Una domenica al Coming out

Domenica 11 giugno apriamo il Coming out alla città

Abbiamo un palco dal quale parlare, giocare, suonare. Potremo comunicare le nostre idee con discorsi seri o scherzando, con i congiuntivi al posto giusto o anche no. Magari facciamo qualche pezzo del nostro mito di Sisifo e i ragazzi delle scuole che visitiamo potranno dar voce a qualcuno dei personaggi.

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
(
Divina Commedia, Inferno, 2° Canto)

Forse qualcuno di loro racconterà ai presenti il senso del rapporto fra gli adolescenti e i componenti del Gruppo della Trasgressione. Detenuti, tirocinanti e tutti i componenti del gruppo avranno la responsabilità e il piacere di verificare se e quanto il nostro progetto può interessare gli abitanti della zona Barona e i cittadini che interverranno.

Probabilmente ci sarà anche un campione italiano dei pesi welter, ma nessuno darà pugni. Noi tutti, invece, proveremo a dire cosa vogliamo far venir fuori da noi stessi e dal nostro progetto comune. Di certo sarà una giornata in cui detenuti e figure istituzionali, adolescenti e insegnanti, potranno vivere la trasgressione di oltrepassare le colonne d’Ercole e verificare se, al loro ritorno, riusciranno a comunicare agli altri l’umanità e la ricchezza dell’esperienza vissuta.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
(Divina Commedia, Inferno, 26° Canto)

Per questo avremo chi porterà musica rap e chi canterà De André, avremo chitarre e violini e tamburi. Ci saranno grigliate, pane dal carcere, le piante di Opera in fiore e la bancarella di Frutta & Cultura. Se le cose vanno come si spera, dovremmo avere i primi esponenti del Coming out.

Curiosità e arrovellamenti

Cecilia Braschi, Matricola: 788994
Corso di studio: Scienze e tecniche psicologiche
Tipo di attività: stage esterno

Periodo: dal 01/04/2017 al 30/04/2017

Titolo del progetto:
STAGE ESTERNO PRESSO “GRUPPO DELLA TRASGRESSIONE”

Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Ho svolto il mio tirocinio presso il Gruppo della Trasgressione, un’associazione e cooperativa assolutamente innovativa e fuori dagli schemi ideata vent’anni fa dal dott. Angelo Aparo, psicoterapeuta che da quasi quarant’anni lavora all’interno delle carceri milanesi. Le attività del Gruppo sono molto variegate, ma tutte finalizzate al coinvolgimento ad un pari livello di detenuti, studenti universitari, adolescenti e liberi cittadini. Il Gruppo opera con le persone che vi partecipano, indipendentemente da età, status di detenuto o provenienza sociale, studiando e interrogandosi su tutto ciò che attiene alla sfera umana e relazionale, dal rapporto con le autorità al dialogo con se stessi, dal rispetto per gli altri al riconoscimento delle proprie fragilità, dal pericolo di cadere nella mediocrità all’importanza della relazione e tanto altro ancora.

Non so se il dott. Aparo abbia una corrente psicologica di riferimento, ma se dovessi definire l’approccio teorico/pratico adottato nel corso delle attività sicuramente lo etichetterei come “apariano” e niente di più. A chi non conoscesse il suddetto metodo lo spiegherei sintetizzandolo in tre parole: curiosità, arrovellamento e schiettezza, mentre per ulteriori dettagli suggerirei di partecipare in prima persona, perché solo così si può capire davvero.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Il ruolo richiesto a noi studenti è (tutt’altro che semplicemente) quello di partecipare ad ogni attività, quale che essa sia, dando il nostro personale contributo, cercando di metterci in gioco il più possibile e avendo il coraggio di mettere a nudo le nostre fragilità davanti agli altri membri del gruppo. Quest’ultimo aspetto è forse quello che viene maggiormente incoraggiato, poiché, sebbene possa sembrare destabilizzante per la persona, nei fatti è ciò che ci fa sentire vivi e uniti gli uni agli altri: un aspetto che mi ha colpito fin da subito nei detenuti è proprio il valore che attribuiscono al riconoscimento delle loro fragilità più profonde, riconoscimento che li rende più degni di stare al mondo invece che indebolirli. Ecco, da questo sforzo non è esente nessuno di noi, ognuno deve impegnarsi a tirar fuori ciò che di più profondo possiede, perché così facendo arricchisce il gruppo ma soprattutto se stesso. In un’accezione più pratica invece potrei aggiungere che nel mio ruolo rientravano compiti quali la stesura di verbali relativi alle attività svolte e la gestione di una bancarella di frutta e verdura di cui parlerò qui di seguito.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Le attività del Gruppo sono molto varie ed in continua evoluzione: alla base ci sono le discussioni che si svolgono tutte le settimane all’interno delle carceri di Opera e Bollate e in un ATS di Milano, momenti di studio, analisi e discussione di molte tematiche tra cui quelle prima citate. Sempre più consistenti e soddisfacenti stanno diventando inoltre le attività di prevenzione al bullismo e alla tossicodipendenza svolte nelle scuole, momenti in cui i detenuti insieme agli studenti offrono i racconti delle loro storie e crescite personali a ragazzi adolescenti che hanno già mostrato qualche segno di devianza, cercando di instaurare un sano rapporto di fiducia reciproca a due scopi: allontanare l’adolescente da un mondo che lo farebbe affondare e dare la possibilità al detenuto di ripagare in parte il danno commesso nei confronti del bene comune.

Recentemente alla cooperativa è stata affidata la gestione di un terreno in zona Barona a Milano che, ripulito e vivificato, oggi ospita la bancarella di frutta e verdura gestita dalla cooperativa stessa e mira a diventare luogo di ritrovo e libera espressione per detenuti, studenti, comuni cittadini del quartiere e non, ospitando eventi ed attività legati a teatro, musica, fotografia, orticoltura ecc.; il nome del terreno, “Coming out”, indica appunto la possibilità offerta da questo spazio di “venire fuori”, esprimersi liberamente e creativamente, superare la paura di esporsi.

