci e a tutte quelle altre realtà educative interessate a far capire cosa succede – nel tessuto sociale – ogni volta che viene commesso un reato.

Questo lavoro è racchiuso in 63 minuti di un documentario, liberamente fruibile in rete dal sito lostrappo.net, che appunto si intitola “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”. Abbiamo rivolto le stesse tipo di domande a chi ha subito un crimine, a chi lo ha commesso (e qui il documentario è ricco di interventi di molti detenuti del Gruppo della Trasgressione, ripresi nei loro ragionamenti durante alcuni incontri), a chi è chiamato ad amministrare giustizia e a chi invece è chiamato, nel mondo dei media, a raccontare a tutti noi questi fatti.

Tutto questo materiale è stato montato da 4 bravissimi professionisti (che si fanno chiamare Dieci78) in maniera tale che, come ha scritto in una acuta recensione Manuela D’Alessandro,

“i protagonisti dello ‘Strappo’ hanno una cosa in comune. Si cercano tutti, in uno strano girotondo, anche per maledirsi, e si toccano tutti anche solo per vedere com’è la pelle dell’altro”.

E arrivo allora al secondo spunto di riflessione, che questa volta mi chiama in causa direttamente come pubblico ministero (e non più come, in un tempo ormai lontano, studente di giurisprudenza): cosa ci faccio io in questo “strano girotondo”?

E questo spunto di riflessione lo ricollego, ancora una volta, a quella “intervista sulla punizione” a cui il Gruppo sottopose me – insieme ad altre persone, a dire il vero molto più esperte di me su quel tema – nel 2005. Io ero alla fine del mio primo anno in Procura a Milano dopo la presa di possesso come pubblico ministero e già mi sembrava che qualcosa non tornasse nel modo in cui l’art. 27 comma 3 della Costituzione venisse “declinato” nella pratica.

Sarà che, per la mia tesi di laurea, ho lavorato più di un anno presso il Tribunale per i minorenni di Milano per “confutare”, numeri alla mano sui tassi di recidiva, il pensiero di un magistrato che riteneva che la custodia cautelare per un soggetto di minore età potesse avere, a differenza di quanto di regola non avviene per i maggiorenni, una efficacia “educativa”.

Ma al di là di questa mia esperienza pregressa, la domanda era e rimane anche oggi questa: a chi si dovrebbe rivolgere l’art. 27 comma 3? A quale magistrato questa norma, appunto e sempre nell’ottica del Sommo Poeta, deve illuminare la strada?

Solo al magistrato della sorveglianza che appunto “esegue” la pena? O, al più, anche al giudice che tale pena “applica”?

E invece, quanto al pubblico ministero…. lo lasciamo fuori dall’art. 27 comma 3 della Costituzione? Lo lasciamo fuori, a fare – permettetemi l’ironia – “il bello addormentato”?  Ossia il magistrato che, come nel quadro di un celebre pittore francese dell’ottocento (Thomas Couture), se la dorme nel mentre? Ricordo peraltro a tutti che è il pubblico ministero, di regola, il primo “volto della giustizia” che il reo incontra sul suo percorso!

Ecco, io ho sempre creduto di no… ho sempre creduto che l’art. 27 comma 3 della Costituzione chiami in causa anche me e, più in generale, ciascun pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Ed è anche per questo che ricordo di aver passato un lungo pomeriggio in un bar (un altro bar sempre nei dintorni di San Vittore) a cercare di farmi spiegare dal dott. Aparo perché quel mio indagato – rispetto al quale tutta la scena del crimine parlava a favore della sua colpevolezza – non volesse raccontarmi la verità.

Volevo farmi spiegare quali fossero i meccanismi, nella testa di una persona, che potevano consentirle di cogliere per davvero il senso di quanto avesse compiuto ed intraprendere così un percorso di cambiamento.

Ma, credetemi, ritenevo che non tanto per me (o, ancora peggio, per il buon esito della mia indagine) quella verità doveva essere raccontata.

Perché 13 colpi erano esplosi alle 9 del mattino in un parcheggio di una città dell’hinterland milanese, due persone erano morte e ad un’altra persona (allo stesso tempo sorella e figlia delle due vittime) durante tutto il processo non importava nulla del fatto che il pubblico ministero (che ero io) avesse chiesto l’ergastolo … lei voleva una cosa diversa: voleva parlare con il carnefice!

