Una giornata particolare

I film che abbiamo analizzato nel cineforum con il gruppo della trasagressione sono: Rocco e i suoi fratelli, Ladri di biciclette, Strane storie, I cento passi, Una giornata particolare.

Ho deciso di concentrarmi sull’ultimo, perché è quello che durante la visione mi ha stupito più volte, mi ha coinvolto e mi ha fatto immedesimare di più.

Con la mia opera scelgo di rappresentare la scoperta dello spettatore durante la visione del film, ma anche la riscoperta interiore dei protagonisti in quella che diventerà una giornata particolare. Sono inserite alcune citazioni e immagini dal film e alcune frasi da me trascritte durante l’incontro del cineforum con il Gruppo della Trasgressione.

I fogli da lucido rappresentano i passaggi e le evoluzioni del nostro pensiero attraverso l’analisi del film. Le due immagini sono posizionate in modo da coprire gli occhi di Antonietta, dapprima succube di un’ideologia di discriminazione, ma girando le pagine e avanzando con la lettura delle riflessioni che nascono si rivela il volto della protagonista che prende consapevolezza di se stessa.

Un’evoluzione ulteriore è rappresentata dai disegni semplificati e man mano acquistano forma. In conclusione la forma del mio elaborato vuole ricordare un libro, ad evidenziare l’elemento di cultura e di conoscenza mortificato nel contesto storico fascista e che è uno dei motivi che unisce i nostri due protagonisti.

Giulia Napodano

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Il danno e la parola

Il danno precede un affanno
Il panno squarciato:
spaccato sull’anima e sulla ragione
il cui sonno genera mostri.
Mostri difficili da placare se non
Con il danno, panno squarciato.
Cura la parola più pura
Che nel tempo dura
nonostante il danno
che perdura.

 

Questa poesia l’ho composta durante il primo lockdown pensando al gruppo della trasgressione e alla giustizia riparativa, ma penso che possa essere tanto più attuale in questa seconda reclusione vissuta in cui ho perso, in soli 13 giorni, uno zio a cui ero particolarmente legato e i miei due nonni.

Ho deciso di raccontare con questo testo le cose che  ho capito e che ho recepito dai vari incontri di cineforum con il gruppo della trasgressione. Forse c’entra poco con la banalità e la complessità del male. Ma forse no, questa domanda la faccio perché la giustizia dovrebbe creare pace tra gli esseri umani e non rispondere all’odio e alla violenza semplicemente punendo il criminale, il quale va reintrodotto e rieducato alla pace e alla giustizia, in tutte le loro declinazioni.

Nella mia poesia c’è una citazione per un’incisione del preromanticismo di Goya:”il sonno della ragione genera mostri”.

Davide Mastrolia

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Nodi da sbrogliare

L’esperienza con il gruppo della Trasgressione si è svolta a partire dalla terza superiore. Gli incontri con i detenuti sono stati emozionanti.

Mi ricordo in particolare un momento, in uno dei primi incontri in terza, nel quale uno dei detenuti che era venuto in visita a scuola, aveva recitato una sua poesia. Non ricordo di cosa parlasse, ma ricordo che avevo vividamente percepito l’umanità di chi mi trovavo di fronte. I detenuti sono in diversi casi disumanizzati e ridotti soltanto al crimine che hanno commesso.

L’elaborato grafico che ho realizzato prende ispirazione da una frase di Stephen King, che recita “monsters are real, ghosts are real too. They live inside us and sometimes they win

Penso che questa frase possa racchiudere efficacemente il concetto di banalità e complessità del male, in quanto i “mostri” che tutti noi ci portiamo dentro possono essere frutto di un milione di cose, anche se spesso sono ridotti semplicemente a poche frasi, o addirittura soffocati, fingendo che non ci siano.

La giustizia riparativa a mio parere serve proprio a questo: non soffocare semplicemente i mostri perché non tornino ad uscire violentemente, ma piuttosto capirli nella loro essenza, sbrogliando i fili che li annodano alle persone.

Amanda Manfredini

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Cento passi dal male

Nelle ultime settimane la mia classe ha partecipato a degli incontri con il gruppo della trasgressione. Il tema principale è stato la banalità e la complessità del male, considerando il significato attribuitogli da Hannah Arendt nell’opera omonima del 1963.

La filosofa e storica tedesca ha sollevato la questione che il male possa non essere radicale, ma possano essere invece l’assenza di radici e la privazione del proprio pensiero a trasformare personaggi spesso banali in artefici del male stesso.

È questa stessa banalità a rendere, com’è accaduto nella Germania nazista, un popolo esecutore di terribili eventi della storia e a far sentire l’individuo non responsabile dei propri crimini e incapace di comprenderne la gravità. Ed è così che una persona normale può ritrovarsi a fare del male se inserita in un meccanismo politico–sociale che la spinge ad agire senza pensare.

Se inizialmente non avevo compreso cosa si intendesse realmente per banalità e complessità del male, con il corso degli incontri e dei contributi da parte dei partecipanti, il tema si è delineato sempre di più, diventando più chiaro. Ad arricchire questi colloqui e me stessa sono stati i numerosi interventi di uomini e donne che hanno raccontato frammenti della propria vita e che, grazie alla loro esperienza, sono stati capaci di comprendere dei significati più profondi dei film, che a volte non ero riuscita a cogliere.

Ancora di più, però, mi hanno colpito gli interventi dei carcerati e degli ex detenuti: essi hanno condiviso in modo emozionante le loro esperienze. Questo è stato per me un enorme regalo. Mettendomi nei loro panni, ho potuto comprendere la difficoltà e la vergogna a parlare di capitoli dolorosi del proprio passato. Loro in realtà portano con sé questi ricordi tutti i giorni e ne hanno parlato con una tale naturalezza e sincerità che mi ha affascinato e arricchito.

È grazie alla condivisione di esperienze altrui che l’uomo, ma soprattutto noi ragazzi apprendiamo, impariamo a dare significato alle cose, miglioriamo, mettiamo in discussione noi stessi e il nostro pensiero. Quello che più mi rimarrà di questi incontri sono la consapevolezza che il male è ovunque, qualcosa di infido con cui è molto facile entrare a contatto, e la coscienza di come esso possa assumere diverse forme.

Abbiamo visto come nel film “I cento passi” viene sottolineata la vicinanza con il male, che, appunto, si trova metaforicamente e letteralmente a soli cento passi da noi. Ognuno può fare esperienza del male, ma tutti possiamo salvarci anche grazie a una persona che ci aiuta e che ci guida. Un genitore, un figlio, un amico o istituzioni come la scuola, chiunque può essere fondamentale in questo percorso. Ci sono tante persone che possono indirizzarci verso una via migliore, che ci influenzano positivamente e che portano con sé un senso di speranza per il futuro; queste figure le abbiamo individuate in Ciro in “Rocco e i suoi fratelli” o nel piccolo Bruno in “Ladri di biciclette”.