Altra attività interessante coltivata negli anni dal Gruppo è la rappresentazione teatrale del mito di Sisifo, che per i temi affrontati ben si adatta alle vicende dei detenuti e infatti sono essi stessi ad andare in scena insieme agli studenti improvvisando di volta in volta le parti che vengono loro assegnate, proprio perché avendone studiato a fondo i significati non necessitano di alcun copione. Infine, non perché meno importanti ma semplicemente perché non vi ho mai assistito in prima persona, il gruppo svolge diverse attività di restauro a Milano e dintorni, al fine di trasmettere ai detenuti quell’idea di lavoro come gratificazione e costruzione personale, idea che in passato molti di loro avevano rifiutato scegliendo di vivere nella mediocrità.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Nonostante lui non ami identificarsi in tale figura, il coordinatore del tirocinio è stato il dott. Angelo Aparo, il quale, al di là di ogni definizione, si è rivelato una figura a tal punto “trasgressiva”, ispiratrice e quasi comica da aver in qualche modo segnato il mio percorso di formazione in quanto psicologa ma soprattutto in quanto persona. Ciò che fa continuamente, anche partendo dalle piccole cose, è di spingerci a riflettere oltre i normali limiti e le frettolose conclusioni cui si giunge la maggior parte delle volte. Innumerevoli sono state le occasioni in cui, in seguito alla riflessione di un qualsiasi membro, lui ha risposto senza tanti complimenti “no, non sono d’accordo” e con tutta la calma e le parole necessarie ha accompagnato tutti noi un po’ più in là rispetto al punto in cui ci eravamo assestati fino a quel momento. Lui è colui che si fa ispirare dalle piccole cose, dalle semplici emozioni e dalle belle immagini dando poi vita a ciò che il gruppo concretamente fa. Il suo modo di assicurarsi la nostra partecipazione consiste nel farci “pagare il biglietto”, per citare le sue parole, ovvero stuzzicarci e stimolarci per farci sempre dare un nostro contributo personale, se questo non avviene già spontaneamente. Inoltre ci è richiesta la redazione occasionale di verbali piuttosto che di qualsiasi genere di scritto, sia esso in poesia o in prosa, che insieme alle produzioni dei detenuti vanno ad alimentare il bagaglio di testimonianze provenienti dal gruppo.

Aparo è sicuramente il motore del Gruppo della Trasgressione, ma ci si augura che negli anni abbia saputo trasmettere le sue idee a tal punto da lasciare dietro di sé una traccia che possa essere ricalcata da chi meglio l’ha conosciuto e apprezzato.

 

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Le conoscenze che ho acquisito durante questo periodo di tirocinio sono senza dubbio molto consistenti sul piano personale, hanno contribuito e stanno contribuendo a farmi capire chi sono e solo in conseguenza di ciò imparo come dovrei lavorare in futuro. Effettivamente potrei dire di aver partecipato ad ogni incontro come ad un momento di studio da cui ogni volta sono uscita arricchita, talvolta turbata ma sempre con qualcosa in più su cui riflettere. Ora riconosco che per ascoltare e capire veramente le storie delle persone l’attenzione e l’empatia non sono mai abbastanza; che per guadagnarsi la stima e la fiducia del gruppo oltre che dei singoli bisogna impegnarsi costantemente, anche con piccoli contributi, ma cercando di esserci sempre e di farsi sentire.

Ora ne so un po’ di più di un mondo che mi era completamente estraneo, quello carcerario, ma soprattutto vedo quanta necessità vi è di rivoluzionare questo stesso mondo, promuovendo a braccia aperte iniziative come quella del dott. Aparo, alla base della quale c’è il tentativo di relazionarsi con le persone, evitando di lasciarsi ingabbiare da categorie ideologiche. Ho scoperto che chiunque può tornare indietro e cambiare, apprezzare cose che prima nemmeno vedeva e gioire di emozioni molto più semplici di quelle che per una vita ha ricercato. Inoltre ho capito che i modi che usiamo per relazionarci agli altri sono giusti solo se in linea con la persona che siamo, con il nostro modo di essere, con l’esperienza che viviamo in prima persona e che ci permette ogni giorno di affinarli.

 

Abilità acquisite (tecniche, operative, trasversali)

Le abilità che sento di aver acquisito durante questo tirocinio riguardano principalmente le dinamiche di gruppo, in quanto ho potuto sperimentare pro e contro di un’attività che va avanti se e solo se è il gruppo a darle continuo carburante. Inoltre ho potuto mettere alla prova me stessa all’interno di queste dinamiche, provando tutto quel continuum di sensazioni che vanno dal senso di estraneità e inadeguatezza iniziale al sempre più forte senso di complicità che si sviluppa col tempo e la conoscenza delle persone.

 

Caratteristiche personali sviluppate

Ciò che mi porterò dietro da quest’esperienza è la spinta a riflettere con più attenzione innanzitutto su di me, sulla mia storia e la mia evoluzione, individuando le fragilità che mi porto dietro per poterle meglio affrontare. Sono proprio i detenuti ad avermi mostrato le difficoltà e le soddisfazioni legate a un percorso di scoperta di se stessi: sebbene per loro si tratti di un sentiero più tortuoso e doloroso, nessuno di noi dovrebbe sottovalutare le piccole cose che ci permettono giorno per giorno di evolverci e di conoscerci meglio, presupposto fondamentale per poter lavorare con gli altri.

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Homo sum…

Cristina Brioschi, Matricola: 801356
Corso di studio: Scienze e Tecniche Psicologiche
Tipo di attività: Stage esterno

Periodo: dal 13/03/17 al 4/05/17
Titolo del progetto:
Il Gruppo della Trasgressione
Homo sum, humani nihil a me alienum puto

Caratteristiche generali dell’attività svolta: istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento

Il Gruppo della Trasgressione opera all’interno del carcere in modo del tutto singolare. Si tratta di un gruppo in cui detenuti e liberi cittadini hanno modo di confrontarsi, portando il proprio punto di vista e servendosi delle personali esperienze di vita, su tematiche di ampio respiro, come ad esempio la relazione con l’autorità, la responsabilità di ciò che si fa, la costruzione della propria libertà. Tutti possono partecipare agli incontri in modo costruttivo poiché ciascuno ha una vita che è stata portata in una certa direzione grazie alle scelte prese, ha delle spinte regressive ed evolutive che deve amministrare, ha trasgredito le regole, ha dentro di sé luci e ombre da riconoscere. Ciascuno cioè ha nella propria esperienza elementi che può mettere in campo e condividere con gli altri: ciò è faticoso, ma utile per il singolo che vuole conoscersi meglio e arricchire il gruppo collaborando con la ricerca che si fa. Questi incontri hanno luogo al SerT e all’interno del carcere di Bollate e di Opera.

Ci sono poi occasioni (ovvero gli incontri di prevenzione al bullismo e alla tossicodipendenza nelle scuole e la rappresentazione del mito di Sisifo) in cui il gruppo si mette in dialogo con la società nel tentativo di portare un cambiamento concreto. I detenuti in questi casi mettono a disposizione la loro esperienza, che comunicano a comuni cittadini e agli adolescenti delle scuole medie con delle sottolineature un po’ diverse rispetto a quel che accade in altri gruppi: in questo caso, l’obiettivo della comunicazione non è quello di mettere in guardia dalle conseguenze negative del trasgredire in modo impulsivo e disordinato, ma piuttosto ricostruire la gamma di scelte che li ha portati sulla strada della devianza e gli sforzi che oggi stanno facendo in favore della propria evoluzione. Grazie a questo lavoro, ciascuno può riconoscersi in tali spinte e rintracciarle nella propria esperienza e i detenuti si sentono parte attiva e utile di una società che in passato hanno ferito.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte

Non saprei dire con precisione quale ruolo ho svolto, il gruppo non ha una struttura e un’organizzazione rigida in cui è possibile sentirsi parte che dà un contributo chiaro e riconosciuto da tutti in modo univoco. Come componente, ho cercato di condividere le mie riflessioni e di partecipare con costanza ai gruppi in modo da riuscire ad avere più familiarità con i contenuti e con il livello del confronto, sempre alto e in alcuni casi difficile da approcciare.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati

Per riuscire ad orientarmi nelle dinamiche del gruppo e a pormi in modo costruttivo ho innanzitutto considerato con serietà i contenuti trattati e mi sono messa in discussione cercando sempre dentro di me o nella mia storia qualcosa che corrispondesse a ciò di cui si stava parlando. Sono così riuscita a cogliere più in profondità alcuni degli aspetti umani su cui il gruppo si interroga.