Ecco, gran parte di quello che posso dire di aver imparato dalla mia frequentazione con il Gruppo della Trasgressione può essere ben riassunto da una domanda di senso. Domanda alla quale io ho personalmente assistito, con una sofferenza per me lacerante (ma questa è un’altra storia che qui non interessa) mentre il dott. Aparo si rivolgeva ad un detenuto non del Gruppo che, sia pure condannato in nome del popolo italiano, aveva appena concluso un suo intervento pubblico affermando di “non sentirsi responsabile” per quello che era successo:

 “se lei è un cristiano, come dice di essere, la vittima per definizione è suo parente… non le sembra quindi strano che lei non sappia come rivolgersi a quella persona che è morta, se non dirle che non si sente responsabile per quello che è successo? Perché è solo quando l’uomo cerca la sua responsabilità che diventa libero”.

Ecco, io credo che questa mappa di cui stiamo cercando di tracciare i contorni debba arrivare a concepire una modello di giustizia penale nella quale il reo non sia più responsabile solo “di qualcosa” (di un omicidio o di una truffa qui poco importa) ma  anche responsabile “verso qualcuno”.

Una mappa che ci porta verso quella necessità di “punire bene”, per dirla con Duccio Scatolero le cui riflessioni mi hanno letteralmente folgorato durante la mia tesi di laurea.

Dove appunto il “punire bene” diventa un vero e proprio diritto per il reo e per l’attuare del quale è imprescindibile una punizione in cui il ruolo di colui che punisce non si esaurisca nell’atto di irrogare la pena.  Perché appunto se ogni colpevole ha il diritto ad essere punito bene, questo significa – in altre parole – che proprio tramite l’atto del punire lo Stato deve prendersi idealmente carico del suo esito e, per esso, della sua piena efficacia. Solo in questo modo – continuava Scatolero – la punizione acquista allora anche il significato dell’essere presente per il reo, laddove altri – la famiglia, gli amici, la società – non ci sono stati.

L’essere presente per il reo” allora, per il pubblico ministero e come accennavo prima, è essere dunque “qualcuno che ti cerca”. Qualcuno che cerca non solo di rendere verità e giustizia per le vittime ma che si pone, all’interno delle indagini che è chiamato a compiere per il compito che la Costituzione gli affida, tra gli obiettivi anche quello – se possibile – di cercare l’uomo dentro il criminale.

Il che è un compito difficilissimo, cari componenti del Gruppo della Trasgressione, perché l’esame di magistratura – al momento – non ci chiede neppure lontanamente di sapere fare anche questo…

Così come immagino sia stata una iniziativa personale ed estemporanea della Prof.ssa Mariella Tirelli (e non già del sistema universitario in sé) quella che ha portato Alessandra Cesario a frequentare il Gruppo, durante il suo percorso di studentessa di giurisprudenza che l’ha vista poi laurearsi nel 2008 con una tesi sul metodo APAC (carcere senza carcerieri, nelle quali “entra l’uomo” e “il reato resta fuori”).

Nella mia tesi di laurea, invece, nel 1997 avevo inserito anche questa citazione letteraria, quasi un omaggio alla mia importante esperienza educativa scout:

“C’è anche questo di bello nella legge della Jungla: che la punizione salda ogni conto e non lascia rancori. Mowgli appoggiò la testa sulla groppa di Bagheera e si addormentò così profondamente che non si risvegliò nemmeno quando fu deposto a fianco di mamma Lupa nella caverna”.

Nella mia continua ricerca di una terra dove il punito Mowgli possa addormentarsi, lui sì, sulla groppa di Bagheera (che lo ha ben sanzionato dopo averlo cercato e compreso), consentitemi però – giunto alla fine di questa mia testimonianza – una domanda retorica: “caro Juri, cosa succederà quando, come ragionevolmente te lo puoi concedere dopo tutti questi anni di fatiche, non avrai più piacere a continuare a camminare lungo questo percorso?”

In altre, e meno retoriche, parole: chi dovrà clonare il dott. Aparo? Chi dovrà saperne estrarre il DNA del suo metodo di lavoro? Chi dovrà continuare a tenere acceso quel “lume”, a cui Dante faceva riferimento, verso questa direzione già intrapresa e ben fino ad ora sperimentata?