Questo è il significato del mio disegno: una persona di spalle, quindi irriconoscibile perché rappresenta ognuno di noi, con lo zaino in spalla che percorre un sentiero che simboleggia la vita, un cammino e una continua scoperta di cose nuove. Sul fondo una figura che tende la mano, che ci guida e che ci tiene lontani dal male, rappresentato da delle mani inconsistenti e piatte, ma molto potenti, che si insinuano nel nostro cammino.

Celeste Nardelli

I contributi del Liceo Brera al cineforum

Il progetto

Premessa

Il progetto nasce dalla constatazione che molto spesso il detenuto, soprattutto quando i figli sono molto piccoli, mente sulla propria condizione, non dichiara di essere detenuto in carcere.

Spesso con il consenso della moglie, egli racconta ai figli di vivere per esigenze di lavoro in una struttura non meglio specificata. Quando i figli diventano abbastanza grandi, il padre ammette di essere in carcere, ma omette le proprie responsabilità sulla condanna, racconta di errori giudiziari, di essere in attesa di un prossimo chiarimento e di una prossima scarcerazione.

Questo, inevitabilmente, stimola nei ragazzi rancore nei confronti di chi tiene il padre segregato. In una prima fase avviene di solito che il padre venga idolatrato; più avanti, quando le sue bugie diventano plateali, l’immagine paterna viene squalificata, anche se questo, per i figli, non corrisponde a un incremento della fiducia nelle istituzioni che lo tengono ristretto.

Una complessa combinazione di fattori ambientali (le distanze, i tempi esigui delle telefonate, la difficoltàn, un ambiente rumoroso e poco intimo, di comunicare altro oltre ai saluti e alle raccomandazioni di rito) e soggettivi (l’immaturità, la paura di far male, l’incapacità del genitore di capire cosa è bene per i figli) fa sì che i colloqui in carcere siano vissuti all’insegna della superficialità.

In questo modo i genitori, intanto che danno versioni poco verosimili della loro condizione, sentono di avere sempre meno il diritto di esercitare la loro funzione genitoriale e di chiedere ai figli di comportarsi bene; da parte loro, i figli sentono il dovere di lasciar credere ai genitori di non avere capito come stanno le cose. L’impasto di menzogne, di attese continuamente deluse, di compromessi farà sì che i genitori non abbiano alcuna autorevolezza quando i figli, giunti all’adolescenza, cominceranno qualche volta a prendere la strada della droga e della devianza; allo stesso tempo darà luogo ad adolescenti violenti e spesso autodistruttivi.

Un lavoro sulla relazione fra genitori e figli, capace di portare i genitori detenuti ad un costruttivo esercizio delle loro funzioni parentali, promette di ridurre quello che forse è il danno più grande che il reato e la conseguente lontananza fra genitori e figli producono: le spinte devianti della 2° generazione.

locandina di Adriano Avanzini

 

Obiettivi

L’obiettivo ultimo del progetto è evitare che la detenzione dei genitori porti automaticamente ad adolescenti arrabbiati contro i genitori e a futuri cittadini sfiduciati verso le autorità e le istituzioni.

In relazione a questo, si punta nell’immediato ad accrescere fra i detenuti che partecipano al progetto la consapevolezza delle dinamiche relazionali fra genitori e figli e delle proprie responsabilità verso i figli e la collettività.

È parte integrante dell’obiettivo coltivare una serie di attività culturali che permettano ai padri di acquisire l’autorevolezza senza la quale i detenuti si sentono facilmente ricattabili dai figli (“Se pretendi che io faccia così, non vengo la settimana prossima a trovarti”).

Nel tempo, è previsto che, grazie a incontri allargati in carcere, i detenuti che abbiano fatto un percorso appropriato possano gradualmente estendere ad altri ristretti le competenze, la sensibilità e le motivazioni acquisite.

 

Tempi e procedure

Il progetto prevede:

  1. incontri settimanali durante i quali viene dato spazio a riflessioni e a scritti dei detenuti sulla loro relazione con i figli e sul progetto. Nel corso degli stessi incontri viene anche dato ampio spazio ad alcuni dei temi di cui il gruppo si occupa da sempre e, in particolare, a quelli più utili per stimolare l’importanza della comunicazione fra genitori e figli e “il piacere della responsabilità”;
  2. attivazione su Voci dal Ponte di un’area nella quale vengono riportati:
    • gli scritti dei detenuti sul tema
    • ove ve ne fossero, gli scritti sul tema dei loro congiunti
    • la documentazione degli sviluppi dell’iniziativa
  3. incontri trimestrali fra il gruppo della trasgressione e i familiari di tutti i componenti del gruppo, che sono a volte accompagnati da interventi musicali e sono sempre seguiti da un pranzo durante il quale i detenuti stanno con i loro familiari;
  4. Incontri allargati ad altri ristretti dell’istituto nel corso dei quali i detenuti del gruppo della trasgressione possano presentare i risultati ottenuti e svolgere verso gli altri detenuti il ruolo di Peer support.
  5. In tutti gli incontri del progetto e, a maggior ragione, nel corso degli incontri allargati agli altri detenuti dell’istituto, si intende promuovere delle situazioni in cui i genitori detenuti possano essere visti dai figli come persone che oggi stanno imparando a collaborare costruttivamente con la società e con le istituzioni.

Ancora in piedi [I’m still standing]

Dice bene quel grande genio di William Kentrigde:  “il suono cambia quello che vediamo e quello che vediamo ha un effetto su quello che sentiamo”.

Uno stesso suono può dunque essere diversamente veicolato nella nostra mente a seconda delle immagini alle quali esso viene abbinato. E così può accadere che, per i casi della vita, una canzone che mi aveva sempre parlato – per tanti anni fino a quel preciso momento – di un amore disperato tra un uomo e una donna possa assumere, meravigliosamente quanto imprevedibilmente, il significato diverso di un legame tra un padre ed un figlio.

https://www.youtube.com/watch?v=pHZneOidj9A

Don’t you know I’m still standing better than I ever did /non lo sai che sono ancora in piedi meglio di quanto non lo sia mai stato ?

Looking like a true survivor, feeling like a little kid / sembrando un vero sopravvissuto, sentendomi come un bambino piccolo

I’m still standing after all this time / sono ancora in piedi dopo tutto questo tempo

“Papà, ma se era così tanto forte non poteva scappare prima dalla prigione?”