Inoltre mi sono impegnata nel redigere i verbali di alcuni incontri: mi è stato utile per chiarirmi i concetti trattati e per tenere una traccia dei passi fatti nell’avanzare della ricerca.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte

Spesso faccio fatica ad accettare e riconoscere come tale il ruolo di chi “supervisiona” su ciò che faccio negli ambiti in cui mi sperimento, lo percepisco come un intralcio alla mia autonomia, della quale sono molto gelosa. In questo caso però con il dottor Angelo Aparo (fondatore e coordinatore del gruppo nonché tutor del mio tirocinio) ho avuto meno difficoltà: ha trattato la questione come un gioco ed io ci ho trovato più gusto nel cercare un equilibrio tra ciò che voglio liberamente fare e i limiti che non posso oltrepassare… Mi sono divertita! L’ho trovato edificante per la mia crescita personale.

I modi che il dottore ha di verificare il lavoro dei tirocinanti sono principalmente la lettura dei loro verbali oppure la richiesta di una rielaborazione orale durante lo svolgimento degli incontri. In questi casi si è sempre posto con una certa severità nei confronti della trasmissione dei contenuti e della forma in cui questi vengono espressi, ciò mi ha spronata a fare sempre più attenzione ai dettagli, a cogliere le differenze e a provare a rendere attraverso le parole la complessità del reale e delle questioni trattate.

E’ successo più volte durante i gruppi che mi invitasse a dire la mia, mi è stato d’aiuto per andare un po’ oltre la mia chiusura e riservatezza solite. Ho imparato grazie a questa cosa a chiedere più spesso a me stessa che cosa io abbia di tanto segreto e inconfessabile da doverlo nascondere agli altri e da tenere imprigionato dentro di me, il risultato è che mi esprimo con più facilità, lo considero come un valore e perciò riesco ad avere meno timore di quello che gli altri potrebbero pensare o a eventuali giudizi.

 

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)

Trovo difficile identificare delle conoscenze nozionistiche o circoscritte apprese al Gruppo della Trasgressione; più che altro ho acquisito molti spunti di riflessione in più sulla natura umana, sull’equilibrio tra la persona e l’ambiente circostante e sulla società in generale. Spesso mi trovo ad approcciare situazioni del quotidiano utilizzando spunti o coordinate appresi al gruppo, le trovo molto concrete come conoscenze perché vive e aderenti al reale, al contrario di molte delle cose apprese dai libri all’università.

Nel corso del mio tirocinio non ho puntato però ad acquisire un corpus di conoscenze e di risposte da calare nelle situazioni, piuttosto ho visto nascermi dentro molte domande, le trovo più nutrienti, mi spingono a continuare a cercare e sperimentare ancora.

Inoltre ho scoperto che cos’è una nevrosi.

 

Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)

Ho acquisito maggior fiducia in me stessa per quanto riguarda la rielaborazione dei contenuti trattati e la capacità di trasmetterli ad altri in modo chiaro. Mi sono impegnata nel riflettere sulle tematiche e nel lasciarmi interrogare, credo di essere diventata più abile nel venire a capo di questioni espresse in modo non lineare o addirittura contorto, cercando sempre di scovare l’essenza, il nocciolo.

 

Caratteristiche personali sviluppate

Durante la mia permanenza al gruppo ho sfruttato l’occasione succosa del tentativo delle persone di portare fuori ciò che dentro di sé è difficile da accettare ed esporre agli altri per affinare le mie capacità di ascolto, cercando di porre l’attenzione sulle emozioni e le sensazioni che queste cose mi provocavano dentro, per stabilire una connessione diversa con chi parla e per espandere la mia comprensione. Ciò è stato possibile anche perché ho riconosciuto nei processi e in alcuni stati interiori descritti dai componenti del gruppo (detenuti e non) qualcosa della mia storia, perciò mi sono sentita simile, vicina, appartenente.

 

Altre eventuali considerazioni personali

Or ti piaccia gradir la sua venuta:  
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.”

Grazie a questa esperienza mi si è aperta una finestra su un aspetto della società e della realtà interiore delle persone che troppo spesso non viene considerata: la libertà è soprattutto una condizione interna che dobbiamo costruire e tutelare, ha poco a che fare con i limiti fisici come ad esempio le mura del carcere. Capisco di aver avuto dentro già da tempo questa consapevolezza, certo è che poterla toccare con mano e poter andare a fondo nei vari aspetti della questione con i detenuti (i quali in molti casi nella loro vita hanno portato all’esasperazione conflitti che tutti hanno, rendendoli così più facilmente osservabili) mi ha svegliato il desiderio di prendermi cura di questa cosa dentro di me, e di combattere per un mondo che non sia di persone libere nei fatti ma prigioniere nella sostanza.

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Al gruppo per cercare

Cecilia Braschi

“Al gruppo si viene per cercare, non per diagnosticare”.

Queste le parole del Dott. Aparo durante un normale incontro del martedì. Parole da cui emerge l’idea del Gruppo della Trasgressione come strumento di conoscenza di sé, dell’altro e del mondo; di fronte al quale ci si dovrebbe quindi porre nel modo più umile, curioso e ricettivo possibile.

Il fatto è che siamo tutti incredibilmente piccoli di fronte alla conoscenza, o forse è quest’ultima ad essere spaventosamente ampia ed incontrollabile per le possibilità umane. Più cresco, più studio, più mi rendo conto che la strada da fare si allunga, che le cose per cui vale la pena studiare ed informarsi si accumulano smisuratamente. Il cammino della conoscenza è interminabile, anche se mi rendo conto di quanto sia gratificante percorrerlo a piccoli passi.

Ecco, rispetto a questo lunghissimo percorso possono esserci atteggiamenti diversi: da una parte coloro che si lasciano affascinare da questa avventura, cercando di avanzare sul sentiero al massimo delle loro possibilità; all’estremo opposto, coloro che, accecati da chissà cos’altro, non riconoscono o ancor peggio denigrano questo tesoro che la storia e la vita ci offrono.

