Categoria: Gruppo Trsg
I palazzi e il mio castello
L’arroganza è un tema che in questo ultimo periodo si sta trattando al gruppo e che mi porta a fare una ricerca su di me e i miei trascorsi. Io per primo penso di aver esagerato, anche perché un tempo non davo alla parola lo stesso significato che le do oggi. Infatti l’attribuivo a un personaggio arrogante, scorbutico, maleducato e fastidioso, senza accorgermi che nella descrizione rientravo anche io.
Quando ero giovane, a fine anni 80, mentre nell’hinterland milanese crescevano i palazzi, a Corsico-Buccinasco arrivavano famiglie nuove. Noi ragazzi di strada -dico così perché purtroppo io l’educazione l’ho appresa lì- facevamo capire a tutti che eravamo noi a comandare, con le buone o con le cattive maniere.
Quando ero piccolo mi domandavo perché gli altri avevano le cose e io no. Qualsiasi cosa, materiale o no, quando la volevo, dovevo averla punto e basta. Ditemi se non era questa arroganza! Durante l’adolescenza mi sentivo maturo e forte, in un modo sbagliato dico oggi, tanto che andavo in giro con persone molto più grandi di me. A 15 anni già avevo un’auto mia e, facendo il furbo, mi vestivo con gli abiti di mio padre per apparire più grande ed evitare i posti di blocco.
Gli anni passavano e la mia arroganza cresceva: avevo acquistato “rispetto” dagli altri, mi sentivo superiore e potente su tutti e questo era ciò che volevo. Oggi la vedo con altri occhiali, un tempo era pura ignoranza: parete dopo parete, mi ero costruito un castello, non sapendo che stavo tirando su la stanza dove sto chiuso da 20 anni.
Viste le mie esperienze negative passate e la consapevolezza di adesso, oggi cerco di non trascurare più nulla, apro le orecchie e ascolto gli altri e soprattutto me stesso, ho un nuovo modo di vedere la realtà e cerco di usare gli strumenti che un tempo avevo lasciato sotto la polvere.
Ho deciso di scrivere del mio passato perché penso che molte fasi della mia vita rispecchiano i temi che trattiamo al gruppo, qui in carcere e agli. incontri con i ragazzi delle scuole. Ad ogni modo, sono convinto che un briciolo di arroganza noi tutti l’abbiamo, ma sta a noi come utilizzarla. Ad esempio il proprietario di una ditta potrebbe usare la sua arroganza e il suo potere con i suoi dipendenti: ognuno ha il suo tasto o bottone di arroganza, se vuole lo preme, altrimenti no; anche qua in carcere può succedere e qui mi fermo.
Potrei andare avanti con tanti altri paragoni, però quello che mi dà fastidio è vedere tanti ragazzi insoddisfatti della vita, rovinarsi per niente, molti dei quali inconsapevoli di quello cui vanno incontro, proprio come la maggior parte di noi qua.
Tornando a parlare di me e della mia vita, anche io ho cominciato con il bullismo, cosa comune tra i ragazzi di oggi. Dopo un po’ il bullismo non basta più perché diventa la normalità e allora si passa a combinare cose più grandi che non ci si rende conto. E secondo te, uno da giovane si ferma a pensare? Macché!
Ogni giorno ne fai una più grossa. Ma oggi questo posso paragonarlo a un castello fatto di sabbia che con una semplice onda viene spazzato via, e così arrivi qua dove sto io, messo di fronte alle scelte sbagliate che sono state prese nella vita.
Se scrivi “carcere” e sposti due vocali, la parola diventa “cercare”, ed è proprio questo che sto facendo da qualche anno a questa parte, anche con l’aiuto del gruppo: cerco cosa mi ha spinto dentro questa cruda realtà che vivo ogni giorno. Oggi me ne rendo conto: un’adolescenza molto burrascosa, senza dare valore a quello che avevo davanti, tutto era normalità, dove sono cresciuto era così, l’arroganza regnava, la strada era quella, ho preso il vicolo sbagliato e si vede, e purtroppo tutt’oggi è ancora così per altri ragazzi.
Posso provare rammarico per il passato ma non per il mio presente. Se penso ai valori che ho acquisito durante questi anni, mi riprometto di non provocare dolore a chi mi è vicino, compresi voi membri del gruppo.