“Non credo, lo ha potuto fare solo grazie al potere della musica”, ho abbozzato io come risposta alla curiosità di mio figlio.

Devo ammettere che prima di scoprire il Kentrigde regista teatrale mi aveva colpito il Kentrigde disegnatore “in bianco e nero”, e più ancora quanto l’artista sudafricano è solito raccontare nelle interviste in merito a quella scatola che vide sulla scrivania di suo padre quando aveva l’età di 6 anni. Credendo contenesse cioccolatini, la aprì e vi trovò invece “immagini di una donna con la schiena spazzata via dai colpi d’arma da fuoco, di qualcun altro di cui la metà del viso era visibile”. Questo perché il padre, Avvocato di Johannesburg, un anno prima aveva assunto la difesa delle famiglie delle vittime del massacro di Sharpeville (21 marzo 1960 – la polizia sparò sui dimostranti, uccidendo 69 persone di colore).

Nell’osservare le animazioni di Kentridge si nota come la cancellatura di un tratto di matita non viene utilizzata per eliminare un errore quanto per dare costruzione al filmato. Allo stesso modo mi ha sempre colpito il fatto che l’artista difficilmente utilizzi un foglio bianco per i suoi disegni ma parta sempre da qualcosa già realizzato in natura. Come se per riprendersi da quello shock avesse trovato nell’Arte il giusto vaccino per restituire al dolore subìto un significato più profondo, che nulla ha a che fare con il dimenticare quanto piuttosto con il lasciare riemergere quello che è stato senza che di conseguenza quello che sei diventato  venga per ciò stesso rimesso sullo sfondo.

Allo stesso modo anche questo 2020 ci ha regalato, anche recentemente in diretta Zoom e sempre complice l’infaticabile Juri Aparo, testimonianze di padri che riescono a cogliere – nel tempo lungo della pena detentiva – l’occasione per tentare recuperare il loro rapporto con i figli (anche essi, in questo senso, vittime dei reati da loro commessi e congelati negli affetti di un tempo passato).

Ed è così che, alla fine di quest’anno così difficile per tutti (vittime o carnefici poco importa anche durante questa pandemia) e così inaspettatamente faticoso anche per me, ho pensato fosse utile ripartire da quelle parole rosa scritte da mia figlia per la Giornata della memoria e dell’impegno, rimaste appese sulla porta della nostra cucina nelle settimane successive del nostro lungo lockdown milanese.

E custodire tra le cose che mi hanno più utilmente sconvolto l’immagine di Ulisse in un letto di ospedale, alla quale – nel mezzo del mio cammino che è stato fortemente segnato dall’esperienza del Gruppo della Trasgressione e dall’incontro di molti Familiari di vittime – oggi posso anche io aggiungere un suono (potere della musica, altra medicina di questo triste 2020): “sono ancora in piedi”.

Una scena dell’opera lirica «Il ritorno di Ulisse in patria» di Monteverdi [allestimento di William Kentridge]

Ma, potendo scegliere, non voglio “sembrare un vero sopravvissuto” quanto piuttosto “sentirmi come un bambino piccolo” che è stato (ri)generato da una esperienza terribile. Perché – davvero – sono le nostre fragilità, se affrontate, a renderci più forti.

Con affetto e riconoscenza, nella speranza di rivedervi tutti di persona nel 2021 per continuare insieme il nostro viaggio finora così fecondo.

Esperienze che (in)Segnano

Andrea Martina Sinigaglia, Matricola: 848264
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno

Periodo: dal 5/10/2020 al 15/12/2020
Titolo del progetto: Il Gruppo della Trasgressione, Esperienze che (in)Segnano

 Caratteristiche generali dell’attività svolta:
istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Il Gruppo della Trasgressione è una associazione che si occupa della tematica della devianza agendo sia all’interno degli istituti penitenziari che all’esterno. L’obbiettivo è quello di ideare e mettere in pratica progetti di prevenzione e contrasto alla delinquenza, ma anche quello di una ‘riabilitazione’ dei detenuti che, grazie al contatto umano e all’interscambio di emozioni ed esperienze, hanno la possibilità di interfacciarsi con una realtà extra-carceraria culturalmente e intellettualmente appagante così da costruirsi le basi per un futuro migliore. C’è tanta possibilità di crescita e di miglioramento, sia per i detenuti che per gli altri componenti del gruppo (professionisti del campo e famigliari delle vittime) ma anche, e molto, per gli studenti e tirocinanti che si affacciano a questa piccola realtà con un grande progetto, il Gruppo della Trasgressione.

Il tutto si fonda per lo più sulla partecipazione ad incontri settimanali di vario tipo. Al momento, causa pandemia, non è risultato possibile svolgere incontri all’interno delle carceri con cui il Gruppo collabora (Opera, Carcere di Bollate e San Vittore) ma si è rimediato a ciò tramite l’utilizzo della piattaforma Zoom. In particolare, gli incontri fissi svolti settimanalmente erano/sono: il Cineforum sulla Banalità e Complessità del Male il lunedì pomeriggio, il Progetto sulla Genitorialità Responsabile il martedì pomeriggio e, a settimane alterne, la Palestra della Creatività e il Mito di Sisifo il giovedì pomeriggio. Nel corso della settimana vengono poi saltuariamente svolte ulteriori attività di vario tipo legate al fatto che l’associazione è attiva sul territorio milanese e regionale e prende parte a diverse attività/progetti culturali di varia natura.

Elemento fondamentale di tutto è la comunicazione e condivisione dei propri pensieri, emozioni ed esperienze; non solo da parte dei detenuti/ex-detenuti ma anche di tutti gli altri componenti del gruppo, compresi gli studenti e tirocinanti passeggeri. È difatti richiesta e ben accolta la piena partecipazione di tutti in quanto è solo così che si può attuare, e anche solo pensare, una possibile crescita e miglioramento personale e sociale.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Ciò che viene chiesto, e caldamente consigliato, ai vari tirocinanti è di mettersi nel ruolo di partecipante attivo. Un vero e proprio membro che, assieme al gruppo, collabora nei vari progetti e può aiutare sia fisicamente tramite la stesura dei verbali dei vari incontri, la recitazione-improvvisazione all’interno della rappresentazione teatrale del gruppo, il Mito di Sisifo, eccetera; sia concettualmente condividendo le proprie idee, opinioni ed esperienze sulle varie tematiche affrontate dal gruppo.

La partecipazione attiva al gruppo non è una regola imposta ma una opzione alla quale si viene incoraggiati, pur nella libera scelta del singolo tirocinante. Io, per mio avviso, penso di essermi messa molto in gioco e mi sento di consigliare anche ad altri eventuali stagisti di fare lo stesso in quanto non comporta null’altro che un beneficio umano e professionale. Il gruppo nella sua totalità è in grado di metterti in contatto con te stesso come persona con le proprie fragilità e punti di forza e metterti anche in contatto con gli altri così da aiutarsi reciprocamente ed evolvere insieme.