La parte più coinvolgente di questa storia si presenta quando qualcuno decide di tracciarsi un sentiero per passare da una parte all’altra, dalla cecità totale all’apertura più profonda, ed è a questo passaggio che assisto giorno dopo giorno al Gruppo della Trasgressione: persone che probabilmente fino a qualche anno o decennio fa se ne infischiavano della mitologia greca, del significato della parola “dialettica”, piuttosto che di comporre poesie, oggi le vedo fare domande e incuriosirsi. I vissuti personali vengono riletti alla luce di ciò che la psicologia, la filosofia, la pedagogia, la mitologia insegnano a tutti noi; si analizzano conflitti e stati d’animo fino a farne delle rappresentazioni teatrali. Fa un certo effetto vedere come, una volta riaperti gli occhi e spolverata la coscienza, la cultura, intesa come bagaglio personale di conoscenze, possa affascinare e attrarre a sé anche chi l’aveva ignorata.

Ma se parliamo di cultura come strumento di salvezza allora non ci riferiamo soltanto ai detenuti (per quanto nel nostro caso ci si concentri su di loro), poiché tutti, ma veramente tutti, in un modo o nell’altro possiamo ottenere questo beneficio, quale che sia la nostra condizione di partenza. Mi è rimasta molto impressa la vicenda raccontatami dal Dott. Aparo della ragazzina filippina, vittima di un abuso, la quale ha accettato di interagire con lui, probabilmente grazie al fatto che la prima domanda che il Dottore le ha rivolto è stata: ma tu cosa sai delle Filippine? Dopo aver francamente dichiarato di non saperne nulla, la ragazzina si è ripresentata qualche giorno dopo fornendo una sfilza di informazioni estremamente dettagliate sul conto delle Filippine. Bene, non è esattamente quello che ci si aspetta da una persona della sua età reduce da un simile trauma, eppure in questo caso il sapere ha dimostrato di avere anche questa forza, quella di unire le persone in una relazione, di creare un legame, cosa di cui probabilmente lei ha molto bisogno.

E credo che questo valga un po’ per tutti. Al Gruppo della Trasgressione si viene continuamente esposti a nuovi contenuti, a domande e riflessioni che potenzialmente tutti possono fare, ma su cui raramente si scava a fondo durante la vita di tutti i giorni. E allora devo ringraziare per l’esistenza di quelle persone che si prendono la briga di farti accomodare, dimenticare quello che sta fuori e riflettere su quello che c’è dentro.

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Prevenzione bullismo 2016/17

Milano, 14 aprile 2017

PROGETTO PREVENZIONE BULLISMO
Rotary club Milano Duomo
Gruppo della Trasgressione
Anno scolastico 2016/2017

 

In relazione al progetto concordato per l’anno 2016-2017, nell’ambito degli interventi nelle scuole per la prevenzione al bullismo, il “Gruppo della Trasgressione” ha svolto un intervento articolato su due piani concentrandosi sul Centro di Formazione Professionale Pia Marta:

  1. Tre incontri mirati su 20 ragazzi (fra i 16 e i 18 anni) per i quali, a giudizio degli insegnanti (con i quali abbiamo tra l’altro consolidato una buona sintonia), erano stati rilevati: particolari disagi in ambito familiare, difficoltà di relazione con i compagni, scarso rendimento scolastico, manifestazioni di insofferenza verso le regole, coinvolgimento in atti devianti e, infine, condanne penali, pur se con misure alternative alla carcerazione quali: messa alla prova, affidamento in comunità;
  2. Quattro incontri, con coinvolgimento di un centinaio di studenti, nel corso dei quali, nell’auditorium dell’istituto scolastico e nel teatro del carcere di Opera, vi è stata la solita vivace interazione fra una nutrita selezione dei componenti del “Gruppo della Trasgressione” e le 4 classi selezionate dai responsabili dell’istituto scolastico coinvolto. Oggetto degli incontri è stato il tema del “Raccontare Storie”

Più in dettaglio, per quanto riguarda il primo punto, sono stati formati due gruppi ristretti che coinvolgevano ognuno una decina di studenti della scuola e 6/7 componenti del Gruppo della Trasgressione (studenti e detenuti). Per la prima volta i componenti del Gruppo hanno tenuto gli incontri senza il coordinamento del Dott. Aparo, il quale ha invece avuto il ruolo di supervisore, al termine di ogni incontro ristretto. A tale proposito, sono state fatte delle riunioni durante le quali è stato riportato quanto emerso durante il gruppo, sono stati discussi i successi, affrontati i dubbi che sono sorti e si sono pianificate le strategie e le linee guida da mantenere nell’incontro successivo.

Durante questi incontri si è cercato, tra l’altro, di far sì che i ragazzi della scuola imparassero a raccontare la storia dei detenuti del Gruppo e viceversa.

Saper raccontare la storia di una persona permette a chi la racconta di imparare a tenere in mente e a prendersi cura di dettagli ed episodi dell’altro ai quali spesso non si dedica attenzione; permette di imparare a coinvolgere le persone che ascoltano e fa sì che la persona raccontata non si senta un insieme di avvenimenti ma un soggetto in divenire; permette di individuare nella storia del protagonista conflitti fra spinte regressive ed emancipative, dolori e dispiaceri che tengono tante volte ancorati al passato, ma anche speranze e desideri di evoluzione che proiettano verso il futuro.

Nei primi due incontri, in cui sono state coinvolte tutte e 4 le classi del progetto, si è affrontato il tema della scelta, del percorso che porta a determinate scelte, delle emozioni coinvolte e delle conseguenze delle scelte fatte (Vedi su www.trasgressione.netMicro e macro-scelte”.

Significativo è stato anche l’incontro svoltosi all’interno del carcere di Opera. L’esperienza di entrare (per alcuni di rientrare) in un carcere ha facilitato la riflessione sulle conseguenze delle proprie scelte, pur se, nel complesso, questa giornata è stata la meno vivace. La partecipazione degli studenti è stata modesta, pur se gli incontri successivi hanno reso evidente che la giornata ha seminato in loro spunti di ulteriore riflessione e di autocritica.

Durante l’incontro finale, gli studenti coinvolti nei gruppi ristretti hanno consegnato ai loro compagni, ai loro insegnati e ai componenti del Rotary presenti, le storie che hanno imparato a raccontare e ciò che hanno vissuto durante gli incontri.

Nel complesso, il progetto ci è cresciuto fra le mani via via che lo si portava avanti e ha coinvolto sia i detenuti che hanno alle spalle anni di carcere (vedi i loro scritti su www.vocidalponte.it) sia gli adolescenti incastrati in situazioni famigliari e sociali complicate. Quello che abbiamo constatato e che stiamo continuando a vedere anche dopo la conclusione ufficiale degli incontri è lo sviluppo di relazioni e di progetti che hanno, chiaramente riconoscibile, il sapore della fiducia.