Bene, anche a beneficio di tutti quei giovani che si vorranno avvicinare a questa così impegnativa professione che è quella del magistrato, credo che davvero sia arrivato il momento che le Istituzioni facciano la loro parte, a partire da domani mattina, perché questo “centro studi e laboratorio permanente” che viene proposto in questo incontro in Senato possa diventare presto una realtà feconda in tutta Italia e non solo nelle tre carceri milanesi dove il Gruppo attualmente opera.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

– F. MANTOVANI, “Diritto penale. Parte generale”, III edizione, Milano, 1992, pp. 741 ss
– F. STELLA, Prefazione in E. WIESNET, “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita”, Milano, 1987
– D. SCATOLERO, Atti delle Giornate nazionali di studio e di riflessione sull’applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, Milano 23-24 ottobre 1992, p. 136
– C. MAZZUCATO, La giustizia dell’incontro in G. BERTAGNA-A. CERETTI-C. MAZZUCATO (a cura di), “Il libro dell’incontro”, Milano, 2015
– F. OCCHETTA, “La giustizia capovolta”, Milano, 2016

Una mappa per la pena

Succede anche a me

Non ho particolari storie da raccontare per provare a non farti sentire “l’unico”, per provare a darti speranza che, anche se ora non lo vedi, un futuro esiste anche per te. Tanto meno penso di essere in grado e soprattutto di essere anche lontanamente all’altezza di Adriano, Nuccio, Mohamed per permettermi di darti consigli.

Ha ragione il prof quando dice che a 22, 23 anni che consigli posso mai darti? Ma soprattutto, che consigli potrei mai darti io che non ho minimamente idea di quello che hai e stai passando? Cerco allora di cogliere il tuo dolore – che direi essere del tutto percepibile e comprensibile – e provo a toccarne un pezzettino e ad immergermi, per poterti ascoltare sinceramente.

Il prof ci aveva chiesto di provare a dire che emozioni stessimo provando durante l’incontro e se avessi avuto la prontezza di saper rispondere (mannaggia a me) avrei risposto “non lo so”. Quando  ha chiesto anche a te quali emozioni tu stia provando dentro di te hai risposto che è tutto un mix…

Ti capisco! Capita spessissimo anche a me di non saper dare un nome ed una forma alle mie emozioni, perché quasi sempre sono un incasinatissimo gomitolo di sensazioni tutte attorcigliate su loro stesse.

Capisco anche quando dici che quello che ti dicono da una parte entra e dall’altra esce, perché sei fermo sulla tua idea e niente e nessuno può smuoverti da quella convinzione. Succede anche a me, soprattutto a casa, soprattutto con mia madre.

Da quando però frequento il Gruppo sto piano piano e goffamente imparando a raccogliere qualche semino qua e là, che magari al momento possono sembrare innocui, che non ti lascino nulla di concreto… ma posso assicurarti che qualcosa lasciano eccome: per quanto mi riguarda, ascoltando settimana dopo settimana i vostri racconti, le vostre storie, i vostri pensieri, quando torno a casa penso, mi faccio domande, ma soprattutto cerco in qualche modo di provare a conoscermi sempre di più, a capirmi un po’ di più, a volte forse anche a darmi un po’ di tregua.

Con tutto questo sto cercando di dire in qualche modo che, se tu vorrai, potrai provare a conoscerti e a capirti un po’ di più con il Gruppo. Il percorso che hai davanti è senz’altro lunghissimo e difficilissimo, ma con tutta l’umiltà del mondo penso che tu sia già sulla strada giusta, e sentendo quello che hanno detto chi ci è già passato prima di te, me ne convinco ancora di più.

Sono fortemente convinta che il processo inizia con la consapevolezza del proprio senso di colpa, quello sano però, quello che non ti faccia dimenticare che comunque la tua vita non vale meno di quella del signore che non c’è più, che non ha meno importanza della sua, ma che, come meritava di essere vissuta la sua, anche la tua non è da meno… soprattutto a 24 anni.

Non esiste e non deve esistere una gomma che cancelli quello che è successo, ma esistono degli strumenti che ti danno la possibilità di ascoltare il tuo dolore, di capirlo, di provare a dargli un colore e una forma, di accettarlo. Io questi strumenti li ho intercettati nel Gruppo, perché come dice Adriano, qui nessuno ti tratta come uno stronzo o come un mostro, qui vieni trattato per ciò che sei: una persona.

Una delle mille cose che proprio voi mi insegnate con la vostra coscienza e consapevolezza è che voi non siete il vostro reato, voi siete persone, che certo hanno commesso degli errori, ma pur sempre persone, e tu non sei sicuramente da meno.

Camilla Bruno                                                          Homo sum…