Il ruolo che ho svolto è quindi quello di membro del gruppo e per il gruppo: partecipando attivamente agli incontri, contribuendo alla stesura dei verbali degli incontri, lavorando in gruppo per la realizzazione di alcune interviste, recitando-improvvisando per la rappresentazione teatrale ed infine contribuendo scrivendo e leggendo un testo personale per il progetto sulla violenza contro le donne in cui il gruppo è stato coinvolto.


Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Le attività concrete svolte dal/con il Gruppo della Trasgressione riguardano in primis la partecipazione agli incontri settimanali fissi, già precedentemente citati. In particolare, il lunedì pomeriggio si svolge il cineforum sulla Banalità e Complessità del Male. Questo è un progetto che consiste nella scelta e visione di alcuni film inerenti alle tematiche della devianza, del male e della fragilità umana e successiva discussione degli stessi tramite dibattito. Il periodo socialmente difficile che stiamo vivendo a causa della pandemia ha costretto allo svolgimento degli incontri settimanali in versione online, tramite la piattaforma Zoom. Vi è quindi un incontro in cui solitamente una ventina di persone si interrogano sul film visto cercando delle corrispondenze tra quest’ultimo è il tema principe del progetto che è la complessità e banalità del male.

Importante sottolineare come il titolo del cineforum viene estrapolato dall’omonimo libro di Hannah Arendt in cui con il termine ‘banalità’ non ci si riferisce al significato enciclopedico più conosciuto di superficiale, semplice, eccetera; ma si vuole invece far riferimento alla capacità del Male di essere così pervasivo e insidioso che, come una erbaccia infestante, si fa largo nella quotidianità di ognuno di noi.

Il progetto prevede la possibilità di condividere gli incontri e ciò che ne viene estrapolato con gli studenti delle scuole così da poter essere strumento di dialogo, riflessione e prevenzione nei giovani, motori della futura società. Nel mio percorso di tirocinio ci sono stati 3 incontri che hanno visto coinvolti gli studenti del liceo artistico di Brera – Milano e, in uno di essi ha partecipato anche il regista del film scelto. Ritengo che per i ragazzi coinvolti possa essere un progetto molto interessante anche perché si fonda su due strumenti (il cinema e la tecnologia) entrambi a loro molto congeniali e ne evidenzia le possibilità di utilizzo e crescita.

Il secondo incontro settimanale fisso riguarda invece un progetto nuovo intitolato ‘Genitorialità responsabile’. Quest’ultimo si basa sul fatto che spesso il rapporto tra figli e genitori detenuti incontra molte difficoltà, in primis date le limitazioni spazio-temporali legate all’ambiente carcerario e strutturazione dei colloqui con i figli e, in secondo luogo, perché capita spesso che i figli di detenuti sviluppino un senso di odio e rancore verso le autorità penitenziarie, e non, e le istituzioni. È un progetto volto a sfruttare la condivisione di proposte ed esperienze personali al fine di trovare metodi per creare una migliore possibilità di rapporto genitoriale nelle carceri e per prevenire l’eventuale devianza dei figli di detenuti.

C’è infine l’incontro del giovedì pomeriggio dove vengono alternati due progetti: il Mito di Sisifo e la Palestra della creatività. Quest’ultima si pone come obbiettivo quello di confrontarsi su varie tematiche e dinamiche organizzative di gruppo per poter ideare nuovi progetti o eventualmente migliorarne di già avviati. Il Mito di Sisifo è invece una rappresentazione teatrale del Gruppo della Trasgressione. Nasce dall’idea che il mito greco di riferimento possa essere una buona rappresentazione del percorso di un adolescente, che commette prima atti delinquenziali e che poi intraprende un percorso che lo metterà di fronte alla propria coscienza e gli permetterà di ritornare un uomo nuovo e utile alla società.

Il mito permette di affrontare molteplici tematiche care al gruppo quali: l’arroganza dell’uomo, il conflitto con le figure autoritarie e genitoriali, la necessità dei genitori di essere figure credibili agli occhi dei figli, la seduzione e tentazione del male, il bisogno degli adolescenti di credere in un progetto futuro, eccetera. Il tutto si svolge attraverso la recitazione improvvisata dei vari membri del gruppo che, dopo aver conosciuto la narrazione del mito e compreso i concetti principali che devono trapelare all’interno del recitato, si immedesimano in un personaggio ed improvvisano dei dialoghi. Il fatto stesso di recitare una parte permette all’attore del momento e agli ascoltatori di comprendere e riflettere sulle tematiche prima evidenziate.


Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Il coordinatore del Gruppo è il dottor Angelo Aparo che è la figura principale di riferimento per ciascun membro del gruppo. È per i detenuti colui che gli tende la mano e offre la possibilità di mettersi allo specchio e riflettere su sé stessi, ma anche mettersi di fronte agli altri e affrontare il proprio passato. Per gli studenti e tirocinanti è colui che coordina gli interventi all’interno degli incontri, che ci spinge alla partecipazione attiva e che nei suoi interventi condivide le sue conoscenze ed esperienze sulla psiche umana. In generale, il dottor Aparo è il collante del gruppo senza cui non sarebbero mai stati possibili tutti i progetti e interventi sociali avviati.

La modalità di verifica delle attività svolte si basa per lo più sulla partecipazione del tirocinante all’interno degli incontri del gruppo e sulla stesura dei verbali degli incontri che vengono condivisi in una cartella drive e controllati dal coordinatore.


Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Tra le conoscenze acquisite all’interno di questo percorso di stage vi sono in primis quelle relative al contesto fisico carcerario e le dinamiche psicologiche e sociali che avvengono al suo interno. Su questo tema, all’interno del Gruppo, ne discorrono per lo più i detenuti/ex-detenuti portando al centro della discussione le proprie esperienze personali. Interventi di questa tipologia inoltre vengono spesso stimolati e intavolati dalle curiosità dei tirocinanti. A me in primis è capitato più di una volta di chiedere quali dinamiche si istaurassero nei rapporti tra i detenuti dopo che uno di essi entrava a far parte di una realtà come il Gruppo della Trasgressione.

Il dottor Aparo stesso è stata un’immensa fonte di conoscenza perché in ogni suo intervento inserisce nozioni e concetti psicologici su varie tematiche. Anche nella stesura dei verbali mi sono spesso resa conto che la trascrizione dei suoi interventi risultava un passo fondamentale. Ha la grande abilità di saper mettere la propria esperienza e conoscenza al servizio degli altri o, per meglio dire, al servizio di chi vuole e agisce per usufruirne.