I risultati dell’esperienza sono tangibili: molti dei ragazzi coinvolti hanno cominciato a frequentare le nostre attività, sono venuti a una rappresentazione del Mito di Sisifo, partecipano il sabato alla bancarella, dove comunicano le loro difficoltà, ricercando nel nostro gruppo un sostegno e un riferimento per sentirsi riconosciuti e per porsi domande.

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Un viaggio nell’adolescenza

Roberto Cannavò

L’esperienza che sto vivendo con gli studenti del Pia Marta è una forma di rivisitazione della mia, anzi mi permetto di dire, della nostra adolescenza. A differenza dell’esperienze che abbiamo fatto fino a oggi presso le varie scuole di Milano e Provincia, dove i confronti con gli studenti sono stati quasi sempre stati introdotti da rappresentazioni teatrali (il mito di Sisifo e altro), al Pia Marta abbiamo seguito un altro percorso, interagendo direttamente con alcuni studenti di circa 18 anni, segnalati per la loro “vivacità” dallo stesso Istituto.

Il 27 febbraio abbiamo avuto il primo incontro, durante il quale vi è stata una reciproca esplorazione tra loro e noi. Il 6 marzo, per essere più incisivi e per creare un po’ d’intimità, ci siamo divisi in 2 gruppi. In quello di cui faccio parte, l’inizio è stato, da parte degli studenti, solo di ascolto: nessuno di loro aveva rotto il guscio. Quindi, Massimo, componente del Gruppo della Trasgressione, ha iniziato a parlare della sua adolescenza e di tutte le scelte sbagliate, sicuramente fatte anche per colpe non sue, che lo hanno portato su percorsi devianti. Accanto a me era seduta una studentessa che aveva prodotto uno scritto, ma che, forse per mancanza di autostima, come in seguito mi confidò, non voleva fosse letto. Alla fine, tuttavia, siamo riusciti nell’intento di condividerlo.

Intanto che Massimo continuava a raccontarsi, cercavo di spiare nel modo più discreto possibile le emozioni di ogni singolo, compresi i miei compagni di gruppo. L’attenzione è stata altissima e mi ha fatto da apripista per raccontarmi un po’. Lo stesso hanno fatto altri miei compagni. Poi, durante una piccola pausa, ognuno di noi si è relazionato, a livello individuale, con uno studente e quando abbiamo ripreso l’incontro, come per magia, si sono rotte le corazze, così che abbiamo raccolto da ogni studente un pezzo della sua vita.

Ciò, secondo l’esperienza che sto facendo da anni con il gruppo, si è potuto realizzare (non avevo nessun dubbio in merito) in conseguenza del fatto che per primi ci siamo raccontati noi. I ragazzi prima si sono a tratti rispecchiati nelle stesse problematiche, poi è stato per loro quasi un dovere restituirci qualcosa del loro intimo.

Abbiamo creato così tanto feeling che il 20 marzo 2017, penultimo giorno dei nostri incontri con gli stessi studenti, abbiamo stabilito un patto: raccontare la nostra esperienza pubblicamente. Il “gioco”, se così lo possiamo definire, consisteva nell’essere protagonisti uno della storia dell’altro. Infatti, io ho raccontato, con il suo consenso, la storia di una ragazza e lei la mia. Lo stesso hanno fatto altri componenti del Gruppo della Trasgressione con altri studenti.

Sicuramente siamo all’inizio di un grande lavoro che condurrà i ragazzi e noi stessi verso la conquista di quei valori insiti in ognuno di noi, ma che sono stati abortiti nel corso del viaggio adolescenziale per ragioni che cercheremo di scoprire durante questo meraviglioso lavoro. Il tutto è così bello e promettente che auspico possa avere una continuità responsabilmente riconosciuta da parte delle Istituzioni.

I nostri obiettivi sono quelli di fare emergere le fragilità e le insicurezze che portano tante volte a rispondere con condotte devianti e con alleanze con cui si scivola gradualmente verso la perdita dei valori morali, l’autoreclusione e, nei casi estremi, il suicidio: strade che, purtroppo, abbiamo percorso in passato noi detenuti del Gruppo della Trasgressione e che, oggi, chi crede realmente nel recupero dell’uomo e della sua dignità ci aiuta a ripercorrere in senso inverso.

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“Fiori per un fiore”

Caro dott. Aparo,

alla fine “pago anche io il biglietto” per il 21 marzo 2017 a Operaeccolo qui.

Una somma di piccole cose, tra le quali – per quanto possa valere, dopo 15 anni di frequentazione – un personale attestato pubblico al valore del Gruppo della Trasgressione e alla bellezza di quello che sei e che fai.

IL 21 MARZO A LOCRI E IN 4000 LUOGHI D'ITALIA

Quanto può fare 940 diviso un mah?!” … così penso la sera del 20 marzo mentre devo decidere quante pagine ragionevolmente dovranno essere stampate per la lettura, al carcere di Opera, degli oltre 940 nomi delle vittime innocenti delle mafie. Un conto davvero complesso, soprattutto per uno come me che non ha mai amato la matematica ma, soprattutto, non ha la più pallida idea di quante persone l’indomani avrebbero avuto il coraggio di alzarsi in piedi e farsi avanti verso un leggio.

Di una sola cosa eravamo certi: che il leggio dovesse stare non sul palco ma sullo stesso piano dei presenti…. per riavvicinare, per quanto possibile, le distanze. Ma anche per altri motivi, non facilmente spiegabili a parole.

Alla fine mi convinco che 30 poteva essere un giusto compromesso, tra la speranza e il timore che caratterizza ogni prima volta.

Nonostante per me sia questa lettura il vero senso del mio 21 marzo 2017, decido comunque di attraversare tutta la città per arrivare a Quarto Oggiaro, in Piazzetta Capuana.

Non sembra per niente il primo giorno di primavera mentre, con il mio scooter, cerco di ripararmi dal vento freddo di Milano mentre il centro città degrada, sempre più, a periferia.

Le scritte sui muri però segnano costantemente tutto il mio percorso, oltre che la storia del nostro bistrattato Paese… del resto quel “Più lavoro meno sbirri di Locri assomiglia da vicino a quel “meno giudici, più libertà di quel 19 marzo 2010 a Milano, trentesimo anniversario dell’uccisione di Guido Galli.

Per un attimo realizzo così che sono proprio quelle due scritte, paradossalmente, ad aver segnato il punto di partenza e di arrivo non solo dei miei pensieri ma anche della mia fortunata coincidenza a ritrovarmi legato ai percorsi di riparazione con alcuni Familiari delle vittime di mafia, i cui sentimenti mi sconvolsero per la prima volta durante un incontro presso il Centro culturale San Fedele: era il 20 marzo 2010.

Ma non c’è però tempo per soffermarmi su quel pensiero perché sono ormai arrivato a destinazione: ho difficoltà a capire dove sia il palco perché sono subito colpito dall’immagine di diverse centinaia di fogli colorati appesi dappertutto… i numeri diventano visioni, e la prospettiva diventa necessariamente più complessa. Anche perché, su quei fogli, ci sono non solo i nomi ma anche le storie.