Ciao a tutti,
Nunzio Galeotta
Come credere in chi è morto?
Di fronte a quanto accaduto al Beccaria inorridisco ma non provo stupore.
Dio è morto. L’hanno cantato i Nomadi, ma Friedrich Nietzsche li aveva preceduti di oltre un secolo. La religione non rappresenta più un centro di irradiazione di principi e comportamenti socialmente condivisi. Ognuno sembra essere Dio di se stesso, capace di decidere che cosa è giusto e che cosa sbagliato e agire di conseguenza.
Il padre è morto. L’autorità in famiglia, a scuola, nello Stato non riesce più a stabilire criteri condivisi di comportamento e tanto meno a farli rispettare. Sempre più spesso chi ha un potere non lo esercita in maniera illuminata ed equanime.
Il risultato è che i deboli (socialmente o moralmente), gli infelici (per sorte o per colpa), gli ultimi (per provenienza o per responsabilità propria) si sentono autorizzati a comportamenti abusanti. L’autorità poco degnamente esercitata e volta all’abuso genera comportamenti abusanti ad ogni livello.
Come ridare credibilità a un’autorità ormai svilita?
È una domanda che tutti, ad ogni livello, dovrebbero porsi, autorità comprese. Credo che la risposta sia molto difficile, ma sono convinta possa essere trovata a condizione che l’affermazione di partenza sia condivisa e che la sua costruzione sia frutto di una collaborazione di intenti da parte di uomini capaci e di buona volontà.
Nuccia Pessina
Il gelato dell’arroganza
Buongiorno, sono Ignazio. Al gruppo della Trasgressione è un periodo che ci si confronta sui nostri ricordi e sugli inizi della nostra arroganza. Io penso che l’arroganza è nella mente di tutti noi. Ma cosa è l’arroganza? E’ un vanto di sé stessi e disprezzo degli altri.
Sono nato in un paesino della Sicilia e, quando ero giovane, ricordo che per chiedere un gelato usavo quel modo arrogante e chi era dall’altra parte si indeboliva.
Ricordo che il paese era diviso da due categorie di ragazzi ma anche di famiglie. Il modo di fare e la parlata arrogante nutriva il nostro esistere, a differenza di quei ragazzi, figli di genitori acculturati professori, notai ecc., insomma la gente di Piazza che avevano belle case e vicino al comune al centro del paese.
Invece io e i miei compagni vivevamo in un quartiere fuori paese, dove vedevi solo campagna, senza lampioni e senza numero civico, tra i contadini e pastori. Quei ragazzi non sapevano che esisteva il nostro quartiere. Erano obbligati dai loro genitori a fare certe vie e a non frequentarci. A scuola venivano con belle scarpe e bei vestiti, anche con il motorino e con quell’aria che esistevano solo loro.
Anche questa differenza accresceva la nostra arroganza, la coltivava, il non avere fa ingelosire e così si comincia a rubare, a spacciare e a fare omicidi. Questo è il mondo dove la maggior parte dei giovani cresce con la presunzione di poter fare quello che vuole, senza pensare agli altri.
Anche per questo motivo sono stato allontanato dalle braccia di mia madre. Avevo 14 anni, mio fratello maggiore mi portò via, per andare in Lombardia per costruire un futuro. All’inizio non volevo stare a Milano, non c’era più la campagna, quel bel sole, mi mancava l’affetto di mia mamma, i miei amici veri, non ero più libero, stavo chiuso alla sera, non uscivo, avevo vergogna di parlare, paura che mi perdevo, non sapevo bene l’italiano, non avevo amici, uscivo solo con mio fratello per andare in giro col camion a comprare del ferro, quando c’era il padrone, oppure giravamo per rubarlo.
Questo tira e molla di lavoro mi ha fatto conoscere tante gente. Il mio obiettivo, l’essere siciliano e quell’arroganza mi hanno portato a fare strada. Piacevo, ero simpatico, ci sapevo fare con le macchine da vendere, che poi ho trasformato in autodemolizione, credo anche che quell’arroganza che ho usato per crescere sul lavoro mi è stata d’aiuto con i clienti e anche con gli operai per migliorare il senso del lavoro. Però dentro di me cresceva un male: volevo soldi e potere e andare sempre più in alto, non mi accorgevo che ero entrato in un’aria grigia, non vedevo più se era giusto o sbagliato fare certe cose.