Oltre a tutte le conoscenze generali e professionali strettamente legate al lavoro dello psicologo nelle carceri e nel sociale, ritengo di aver appreso anche moltissime conoscenze sulle dinamiche di gruppo, l’organizzazione che un gruppo può e dovrebbe avere, l’eventuale struttura gerarchica, il rispetto che ci deve essere all’interno di un gruppo e anche la forza della condivisione e collaborazione per un progetto comune.


Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)

La principale abilità che ritengo di aver acquisito, non ancora del tutto, da questo percorso è quella di saper interloquire con gli altri e mettersi in gioco portando al centro dell’attenzione e della discussione sé stesso con le proprie opinioni, esperienze, proposte. Come già detto, il Gruppo sprona alla partecipazione e, se questa occasione viene colta, ciò permette al tirocinante di imparare a mettersi in discussione e magari acquisire anche maggiore sicurezza in sé stesso. Si impara in primis a parlare in pubblico con persone che non ti conoscono e che tu non conosci, fattore non scontato, e a condividere con loro in modo chiaro i propri vissuti e credenze personali.

Altro pacchetto di abilità che mi sento di aver acquisito grazie a questa esperienza riguarda tutto ciò che ha a che fare con le dinamiche e la vita di un gruppo. I gruppi richiedono dei modi di confrontarsi e relazionarsi con gli altri e di rispettare le persone che ne fanno parte e i ruoli che ricoprono. Saper lavorare in gruppo è un’abilità molto importante sia in ambito professionale che di vita sociale in generale. Altra abilità fondamentale nel lavoro di gruppo e negli incontri con il Gruppo è stata la capacità di ascolto attivo.

Non mi sento però di aver acquisito abilità complete in quanto c’è sempre da migliorare e da poter imparare ed è anche per questo che ho deciso di rimanere all’interno del Gruppo anche una volta terminato il mio percorso di tirocinio.


Caratteristiche personali sviluppate

Il Gruppo della Trasgressione ha la capacità di metterti di fronte a te stesso; grazie al Gruppo impari a conoscerti con le tue debolezze, fragilità e punti di forza e impari a conoscerti anche in relazione agli altri. Non sei da solo, sei circondato da persone che ti accolgono e si rendono disponibili a prenderti per mano e accompagnarti in una tua crescita professionale e umana. Soprattutto per i giovani penso che il gruppo abbia una potenzialità enorme sotto questo aspetto.

Penso di aver imparato una cosa molto importante dal Gruppo: non c’è bisogno di fare tutto da soli e non è sbagliato chiedere aiuto agli altri. Sono sempre stata molto reticente nell’affidarmi al prossimo in quanto spesso i risultati ottenuti sono stati il fatto che mi venissero rinfacciate determinate situazioni piuttosto che il rifiuto aperto. Ho però capito che il problema non risiede nell’affidarsi al prossimo e credere in lui ma piuttosto nello scegliere adeguatamente la persona/persone e ciò per cui chiedere aiuto. Il Gruppo è un’entità completa che si rende disponibile ad accogliere le richieste di aiuto dei suoi membri, anche le richieste non esplicite o che magari la persona in questione non sa nemmeno di avere. Ma il Gruppo c’è, sempre e incondizionatamente.


Altre eventuali considerazioni personali

Il Gruppo della Trasgressione è possibilità. Possibilità di crescita, cambiamento e maturazione. Non solo per i detenuti/ex-detenuti ma per chiunque ne entri a far parte.

La cosa più bella è che spesso gli studenti e tirocinanti iniziano questo percorso con l’idea di dover aiutare gli altri, del resto il progetto lavorativo legato alla psicologia si fonda spesso sul lavoro per il prossimo. Questo Gruppo però ti mostra come spesso sono gli altri ad aiutare te, anche quando questo aiuto non lo stai cercando.

Per concludere è stata un’esperienza molto bella e stimolante che mi sento di consigliare caldamente a chiunque stia cercando un percorso di tirocinio.

 

La finestra rotta di San Vittore

Carla Chiappini intervista Angelo Aparo

Aparo: sono nato a Ragusa nel ’51, la mia famiglia è piuttosto piccola, quand’ero bambino i pochi parenti di mio padre erano negli Stati Uniti; mia madre, invece, aveva genitori e sorelle che sono stati per me un allargamento della mia famiglia. Sono stato il primo figlio di tre sorelle e, fra l’altro, maschio in una famiglia dove abbondavano le femmine. Quando venivano le feste, Natale, Capodanno, i morti (A Ragusa i giocattoli li portano i morti e non Babbo Natale), avevo tutto l’affetto che un bambino può desiderare; insomma ho vissuto nel lusso.

Domanda: sei stato in Sicilia fino a quando? Hai studiato anche in Sicilia?

Aparo: Ho studiato in Sicilia fino al liceo, dove ho perso un anno. Dopo il diploma sono andato in Germania a studiare, ma, tra l’anno perso e il tempo speso in Germania per gli esami di lingua, non ho fatto in tempo a chiedere il rinvio per il militare, che ho dovuto iniziare quindi quando avevo ancora 20 anni. L’ho fatto a Roma dove ho frequentato anche l’università. Dopo la laurea, a 26 anni, sono venuto a Milano, dove vivo ancora oggi.

Domanda: hai cominciato la tua professione subito in carcere?

Aparo: il carcere è arrivato dopo due anni che vivevo a Milano. Conclusa l’università, nel 1977, mi sono dato da fare per lavorare e, tra le tante cose, ho anche avanzato la richiesta per lavorare in carcere. Inserito nell’elenco degli esperti ex art. 80, ho cominciato a fare lo psicologo a San Vittore nel ‘79. Prima, per guadagnare qualcosa, avevo fatto ricerche di mercato e supplenze nelle scuole medie.

Domanda: cosa hai trovato in carcere? Cosa ti è piaciuto e cosa no di quell’inizio del ’79?

Aparo: Per i primi due anni ho fatto delle ore anche nel carcere di Varese, poi solo a San Vittore. Non è che amassi particolarmente lavorare con i detenuti, ma, visto che ero là, ci parlavo e giorno dopo giorno mi sembrava di capirci qualcosa. Degli inizi ricordo qualche conflitto con un direttore, il dott. Cangemi. C’erano i vetri della finestra rotti nella stanza dove incontravo i detenuti e dove stavo 4 ore seduto con 13 gradi a congelare, ma lui diceva che bastava mettere la maglia di lana. Per fortuna c’era una vice direttrice della quale sono stato e sono molto amico, Giovanna Fratantonio; forse è anche responsabilità sua se ho continuato a lavorare in carcere. Negli anni ho sfiorato tanti direttori con cui avevo scarsi rapporti fino a quando è arrivato Luigi Pagano con il quale sono riuscito a comunicare meglio. Tra l’altro, il Gruppo della trasgressione è nato quando c’era lui; non fosse stato così, credo che non sarebbe mai partito.