Nel ricercare quelle poche che davvero conosco, mi lascio interrogare dalle altre.

Non sono il solo, e allora simbolicamente immortalo anche la speranza di questa bella gioventù:

Da un altoparlante sento la voce, come sempre pimpante, di Lucilla che si rivolge ai moltissimi ragazzi presenti… grida a squarciagola quello che Peppino Impastato era solito dire a Cinisi, anche lei senza timore: “La mafia è una montagna di merda!”. Applausi.

Mi avvicino per vedere meglio l’effetto che fa… ha tra i capelli un bellissimo fiore arancione e continua il suo accorato discorso introduttivo.

Poi è il turno di Nando Dalla Chiesa…. ricorda amaramente come “quel Peppino Impastato è diventato noto solo grazie ad un film”, dopo tanti anni dalla sua morte e dalle calunnie fatte trapelare ad arte sul suo conto. Tanto che sua madre ebbe a dire di aver finalmente ricevuto giustizia: “Ha ottenuto giustizia non da una sentenza dello Stato italiano, ma da un film!”.

Ricorda i nomi e le storie di chi, nell’impiego pubblico (giudice, carabiniere, direttore di un ufficio di registro non importa), ha fatto il proprio dovere, pagando per questo con la vita. E conclude ricordando che “la lettura dei nomi mal si concilia con il brusio”.

Rimarrà immobile in mezzo al palco per tutto il resto del tempo, mentre un vento freddo ritorna alla carica e anche molte Autorità presenti, complici altri impegni istituzionali, scendono dal palco e si allontanano subito dopo aver letto alcuni nomi.

Gli altri Familiari sono ugualmente sul palco: intravedo Francesca seduta sul fondo mentre Lorenzo dall’altra parte è in piedi con la felpa di Libera. Nel mezzo Emanuela che, nervosamente, si tocca i capelli.

Quando finisce la lettura, mi complimento con Lucilla per la sua forza d’animo e, in cambio, ricevo due fiori di carta che avevano fino a quel momento abbellito la piazza: “questi li devi portare in carcere, mi raccomando!”.

Sorrido al pensiero di essere ricevuto dal Direttore Siciliano con due fiori in mano, ma ogni desiderio di Libera mi risuona – quasi sempre – come un ordine. Mi allontano non prima di aver staccato alcuni di quei fogli colorati, da recapitare ai rispettivi Familiari (impegnati come testimoni in altri luoghi d’Italia) come un ricordo milanese.

All’arrivo ad Opera c’è il tempo solo per venire a conoscenza che 180 detenuti avevano chiesto di partecipare all’incontro e tentare di conseguenza di rivedere, con Federica e Luana del centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano, tutto l’impianto che avevano immaginato pensando invece ad una dinamica di un piccolo gruppo …… ma nel frattempo sono arrivati anche tutti gli altri ed entriamo nella sala del teatro interno al carcere.

Eccoci qui: una piccola delegazione della cd. società civile, 20 persone tra Familiari, mediatori del Comune di Milano, volontari di Libera e componenti esterni del Gruppo della Trasgressione. Più altre persone interessate a capirne di più, tra le quali intravedo anche Fabio e Maurizio, i due Carabinieri che lavorano ogni giorno con me e che, liberi dal servizio, hanno deciso di accettare il mio invito.

Dobbiamo iniziare perché sono già passate le 15.00, e del resto io non vedo l’ora perché il peso della corresponsabilità di questo momento iniziava ad essere insopportabile… per fortuna, accanto a me che riesco a dire solo poche cose e peraltro male, Giacinto Siciliano invece sapientemente parla di un concetto di sicurezza inteso quale restituzione di uno spazio di responsabilità alle persone che vogliono confrontarsi.

Silenzio.

Inizio a essere anche io più tranquillo: mi siedo mentre tiro un sospiro di sollievo perché realizzo che, comunque vada, l’importante era davvero iniziare.

Ed è Federica che, alzandosi dalla seconda fila, inizia con la pagina n. 1…. dalla sua voce, generalmente pacata, escono nomi e cognomi quasi urlati.

Ricordo quello che lei disse all’inizio del primo incontro, il 7 settembre 2016, tra Marisa e alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, incontro durante il quale fu il mio amico Lorenzo Frigerio a buttare lì l’idea che si potesse continuare un percorso così importante con la lettura dei nomi delle vittime innocenti proprio in quello stesso carcere: “Il mediatore ha il compito di dare la parola alle persone”. Ed in quel momento mi sembra proprio che, con quelle piccole urla, stia ben assolvendo il suo compito: nomi che, dal 1893 ad oggi, chiedono a gran voce non solo Memoria ma anche, e soprattutto, Impegno.

Federica non fa a tempo a tornare al suo posto con in mano la pagina che ha appena letto che subito si avvicina al leggio un detenuto, e poi un altro. E un altro ancora.

Ognuno con il proprio timbro ma tutti con la voce spesso rotta dall’emozione….ma non è quello che a me colpisce, come invece sottolineerà Manlio Milani. Io sono rapito dal silenzio di tutto quello che gira intorno a quel leggio.

Perché, negli anni, sono stato a Modena, Roma, Milano e Firenze e mi ricordo perfettamente delle letture dei nomi delle vittime innocenti durante quelle Giornate del 21 marzo… ma un silenzio così, davvero, non riesco proprio a ricordarlo.

Un silenzio nel quale quei nomi assumono finalmente un significato diverso, come se qualcuno avesse deciso di “rimasterizzarne” l’audio e, al contempo, di liberarli dalla polvere accumulatasi negli anni.

Ad un certo punto si alza Manlio a leggere una pagina, ma poi sono ancora i detenuti a fare la fila.

Uno dopo l’altro. Sempre tutti in silenzio.

Si alza anche Marisa ma, prima di lei, è Luana a leggere il nome di Marcella.

Ma Marisa, ugualmente, legge la sua pagina scandendo nome dopo nome con uguale intensità, come se fossero, tutti e tutte, figli e figlie sue.

Tra un detenuto e l’altro riescono solo ad “infilarsi”, oltre ad un Maresciallo dei Carabinieri libero dal servizio e pertanto in abiti civili, l’Ispettrice Visentin – orgogliosa della sua uniforme di Polizia Penitenziaria indossata non come uno scudo ma come un servizio – e Cristina, che da grande sogna di diventare un Pubblico Ministero.

Perché, per il resto, se ci fossero altri fogli sarebbero sempre loro a leggerli: uno dietro l’altro, i detenuti del carcere di Opera. Pluriomicidi che fanno la fila, in religioso silenzio, di fianco ad un leggio. Tanto che l’ultimo foglio devono, per forza, leggerlo metà per uno.

La lettura termina. Il silenzio ancora no.