Oggi col Gruppo della Trasgressione riesco a parlare, a sentire, a capire la responsabilità del male fatto a quelle persone che non conoscevo, ma di sicuro avranno sofferto per questa mia arroganza, quella di aver fatto rubare tante macchine per vendere i pezzi e ingrandire il mio potere e non pensare agli altri che soffrivano.
Il gruppo ti fa arricchire di sani valori, so che la libertà delle persone non va tolta, la consapevolezza del male fatto serve per una crescita della nostra vita, sia in carcere che fuori dalle mura. Partecipare a incontri dentro il carcere o nelle scuole è utile per noi detenuti, per gli studenti e per i nostri figli. Raccontiamo come si è sviluppata la nostra arroganza e credo che questo può essere d’aiuto a non commettere gli stessi nostri sbagli.
Ignazio Marrone
Morte dell’autorità e identità deviante
L’arroganza viene definita come un senso di superiorità nei confronti del prossimo, che si manifesta con un costante disdegno e un’irritante altezzosità. Essa si manifesta nella vita quotidiana parlando sopra gli altri, ignorando le opinioni altrui, sminuendo le capacità o i meriti degli altri.
Ma da dove nasce questa caratteristica dell’uomo e quindi di noi tutti? Il gruppo della trasgressione sostiene che l’arroganza, pur se nel tempo potrà diventare una carattreristica individuale, va considerata un tratto della relazione tra il soggetto e la sua autorità di riferimento. Essa, infatti, nasce da una relazione malata tra il soggetto e l’autorità, soprattutto nel periodo dell’adolescenza, tanto più quando il ragazzo si trova a scontrarsi con dei genitori che vive come autorità opprimenti, svilenti e negative.
Da qui l’adolescente interiorizza una figura di riferimento negativa, alla quale si abitua a contrapporsi con arroganza. L’interiorizzazione di questa figura soffocante ha come conseguenza una sfiducia verso tutte le autorità sulle quali il giovane proietta i suoi sentimenti interni e che vede come poco stimabili; questo causa di nuovo comportamenti strafottenti e risposte deludenti o addirittura violente, alimentando un circolo vizioso.
Il giovane vive quindi una situazione ambivalente: da un lato di scontro e di odio verso i propri genitori, perché vuole affermarsi, diventare indipendente, non preoccuparsi del giudizio di questa autorità così opprimente sulla sua autonomia; dall’altro, ha bisogno di una figura solida cui fare affidamento per riuscire nei suoi compiti evolutivi.
Il giovane è combattuto e non sa dove andare a parare e in chi o in cosa riporre la sua fiducia, ed è qui che diventa cruciale l’ambiente e tutto ciò che circonda la sua vita ed è qui che il gruppo della trasgressione trova un legame con il tema della delinquenza: nel gruppo dei pari si trova quella affermazione di sé, quel potere, quel riconoscimento che tanto si stavano cercando.
Chiaro è che, se si cresce in contesti degradati, scivolare verso la delinquenza è una strada in discesa: La conferma del gruppo dei pari in risposta ai primi reati, la rabbia verso i genitori che hanno perso credibilità portano il ragazzo a delinquere, facendolo sentire autorizzato a procedere nel reato e a ricavarne senso di autostima e di potere.
Il tema dell’arroganza viene trattato in diversi ambiti, come letteratura, arte e mitologia, e con alcuni esempi viene più semplice spiegare quanto discusso prima. Il primo esempio può essere il mito di Sisifo, che viene peraltro interpretato dal gruppo in teatro. Questa la sintesi: Sisifo è un giovane adolescente che si sente trascurato dalle proprie figure di riferimento, in lui cresce un senso di rabbia e arroganza che, unita alla sua grande intelligenza, lo porta ad ingannare gli dei per ottenere l’acqua che lui desiderava. Nella mitologia, questo comportamento irriverente e presuntuoso può essere interpretato come una sfida alla volontà divina o come un tentativo di superare i limiti imposti dagli dei, che quindi decidono di punirlo con la famosa fatica di Sisifo.