Domanda: in teoria, sei quello che da più tempo frequenta San Vittore quindi è importante per me capire che cosa è cambiato in questi lunghi anni. Cosa ricordi dei primi anni e come è cambiato il tuo lavoro in questi anni in carcere?

Aparo: credo che il carcere sia un mondo in cui il direttore incide pesantemente su tutto; non è come un treno che, se deve fare la tratta Milano-Roma, la fa abbastanza indipendentemente dalle idee politiche del capotreno. Detto questo, c’è stato un tempo in cui qualche volta uscivo dall’ufficio e vedevo per terra un laghetto di sangue; era l’epoca in cui i conflitti fra detenuti venivano “risolti” a coltellate, ancor di più i contrasti tra detenuti comuni e detenuti per reati sessuali. I miei primi anni a San Vittore sono stati anche caratterizzati dalla presenza delle BR. Le BR non ammazzavano in carcere le persone, ma contribuivano a mantenere un clima vivace… una volta alcuni di loro mi hanno pure mezzo sequestrato per un paio ore. Poi mi hanno lasciato andare perché abbiamo concordato pacificamente che la cosa avrebbe comportato danni per tutti. 

Per quello che avveniva a quei tempi, nei miei primi 18 anni ho svolto il mio ruolo più o meno normalmente, cioè facevo con i detenuti dei colloqui in previsione di una relazione finalizzata al programma di trattamento; questo faceva lo psicologo ex art. 80! Oggi ci sono molti più psicologi e con i detenuti si può avere un rapporto meno frettoloso. Negli anni ho visto passare generazioni di psicologi e affini. Dico “affini” perché gli “esperti ex art. 80” potevano essere criminologi, psicologi e sociologi. Ma in pratica questi “esperti”, pur con professionalità nominalmente diverse, facevano la stessa cosa, o meglio, facevano quello che passava loro per la testa, senza alcuna indicazione su come procedere. 

Una cosa che da subito mi ha molto colpito in carcere è che non c’è mai stato qualcuno che indicasse cosa ci si aspetta da uno psicologo. Si dovevano produrre le relazioni, ma non si è mai discusso né sono mai stati indicati i criteri per scriverle. Non credo che adesso sia molto diverso. In 41 anni di esperienza non ho mai sentito di un gruppo di studio dove ci si chiedesse come procedere nel colloquio con i detenuti e poi nella stesura della relazione. Dopo i primi 18 anni di lavoro, mi sono detto che, per cominciare a capire cosa passava per la testa dei detenuti, sarebbe stato il caso di provare qualcosa di alternativo e da lì è nato il Gruppo della Trasgressione.

Domanda: A un certo punto tu hai cominciato a pensare al gruppo ma anche alla società esterna che entrava in carcere

Aparo: quello che nei primi 18 anni di esperienza avevo sentito dire ai detenuti mi suggeriva che loro sapessero e si chiedessero ben poco in merito alla vita delle persone che lavorano, tabaccai e cassieri compresi. E dunque, sì, fra i primi obiettivi del gruppo c’era e c’è quello di favorire un confronto costante e battagliero fra detenuti e comuni cittadini. In questo sono stato avvantaggiato dal fatto che nel gruppo c’era Sergio Cusani, che era un polo di attrazione un po’ per tutti, dentro e fuori. 

Il gruppo era appena nato e già arrivavano persone di ogni genere, cantanti del calibro di Ornella Vanoni, Enzo Jannacci, Roberto Vecchioni; presentatori televisivi come Fabio Fazio o Chiambretti; giornalisti come Enzo Biagi, filosofi come Gianni Vattimo e Massimo Cacciari, genetisti come Edoardo Boncinelli, teologi, medici, antropologi e tanti nomi importanti di diversi settori. Diverse volte era venuto anche un virologo di cui ero amico. Ognuno di loro parlava della propria materia e cercava insieme con me e con i detenuti quali collegamenti si potessero cogliere, quali analogie si potessero far fruttare, in termini di conoscenza o anche solo di pura suggestione, fra alcuni aspetti delle rispettive materie e la spinta dell’uomo a trasgredire. 

Di certo queste persone non venivano per me; a portarli dentro erano Sergio Cusani ed Emilia Patruno, giornalista di Famiglia Cristiana. Con loro due e con un avvocato, a sua volta detenuto e molto motivato, il gruppo è partito a tutta velocità. Sergio Cusani e l’avv. Spada hanno avuto un ruolo fondamentale nel motivare gli altri detenuti a impegnarsi in modo sistematico. Ogni settimana loro due scrivevano il verbale delle riunioni e ogni settimana, grazie anche a Emilia Patruno, arrivavano al gruppo nuovi stimoli importanti, spesso anche parenti di vittime: Paolucci, il padre di un bambino ucciso da un pedofilo; la Bartocci, moglie di un gioielliere assassinato; la Capalbio, sorella di un tabaccaio ucciso durante una rapina.

Domanda: Il carcere non ti ha mai dato obbiettivi perché non li dà mai a nessuno, però tu quando hai pensato al gruppo avevi sicuramente un obbiettivo o più obbiettivi, in particolare cosa volevi da quel gruppo in cui hai investito e investi un sacco di energie e competenze?

Aparo: accanto all’obiettivo di favorire il confronto col mondo esterno, direi che il gruppo è nato perché non volevo che i detenuti parlassero con me solo in funzione della relazione da inviare al magistrato. Uno che fa lo psicoterapeuta è abituato a parlare con persone che ti confidano i loro pensieri, le loro paure perché hanno bisogno di essere aiutate, non perché hanno bisogno di uscire dal carcere. Fare psicoterapia significa aiutare le persone a dialogare con i propri conflitti e questo all’epoca in cui a San Vittore c’era uno psicologo per oltre 1000 detenuti era certamente impossibile. Per il detenuto, anche in considerazione del poco tempo che c’era per parlarsi, risultava molto più facile raccontare o inventare quello che nella sua fantasia avrebbe dovuto indurre lo psicologo esaminatore a scrivere una relazione favorevole alla misura alternativa.