Mentre le volontarie di Libera, che nel frattempo si erano messe anche loro in fila, capiscono che devono necessariamente ritornare al loro posto. Riconosco Aurora: è stata lei che sabato sera aveva avuto il coraggio di una spudorata “richiesta di intercessione”, via telefono cellulare, per entrare in carcere. Consapevole di essere in ritardo, voleva comunque esserci ….a tutti i costi.

Chiedo aiuto alla freschezza dei suoi 26 anni per la parte più difficile, ma che – immerso nell’interminabile silenzio di quei 45 minuti – ho sentito non poteva mancare: i fiori di Lucilla.

Ancora una volta una immagine di Shakespeare mi indica il senso di tutto: “Fiori per un fiore”.

Ci alziamo insieme e andiamo a legarli, uno per parte, sul leggio. Alla fine io richiudo la cartelletta che, ormai, non contiene più quei 30 fogli. E torno a sedermi.

Sto molto meglio: immagino che quei nomi così possano tutti riposare, come Ophelia, finalmente in pace.

Non più disturbati da quel fruscio che anche questa mattina, nonostante il delicato avvertimento di un Familiare prima della lettura, aleggiava ogni tanto sulla piazza. O dalla puzza di qualche spinello, come lo scorso anno in Piazza Beccaria con la complicità di insegnanti distratti ad accompagnare anche qualche alunno svogliato.

E ripenso a tutte le volte che io stesso devo combattere, dentro di me, quel senso di svogliatezza che caratterizza l’essere umano in alcuni periodi della propria esistenza.

Ma è Aparo a ridarmi la carica, mentre alcuni Familiari e alcuni detenuti decidono che è arrivato il momento di fare un altro pezzo di strada insieme, ad iniziare dalla distanza che li separa dal palco e da 10 sedie bianche fino a quel momento vuote: “Vorrei regalare a Marisa e agli altri Familiari qui oggi presenti alcuni beni confiscati alla mafia. Si tratta di Beni che la criminalità organizzata ha utilizzato per uccidere senza però fermare la loro capacità di evolversi. Non possono restituire la vita alle loro vittime ma, grazie alla comunicazione con se stessi e con la società avviata e coltivata in carcere, si fanno oggi portavoce dei loro valori di civiltà”.

Di quei piccoli beni confiscati alla mafia declama ad alta voce nomi e cognomi, come aveva fatto quel 7 settembre quando l’incontro era necessariamente entrato nel vivo. Ho imparato ormai quello che questo vuole significare: come il mediatore, anche l’educatore in carcere – nel riconoscere l’altro tramite i segni distintivi della sua persona e non del suo reato – è in grado di “dare la parola alle persone”.

10 sedie bianche sul palco… 2 mediatori, 3 Familiari, 5 detenuti. Viene spontaneo a tutti lasciare la parola a chi il reato lo ha subito.

Marisa non esita un secondo di più: “da quel 7 settembre ho potuto incontrare qui in carcere tanti altri figli. Marcella non c’è più da quasi 27 anni ma oggi la sento viva come non l’ho mai sentita”.

Piango senza vergognarmi: l’ho sentita parlare ormai tante volte in pubblico della bellezza di Marcella e oggi, per la prima volta, finalmente riusciamo tutti a vedere – in primo piano – la bellezza di Marisa.

Tocca a Rosa…. aveva paura di non arrivare in tempo – una volta terminato il suo lavoro – a Opera ma, camminando di fianco a lei durante tutto il percorso che ci separava dal teatro, capisco che la vera paura era quella di voler entrare in carcere. “Quando hanno ucciso mio nonno all’inizio non riuscivo a capire…. Come un uomo può uccidere un altro uomo? Marisa una volta mi ha portato a Bergamo, c’era un ex camorrista che diceva che a Scampia i bambini non possono scegliere. Io, in prima fila, scuotevo la testa in completo disaccordo. Io non ci volevo credere …. sono andata a vedere di persona, e mi sono ricreduta. Io non perdono ma posso dire, oggi, che il mio dolore non è molto diverso dal vostro, perché nella vita si sbaglia. E anche io mi ero sbagliata”.

E’ il turno di Manlio Milani: “io non sono una vittima della mafia, ma questa mattina – in piazza della Loggia a Brescia – abbiamo alla fine letto anche i nomi delle vittime della strage. Perché non c’è differenza tra chi ha ucciso, così come tra chi è stato ucciso. Molte delle vittime non le conosciamo, ma la stessa cosa vale per chi ha commesso il reato: chi è il colpevole? Quale persona è? Cosa conosciamo di lui?”. Con questa conclusione: “anche io non credo nel perdono, ma al recupero della relazione sì. Occorre quindi alzare lo sguardo su chi ha commesso il reato ma anche su di noi”. Aria pura per i miei polmoni.

Il primo detenuto che prende la parola torna a quel 7 settembre e a quella domanda di Marisa: “perché?”. “Io ti avevo risposto: eravamo delle bestie. Poi c’è stata una persona che aveva detto: non accetto questa risposta perché, seppur bestie, eravate bestie con la consapevolezza. Ecco… ho riflettuto molto durante questi mesi: quella persona aveva ragione!”.

Ripenso al mio personale verbale di quel primo incontro, che ho regalato a Marisa con la speranza che potesse un giorno finalmente condividerlo con altri. E a Walter, oggi invece assente, che sarebbe stato contento di sentire l’effetto di quella sua obiezione da criminologo.

Ma subito sono colpito da un altro paradosso che viene messo a nudo, davanti a tutti, con una semplicità disarmante: “Ho ucciso una persona, la figlia di 10 anni mi ha perdonato pubblicamente. Io invece mi vergogno…. in questo ci dovete aiutare anche voi”.

Uno dopo l’altro, i detenuti del carcere di Opera sono un fiume in piena: “mentre sentivo quei nomi è stato automatico pensare alle persone che ho ucciso io. La prima volta che ho ucciso un uomo ho provato soddisfazione, si chiamava Roberto. Sono in carcere dal 1994, all’inizio non mi ricordavo neppure più come fosse. Poi ho provato dolore”.

Sono stato combattuto… mi alzo o non mi alzo… non volevo sporcare quei nomi. Ma alla fine ho deciso che dovevo fare qualcosa, anche oggi”.

Finalmente riesce ad arrivare sul palco anche Michele, altro Familiare: “Vado a Messa ogni mattina. Stamattina il Vangelo parlava di Pietro e di quella domanda: quante volte io devo perdonare?

Prende la parola Luana, che confida a tutti: “io non ero sicura di voler leggere quei nomi, quasi sottraendo una pagina alla lettura di un detenuto. Ma ho pensato che questo fosse una cosa giusta e ugualmente importante oggi: mi sono alzata pensando che di poter rappresentare la comunità, che necessariamente deve essere anch’essa qui presente”.