Altro esempio della mitologia, che spiega bene il tema dell’arroganza e si accosta facilmente all’interpretazione che ne dà il gruppo della trasgressione, è il personaggio di Icaro, il quale dotato delle ali di cera costruite dal padre e accecato dall’entusiasmo e dall’ambizione di volare sempre più in alto, ignora i suoi moniti e si alza sempre più vicino al sole. Di conseguenza, le ali di cera si sciolgono e Icaro precipita in mare. La sua arroganza viene intesa come la sua decisione di ignorare i consigli e gli avvertimenti di suo padre, credendo di essere invincibile e di poter superare le leggi della natura. L’ambizione e il desiderio di provare il proprio coraggio e la propria audacia lo portano alla rovina.
Sulla stessa scia dei precedenti esempi, Dante nel canto XIV dell’Inferno incontra Capaneo, un guerriero greco della mitologia, anche lui noto per la sua superbia e il suo disprezzo per gli dei, infatti è nel girone dei bestemmiatori. L’arroganza del personaggio mitologico era diretta principalmente contro Giove e la sua autorità divina. Capaneo si considerava al di sopra degli dei e si rifiutava di sottomettersi alla loro volontà, sfidandoli apertamente con le sue parole audaci “O Giove, scommetto che nemmeno tu riuscirai a fermarmi!”, così Giove lo polverizza immediatamente con un fulmine. La sua pena consiste nel giacere supino su una pianura di roccia bruciante sotto una pioggia di fuoco e, mentre è tormentato dalle fiamme, emette urla di dolore e bestemmie contro Dio. Il dannato non è ateo, anzi riconosce la presenza di Dio, ma gli si vuole opporre perché crede soltanto nel proprio valore e nel proprio coraggio, proprio come l’adolescente che si ribella alle figure genitoriali.
In conclusione, quando l’adolescente perde fiducia nelle sue figure di riferimento, in lui nasce un sentimento di rabbia e cresce l’arroganza; i genitori di fronte a questo atteggiamento di sfida tendono sempre meno il braccio della protezione e del contenimento e questo alimenta sempre più il dolore e la sfiducia dell’adolescente.
Egli, non riuscendo a governare questi sentimenti in modo corretto, reagirà al lutto dell’autorità perduta cercando una compensazione nel gruppo dei pari che, se è a sua volta caratterizzato da delusioni, rabbia e arroganza, porterà il giovane a intensificare la sua condotta delinquenziale e a cristallizzarsi nella propria identità deviante.
Benedetta Comoglio
In carcere con i minori, rabbia e apatia
Dal Corriere della sera on line del 24/04/24
Icaro e Panagulis
L’arroganza è presente in ognuno di noi, in qualche modo rende possibile affermare la nostra identità, permettendoci di vivere con gli altri. Una giusta dose è quindi necessaria alla convivenza con gli altri, è come una spinta che permette di credere in sé stessi, nelle proprie facoltà e capacità di agire in un mondo sempre più mutevole e incerto.
Ma è possibile stabilire un limite entro il quale contenere un’arroganza sana, “normale” e quindi adattativa? Quando si può parlare invece di un’arroganza non socialmente accettabile, in questo senso quindi non addomesticata?
Credo che il confine fra le due tipologie di arroganza venga oltrepassato quando un soggetto viola la libertà altrui, provocando nell’altro un malessere, sia esso psicologico o fisico. In questo caso, infatti, l’arroganza non è più motivata dal desiderio di essere riconosciuto come soggetto o di affermare le proprie istanze, ma diviene un metodo per attuare un sopruso. È adoperata per dominare l’altro, imporre le proprie idee e la propria volontà, sfruttando l’altro come un mezzo per raggiungere i propri fini e senza riconoscergli la dignità di persona.
Durante il periodo dell’adolescenza è una problematica che diventa centrale, infatti l’adolescente, in quanto essere in divenire, prova un grande bisogno di affermare la propria identità. Per far questo spesso può assumere un atteggiamento arrogante nei confronti dei genitori, degli insegnanti e dell’autorità in genere. Queste manifestazioni di arroganza possono in alcuni casi anche sfociare in atti di violenza e di aggressione qualora questa autorità venga percepita come respingente o ingiusta.