Mi si potrà osservare che uno psicologo bravo dovrebbe essere capace di andare oltre quello che il paziente gli dice. Sarà pure, rispondo io, ma, fin quando il detenuto è essenzialmente una persona che vuole uscire dal carcere, egli non potrà essere un paziente e lo psicologo non potrà essere uno psicoterapeuta, cioè il partner di una ricerca condotta in due. In pratica, sto dicendo che dovresti riuscire a motivare il detenuto, almeno nel tempo del colloquio, a comportarsi da paziente, nonostante le serrature che egli vede attorno a sé lo inducano a guardare il mondo da carcerato. Ma questo è molto difficile se l’unica ragione per cui detenuto e psicologo entrano in contatto è costituita dalla relazione per il magistrato e se a commissionare la relazione è la direzione del carcere.

Proprio per questo, un certo giorno del settembre del ’97, dopo avere raccolto con l’aiuto di Sergio Cusani una ventina di detenuti attorno a un tavolo, il gruppo è nato con un discorso esplicito e abbastanza rude, che suonava più o meno così: <<cari signori, da 18 anni ho colloqui con detenuti di questo carcere, ma vi sento dire cose superficiali, quando non vere e proprie fesserie, e questo perché sapete che devo fare la relazione su di voi. Capisco che ognuno cerca di uscire dal carcere il prima possibile, ma in questo modo non mi diverto io e non ci guadagnate niente voi. Se volete, possiamo fare un gruppo di discussione che ha come scopo quello di entrare nelle vostre storie, di tornare ai tempi delle vostre prime trasgressioni e di provare a capire voi, ancora prima di me, com’è possibile che, pur essendo partiti voi tutti con l’idea di diventare qualcuno e, all’occorrenza, commettere reati per migliorare la vostra condizione, oggi voi siete qua in galera e i vostri figli sono mezzo orfani>> 

In generale, l’attività del gruppo era anche un modo per far sì che il tempo del carcere non fosse solo il “tempo dell’attesa”. I 18 anni precedenti alla nascita del gruppo mi avevano fatto capire, infatti, che per i detenuti il tempo passato in carcere veniva conteggiato principalmente in relazione alla distanza dal fine pena. Di quegli anni a San Vittore ricordo ben poche iniziative, una era quella della Patruno, Il giornale “Il Due”; ricordo anche l’associazione di “Incontro e presenza”. 

Ma tornando al gruppo, i primi due obiettivi erano: fare in modo che i detenuti si interessassero a loro stessi e alimentare una comunicazione tra dentro e fuori. Poi c’era anche il terzo obbiettivo, quello di fare in modo che i detenuti, conoscendo meglio se stessi, potessero contribuire a migliorare il funzionamento dell’istituzione. Un obbiettivo ambizioso, forse velleitario, un po’ da don Chisciotte. D’altra parte, come potevo sopportare che sia i detenuti sia le figure istituzionali continuassero a ripetere che dal carcere si esce più delinquenti di quando si è entrati? 

E così, paradossalmente, un po’ per conoscere se stessi, un po’ per cambiare il carcere, una ventina di detenuti di San Vittore si sono messi a indagare sul perché delle loro prime trasgressioni e sono diventati miei alleati e partner di ricerca molto di più delle figure istituzionali. Alcuni di quei detenuti sono ancora oggi miei amici. L’istituzione, visto che non facevo male a nessuno, me lo ha lasciato fare, pur senza mai interessarsi, almeno per i primi 10/12 anni a quello che facevo. Negli ultimi cinque o sei anni qualche piccolo sostegno è arrivato con Siciliano, fino a tre anni fa direttore del carcere di Opera, e oggi con Di Gregorio, attuale direttore di Opera. Nel carcere di Bollate, l’attività del gruppo è finanziata dall’ASST Santi Paolo e Carlo, di cui sono consulente da una decina d’anni.

Domanda: chiunque stando in carcere peggiora, questo vale anche per gli operatori, i direttori. Io spesso mi pongo questa domanda, com’erano prima questi soggetti, prima di fare 10/20 anni dentro il carcere?

Aparo: quello del direttore è un mestiere che rischia, anche per le persone equilibrate, di far diventare chiunque una specie di Napoleone che si bea del suo potere, intanto che deve difendersi da attacchi che arrivano da tutte le parti. Ma è anche vero che di questi tempi esistono direttori che si appassionano al loro lavoro, che si adoperano per far si che il tempo del carcere sia di costruzione della propria libertà e non di attesa del fine pena. Anno dopo anno, almeno nelle carceri che frequento io, questo avviene sempre di più. 

Fino a una ventina d’anni fa, invece, il carcere era in prima istanza controllo, doveva innanzitutto evitare che i detenuti scappassero, si suicidassero, si ammazzassero fra di loro, introducessero all’interno oggetti illeciti, ecc. Insomma, per garantire che non succedesse nulla di male, molti direttori preferivano (e non escludo che in molte parti d’Italia sia ancora così) chiudere quante più porte possibile, pur se, in questo modo, ad essere garantita era soprattutto la morte della mente, la morte emotiva e quindi anche la morte del cittadino, dell’uomo. E’ chiaro che il carcere non può eliminare del tutto il controllo, ma si dovrebbe considerare che se tu affidi il compito di controllare a una persona dall’equilibrio un po’ precario, il controllo diventa una smania, una malattia autorizzata, che esaspera i rapporti e che fa impazzire sia l’agente che controlla sia i detenuti controllati. 

Insomma, il carcere è stato soprattutto un mondo che induceva operatori e detenuti più a difendersi che a progettare. Oggi si sta cominciando a capire, quantomeno da parte dei direttori che conosco io, che la migliore e più duratura garanzia viene da una progettualità di cui i detenuti stessi siano interpreti e, possibilmente, registi. E io conosco, effettivamente, molti detenuti che sono diventati in carcere registi di attività e delle loro vite, contribuendo in tal modo anche alla stabilità e all’evoluzione di altri detenuti.

Domanda: che cosa salvi del carcere e qual è il ricordo più positivo che hai in questi anni?

Aparo: del carcere salverei il fatto che dà un confine alle persone che non sanno fare della propria libertà un uso compatibile con quella degli altri, ma trovo indispensabile che, all’interno di questo confine, ci siano dei programmi studiati, organizzati e praticati assiduamente per condurre i ristretti a vivere entro confini più ampi e non imposti dall’esterno. È indispensabile che dopo una necessaria riduzione della libertà di azione, il carcere e le istituzioni ad esso collegate trovino il modo, e facciano assidui studi in tal senso, per motivare il detenuto a interpretare la propria libertà in modo più compatibile con quanto ci viene indicato dalla costituzione, dal buon senso e dalle ferite ricevute da chi aveva avuto in passato la disgrazia di incontrarlo. 