È possibile, inoltre, riconoscere nel fenomeno del bullismo, una delle manifestazioni di arroganza più comune fra i ragazzi. In questi casi, ci si nasconde dietro una maschera per celare la propria reale fragilità e insicurezza.
In questo senso vorrei far riferimento al mito di Icaro, il quale riceve le ali con penne di uccello, sigillate alla schiena con la cera da Dedalo. Il padre gli fa una raccomandazione, quella di non allontanarsi troppo da lui e di non avvicinarsi troppo al sole, per evitare che si sciolga la cera delle ali. Icaro però, affascinato dal sole, si dimentica dell’ammonizione del padre e precipita in mare. Egli ha voluto volare più in alto, pensando che niente potesse arrestarlo e questo atteggiamento diventa la causa della sua rovina. Pensava di essere più saggio di suo padre e di essere invincibile, ma così facendo porta danno a sé stesso e a coloro che lo circondano.
La sua vicenda conferma che la sensazione di potere inebria fino a illudere di essere portatori di qualità superiori e che nessuno può eguagliare.
Per sviluppare la tematica in un’altra direzione, vorrei anche esaminare il rapporto fra suddito e tiranno, dove si vede l’ambiguità dell’arroganza e la sua difficile categorizzazione. Per parlare di ciò, farò riferimento alla storia di Alexandros Panagulis, politico, rivoluzionario e poeta greco da cui è tratto il libro “Un Uomo”.
Egli nel 1968, nel periodo in cui la Grecia cadde sotto la dittatura di Papadopulos, decise di opporsi attentando alla vita del tiranno a capo del regime. Il tentativo però fallì e venne condannato a morte, successivamente ricevette un’amnistia e venne incarcerato per svariati anni. Durante questo periodo fu sottoposto a torture indicibili, negli ultimi anni addirittura gli fu assegnata una cella a forma di tomba per evitare ulteriori tentativi di fuga e per punirlo per le sue continue ribellioni. Egli, infatti, durante il periodo di carcerazione continuò a sfidare il potere costituito, servendosi del suo grande intuito e della sua capacità di infastidire coloro che lo seviziavano. Continuò a lottare per guadagnarsi la libertà, motivato ad affermarsi come individuo in una società fondata sul principio del sopruso e della sopraffazione. Per farlo si servì quindi della violenza, però ciò che lo muovevano erano gli ideali di libertà e di lotta contro un potere ingiusto.
In questa storia possiamo osservare due tipi di arroganza, quella di Aleksandros e quella dei carcerieri e del tiranno. La prima è però un’arroganza mossa da alti ideali, il suo fine ultimo era quello di liberare il popolo greco dal giogo del tiranno. Dall’altro lato abbiamo un sistema creato appositamente per dominare il popolo servendosi del potere militare praticando la violenza verso qualsiasi suddito provi a sfidarlo. Questi sudditi sono quindi agli occhi del potere uomini senza volto e senza dignità.
Possiamo quindi notare che l’arroganza è un tema complesso, che vale la pena studiare da svariate angolazioni, senza dare per scontato che essa riguardi solo chi è malato, asociale e tale da dovere essere punito senza ulteriori domande.
Gaia Mariani
Stava sul podio
Stava sul podio come
un dio onnipotente
con sguardo duro ma
non lungimirante.
Pensava al domani ma
non al futuro e niente
e nessuno gli faceva
paura.
La sua corazza
non era la forza si circondava
di ceffi e cafoni.
Il suo carisma non dimorava
nel cuore era tutta
apparenza e niente sostanza.
Un pallone gonfiato di
boria inetta.
Dentro sé stesso un
castello di carta.
Un pusillamine senza
virtù cantava le gesta
di eroi del passato che
come fantasmi vedeva
la notte.
Di giorno vantava potere
e ricchezza con l’arroganza
di chi sa già tutto.
Altero e superbo oltre
misura si guarda allo specchio
con supponenza.
Il riflesso rimandava l’ego
di un misero uomo mortale.
Francesco Musitano
Tra l’ospedale e Delitto e Castigo
Dott Aparo, scrivo questa sorta di accompagnamento allo scritto non per giustificarmi ma per chiarire alcune cose. Ne approfitto anche per scusarmi di non essere sceso al gruppo ma ho dolori a tutte le ossa, in più la mia vena polemica è abbastanza amplificata rendendomi più antipatico del solito.
Allora, prima di andare in ospedale Nunzio Galeotta ha iniziato a stressarmi come al solito, dicendomi che avrei potuto sfruttare il tempo che avrei trascorso in ospedale per fare uno scritto.
“Stai là, tanto vale che impegni il tempo per fare uno scritto, magari per le scuole”. Gli ho risposto che non era cosa, dato che dal periodo di Natale vivo un forte conflitto con mio figlio, per cui non mi sentivo di scrivere ai ragazzi delle scuole. Allora lui mi fa: “va bene, allora scrivi qualcosa sul mito di Sisifo, oppure su Delitto e Castigo, tanto sono argomenti che tratteremo, per cui tornerà sempre utile”.
Non so perché, ma ho una specie di repulsione verso il mito di Sisifo… non mi entra in testa in alcun modo. Dopo nemmeno 10 minuti il mio cervello in automatico cancella tutte le informazioni sul tema rendendomelo quindi antipatico!
Non restava quindi che trattare Delitto e Castigo. Ma in ospedale le cose non sono andate in modo tale da permettermi di avere la “serenità di scrivere”, oltre alla mia riluttanza proprio nell’atto pratico. Quando sono ritornato me lo sono pure dovuto sciroppare, in quanto Nunzio mi rimproverava del fatto che in 24 giorni non ero stato in grado di scrivere nemmeno degli appunti da poter usare più avanti.
E così, appena rientrato dall’ospedale, è tornato alla carica, dato anche che l’ultimo convegno era incentrato proprio su Delitto e Castigo.
Tutto questo è per dirvi: Caro Prof, è inutile che mi fate quelle guardate come a dire “ma che scendi a fare se non hai niente da dire?”.
Ho già lui che mi stressa, non vi ci mettete pure voi.
Antonio Antonucci
Se dobbiamo fare una sorta di analisi del testo non possiamo non dire che è un MATTONE… è complesso non solo nei termini, ma anche nel farsi seguire come narrazione! Almeno per me!!
Anzi, se penso alla spiegazione del Dott. Cajani che ci accompagnava nel racconto, allora dico che è normale che oggi la gente preferisce ascoltare i libri anziché leggerli.
Ci sono diverse analogie con il personaggio di Raskol’nikov che si possono evidenziare; in più credo che un titolo e una storia così, abbiano motivato a riflettere molti di noi del gruppo “interno”.
In primis è il DELITTO, la privazione della vita, il sentirsi letteralmente superiore all’altro, tanto da poterne decidere il destino, quindi certamente in linea con la maggior parte di noi, che abbiamo fatto parte di associazioni di stampo mafioso. Stavamo attenti a restare impuniti, proprio come Raskol’nikov con il suo delitto perfetto. Peccato però che poi non sia andata così!
Poi altre riflessioni più personali, per esempio il personaggio del giudice istruttore che mi ha fatto ripensare al mio P.M. ai tempi del “minorile”, il quale per aiutarmi mi faceva prendere il minimo della pena, addirittura facendo derubricare reati, diventando quasi difensore e non più accusatore. Il giudice istruttore capisce la colpa di Raskol’nikov, ma comunque non lo arresta subito, anzi cerca di fargli ammettere le proprie responsabilità. Questo avviene anche grazie al sentimento che nasce tra il protagonista e Sonia, una prostituta (costretta a farlo per sfamare la famiglia), che per amore lo costringe a guardarsi dentro.
Anche qui vedo un’analogia in quanto il primo accenno di cambiamento l’ho avuto quando la madre di mio figlio è entrata nella mia vita ricoprendo un ruolo importante, appunto come Sonia nel romanzo di Dostoevskij.
La figura dell’uomo “superiore” al quale tutto è lecito , tutto è permesso, ma anche la stessa convinzione di uscire dalla miseria; è vero, l’usuraia è una donna perfida che sfrutta la disperazione altrui, ma la sorella è stata uccisa, nonostante non avesse niente a che vedere con queste cose. Una “vittima collaterale”, come le tante che hanno prodotto una parte di noi che siamo seduti a questo tavolo.