Come si fa, dopo essere diventati delinquenti, a diventare cittadini? Dove sono gli studi che si occupano di questo? Forse si confida nell’idea che la persona che sta in galera, una volta condannata, possa cominciare a interrogarsi su se stessa e da sola trovare la risposta, ancora meglio se posta in isolamento! Ma se uno è ignorante come una capra e per giunta abituato a comportarsi come un bisonte, da dove dovrebbe arrivargli la scintilla? 

In altre parole, apprezzo che il carcere riduca la possibilità di scorrazzare nella prateria del delirio d’onnipotenza, ma rilevo una sua colpevole miopia quando constato che l’istituzione si comporta come se dal delirio di onnipotenza, dalla coscienza polverizzata di chi uccide il tabaccaio, si potesse guarire semplicemente stando in cella ad attendere una luce divina che si fa strada fra le sbarre. Tutto l’apparato istituzionale che si occupa del reo (dall’arresto, al giudizio in tribunale, alla restrizione in carcere) sembra partire dal presupposto che chi pratica abitualmente il reato sia completamente consapevole, responsabile e intenzionato nel fare quello che fa e confida nel fatto che il delinquente, parlando con se stesso e con quelli che stanno in cella con lui, possa trovare dentro di sé tutte le risorse per cambiare sensibilità, idee, valori, intenzioni e comportamenti. 

Magari nessuno lo pensa in modo sistematico, ma nel loro complesso, sembra che le istituzioni che si occupano di devianza facciano riferimento a un adolescente che comincia a drogarsi, a odiare le divise, ad abusare del proprio potere, dopo aver deciso a tavolino che queste debbano essere le sue aspirazioni primarie nella vita. 

E si trascura che la pratica dell’abuso è il risultato di un complesso di fattori, fra i quali, uno dei principali è costituito da una sensazione fisica, umorale, che galleggia fra le palafitte del cervello dell’adolescente:  cioè la sensazione che chi incarna il potere (il padre, chi indossa la divisa, la toga o chi viaggia in macchina blu) non sia degno del suo ruolo e, pertanto, che non esistono impegni verso se stessi, tanto meno verso gli altri, da onorare. Qualcuno, per completare il quadro, si convince che gli unici impegni che vale la pena osservare sono l’omertà e il mantenimento della contrapposizione paranoica con tutto quello che somiglia a una divisa. 

Per quello che a me pare di aver capito, a far diventare delinquenti sono le sensazioni di un adolescente ferito, sfiduciato, arrabbiato e rancoroso, che poi, strada facendo, diventano idee deliranti, capaci di orientare l’azione di adulti che hanno perso la libertà di sentire, pensare e decidere, già a causa del loro rancore e della conseguente smania di vivere nell’eccitazione del potere e della droga.

In Italia abbiamo più di 200 carceri e ho ragione di credere che nella grande maggioranza di questi le problematiche di cui ho appena detto siano del tutto ignorate. E se questo è vero, capisco che tante persone, anche dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, finiscano per dire che il carcere non serve a nulla.

Da parte mia, credo che il carcere vada cambiato radicalmente, ma in qualche modo un sistema che impone confini a chi delinque in preda al proprio delirio ci deve essere. E il delirio, lo ribadisco, non è solo quello del boss mafioso; il delirio parte dagli umori dell’adolescenza che, strada facendo, si incancreniscono nello scontro con una realtà istituzionale che non sa motivare a cambiare rotta e che, anzi, contribuisce a rafforzare il delirio e a ossificarlo. 

E allora quali ricordi buoni ho del carcere, visto che sono così critico? Il fatto che lo vedo cambiare! Collaboro con reciproca stima con un numero crescente di direttori, agenti e magistrati e mi sembra di condividere con loro idee e principi. Ma le cose cambiano troppo lentamente e inoltre è sempre troppo difficile individuare chi ha, in definitiva, la facoltà di decidere e attuare il cambiamento che tutti sembrano auspicare.

Nel mio piccolo, ho comunque dei bei ricordi e, ancor più che bei ricordi, ho i risultati che continuo a coltivare ancora oggi in collaborazione proprio con i detenuti che ho conosciuto in questi anni. Hanno nome e cognome e sono tanti; si chiamano Romeo Martel, Luigi Petrilli, Maurizio Piseddu, Roberto Cannavò… e in questo periodo in cui il Covid 19 ci costringe a usare le piattaforme on line per comunicare, ho visto e ho ripreso a lavorare e a giocare con numerosi ex studenti del gruppo e, cosa ancora più gratificante, con questi ex detenuti, oggi nuovi cittadini, che sono passati dal Gruppo della Trasgressione nei suoi 23 anni di attività. 

Oggi sono questi nuovi cittadini a motivare e a fare appassionare gli studenti universitari attualmente in tirocinio con la nostra associazione: da una parte, si studiano insieme le problematiche, il divenire, la complessità degli intrecci che inducono l’adolescente a scivolare nel degrado; dall’altra, progettiamo iniziative capaci di sostenere il detenuto e l’adolescente a rischio di devianza nel suo cammino, nell’impegno e nella collaborazione con gli altri. Sì, la mia maggiore soddisfazione è quella di constatare che persone che hanno fatto parte del gruppo in carcere 8, 15 o 20 anni fa, oggi, pur avendo una famiglia e un lavoro e senza chiedermi soldi, collaborano con chi è ancora detenuto, con alcuni familiari di chi è morto per mano della criminalità e con gli studenti in tirocinio per trovare le parole e i mezzi per prevenire e contrastare il degrado soggettivo e ambientale che porta ad annichilire la propria coscienza e alla cosificazione dell’altro.

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Il male complesso e banale

Un incontro aperto per allargare i confini dell’indagine
che il Gruppo della Trasgressione conduce da anni su

La banalità e la complessità del male

Una intervista registrata di Tiziana Elli e di Edoardo Conti a Roberto Cannavò e ad Adriano Sannino e il dibattito che ne è seguito con loro giovedì 17 dicembre 2020 sulla pagina  Facebook del Gruppo della Trasgressione per

  • esplorare come si sprofonda nella palude del male e con quali mezzi se ne può uscire;
  • comunicare gli obiettivi e le responsabilità del nostro gruppo nella società;
  • conoscere la complementarità fra i diversi componenti del Gruppo della Trasgressione (autori e vittime di reato, studenti e detenuti, cittadini e istituzioni);
  • coltivare le risorse e le alleanze utili per onorare quanto indicato dalla costituzione;
  • investire sulla impegnativa costruzione di nuovi equilibri con nuovi cittadini più che su una lunga e improduttiva segregazione di chi ha offeso in passato il bene comune.

Disamistade (Fabrizio De André), La Trsg.band a Peschiera Borromeo, Novembre 2018

Collegamenti e Approfondimenti possibili:

 

Un ponte verso la città

Marina Varisco

Le interviste del Gruppo della Trasgressione