Volevo dire qualcosa anche sugli oggetti portati dal Dott. Cajani, ma adesso non me ne viene in mente nemmeno uno.
Ultimamente ho problemi di memoria, oltre ad avere i “pensieri confusi, a guerr n’cap”, però l’ultima analogia la voglio scrivere, perché riguarda il Professor Aparo. Secondo me, può essere associato alla figura della prostituta… vi prego dall’astenervi nel fare sorrisini e battute fuori luogo. Può anche essere associato alla figura del giudice. Entrambi questi personaggi entrano in relazione con l’aspetto psicologico del protagonista, inducendolo, in modi diversi, al confronto con se stesso.
Antonio Antonucci
La voce del masso
Il mito di Sisifo nasce da un’idea del nostro coordinatore, il dottor Aparo, il quale ha messo in evidenza l’intreccio tra la nostra rappresentazione del mito e le vicende personali di noi detenuti del gruppo della Trasgressione.
Sisifo, re di Corinto, pressato dal suo popolo che è rimasto senza il bene prezioso dell’acqua (anche a causa di una serie di sprechi), chiede aiuto al dio delle acque fluviali, Asopo. Quest’ultimo, inizialmente, non ha alcuna considerazione per il re e, dall’alto della sua superiorità, rifiuta anche il mero contatto fisico.
Ma Asopo si troverà costretto, suo malgrado, a sottostare alla richiesta del re di Corinto, essendo Sisifo l’unico che può fornirgli informazioni su sua figlia Egina. La ragazza, infatti, dopo un brutto scontro col padre, era scappata di casa, arrabbiata contro Asopo, che si disinteressa del suo lavoro e ha verso la figlia un atteggiamento autoritario e superficiale, senza rendersi conto che quei comportamenti hanno azzerato la sua credibilità e la fiducia di Egina nei suoi confronti.
La ragazza, in preda a un distruttivo sentimento di rivalsa e di contestazione nei confronti del padre, vada per il bosco di Corinto, dove viene avvicinata da Giove, re dell’Olimpo, che la invita a partecipare ad uno dei tanti “festini” organizzati apposta per soddisfare la sua smania di potere.
Sisifo, venuto a conoscenza di ciò, sfrutta la cosa a suo vantaggio, mettendo però in atto la stessa arroganza, la stessa sete di potere che aveva a sua volta subito. Nonostante abbia già ottenuto da Asopo acqua in abbondanza in cambio delle informazioini sulla figlia, Sisifo umilia il dio dell’acqua, costringendolo a inginocchiarsi e riservandogli lo stesso trattamento che egli aveva subito fino a poco prima.
Tutto ciò, non può essere accettato da Giove, il quale non accetta che un comune mortale metta in atto tali comportamenti. Il re dell’Olimpo chiama il fratello Ade e gli ordina di mandare il Dio della morte a catturare Sisifo per farlo giustiziare.
Sisifo però riesce a farsi beffe anche di Thanatos, che, in preda ad una crisi di coscienza, non vuole più accettare il ruolo di killer. Sisifo ne approfitta, lo ubriaca, lo lega e fugge.
Giove, di fronte a questo ennesimo oltraggio alla autorità degli dei, condanna Sisifo, non più alla morte, bensì alla vita eterna, imponendogli come punizione che egli spinga perennemente un grande masso su per una montagna per il resto della sua esistenza.
Lo sforzo è immane, ma con il tempo Sisifo si renderà conto che quel masso non è altro che la sua coscienza non ascoltata, la quale adesso si manifesta con insistenza. Sisifo capisce che mentre ascolta il masso e ne intende le ragioni il suo fardello diventa meno opprimente.
L’arroganza di Sisifo, mi fa pensare alla stessa arroganza che ha condizionato la mia vita “esterna”: il sottrarmi volontariamente alle regole e il delirio di onnipotenza mi hanno fatto sentire in diritto di decidere anche della vita delle persone con una evidente inumanità.
Grazie al gruppo della trasgressione, oggi ho una discreta capacità di analisi che mi permette di avere una revisione critica nei riguardi dei comportamenti scellerati da me adottati anche dopo il mio arresto.
Fortunatamente per me, ma anche per la società che tanto ho contribuito a degradare, il masso ha iniziato a farsi sentire.
Antonio Antonucci