Sono le 17.20, abbiamo abbondantemente superato il tempo che ci eravamo prefissati di impiegare. Federica dal palco mi guarda come se dovessi anche io dire qualcosa, ma io invece passo la palla a Siciliano.

Non è da me non pagare il biglietto, come dice Aparo ogni volta che inizia un incontro del Gruppo della Trasgressione: l’ingresso è libero per tutti, ma tutti poi sono chiamati a pagare il biglietto esprimendo la propria opinione.

Ma io, questa volta, non ce la faccio.

Ripenso allo slogan di questa XXII Giornata della Memoria e dell’Impegno: “luoghi di speranza, testimoni di bellezza”. E non riesco a trovare nulla altro di bello da dire ai presenti, che sono stati così straordinari già di per loro.

Penso invece, per un lunghissimo attimo, a tante cose che bussano alla mia pancia tutte insieme, inaspettate.

A coloro che stanno in silenzio dietro le tende di quel palco e che invece potrebbero dire – come ha supplicato Don Ciotti anche domenica scorsa – “almeno dove li hanno seppelliti”: nomi ancora senza un corpo su cui piangere.

Al fatto che, come si è lasciato sfuggire un detenuto, “certo, non tutti le carceri sono come Opera…quello che riusciamo a fare qui difficilmente si può fare in altre realtà”. E al fatto che, come si è lasciato invece sfuggire un Familiare, “in carcere ho trovato una umanità che fuori spesso non riesco a trovare”. Affermazioni entrambe vere. Ma considerazioni, per me, terribilmente amare. Come cittadino, prima che come magistrato. Ma, a dire il vero, anche come magistrato: perché non capisco come sia possibile che la fecondità dell’idea del Gruppo della Trasgressione, e con essa le fatiche quotidiane e molto spesso neppure retribuite di Juri Aparo, non venga doverosamente considerata dalle Istituzioni come un Patrimonio dell’Umanità intera.

Non riesco poi a non pensare a quel filo rosso che lega Marcella Di Levrano, Gaetano Giordano e Giuseppe Tallarita: donne e uomini che hanno avuto tutti l’ardire di dire “no” alla mafia. E alla nostra società, invece così piena spesso di silenzi colpevoli.

Non riesco a non pensare a tutti quei rumori di sottofondo, brusii che spesso rendono banali le cose. Ai tempi veloci di quello che chiamiamo oggi il nostro vivere insieme, ai Familiari che stamattina ho visto scendere dal palco chiamati a testimoniare davanti ad una telecamera durante la lettura dei nomi dei loro cari, perché il TG di mezzogiorno ha tempi più stretti da quelli che la Memoria rigorosamente impone.

Non riesco a non pensare che sentenze dei Tribunali possano davvero essere sostituite dai film, sia pure importanti. E a quante volte ho sentito un Familiare lamentarsi contro questo o quel magistrato, tanto vicino al giudice dormiente raffigurato in un quadro che ogni tanto ancora oggi torna di moda.

Ma poi sento un Direttore di un carcere che sale sul palco e dice: “l’incontro di oggi da un senso al nostro lavoro” e la pancia inizia a farmi meno male.

Ci saranno altre occasioni, anche per dire ad Emanuela che, dentro un teatro che sta dentro un carcere, il nome di Piero Carpita è risuonato in tutta la sua bellezza.

E per restituire Memoria ad altre persone, anche perchè un detenuto, alla fine di tutto, si è avvicinato per chiedermi: “sono stato attento tutto il tempo ma nella lista dei nomi mancava la persona che ho ucciso io”.

Con l’Impegno di tutti.

Perché è vero che la mafia è una montagna di merda ma anche noi, molto spesso, siamo dediti a comportamenti maleodoranti. Ma riconoscere questo è già il primo passo per un cambiamento reale.

Come un lenzuolo bianco appeso da ciascun palermitano, speranza di Giovanni Falcone rievocata oggi all’interno di un carcere di massima sicurezza.

Nel quale, alla fine, ci sarebbe stata bene la musica della Trsg.band e quelle parole di De Andrè che abbiamo cantato anche al matrimonio di Sofia: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”.

Tra Opera e Milano, 21- 23 marzo 2017

Francesco Cajani

Pedala, sennò cadi!

Pedala, sennò cadi
Nicolas Aureli

Ci sono certe prime volte che non ti rimangono impresse nella memoria, mentre altre difficilmente se ne andranno via. Pochi ricordano la prima volta che hanno comprato un vasetto di marmellata, o la prima volta in cui sono saliti sopra ad un ponte; ma ci sono quelle prime volte che sono così importanti che diventano indimenticabili, un confine da cui si può decifrare con precisione un prima e un dopo (e non sto parlando esclusivamente di quelle prime volte in cui i vestiti sono sparpagliati sul pavimento). Spesso può avvenire un cambiamento così profondo che la persona dimentica completamente come fosse la vita prima di quel determinato evento, quale visione avesse del mondo attorno e un po’ di chi fosse. Voglio raccontarvi di due prime volte, così distanti nel tempo eppure così simili.

Ero un bimbetto di poco più di un metro (circa 80 centimetri fa), di poche parole e una capigliatura che allora non mi sembrava così imbarazzante (o forse ancora non sapevo cosa fosse l’imbarazzo). Come tutti i giorni di primavera gironzolavo in sella al mio biciclino nel solito parcheggio davanti a casa dei miei nonni. Questa volta però non stavo sfrecciando da una parte all’altra… ero fermo, saldamente ancorato al pavimento con tutti e due i piedi e le manine che iniziavano a sudare sul manubrio di plastica. Un osservatore poco attento avrebbe potuto non accorgersi della differenza dai giorni precedenti: lo stesso bambino, nello stesso parcheggio e con la stessa bicicletta.

Ma quella volta c’era qualcosa di meno, così piccolo eppure così importante. Era il primo giorno senza le mie preziose rotelle, il mio unico sostegno. Mi ricordo che nel pomeriggio mio nonno aveva violentato la mia piccola biciletta svitando con un cacciavite la mia sicurezza, lasciando il macabro trofeo sul bancone del garage. “Oggi è il giorno in cui diventi grande” la faceva facile lui, mica doveva trovarsi d’un tratto senza certezze, su una sella dove l’equilibrio non lo dovevi trovare in rotelle di plastica ma dentro di te!

Appena levavo un piede dal pavimento per metterlo sul pedale e la bicicletta iniziava pericolosamente a traballare, riappoggiavo immediatamente il piede a terra. Ero completamente bloccato, i miei timidi tentativi di partenza non sortivano l’effetto desiderato. Più ci provavo e più mi agitavo e più mi bloccavo. “Non devi aver paura, l’hai sempre fatto e sai come si fa!” Bravissima persona mio nonno ma come motivatore era davvero scarsino e banale. Però ho provato ad ascoltarlo. Una gamba, poi l’altra, la pressione sul pedale. I primi giri di ruota e il manubrio che tremava cambiando di continuo direzione. Il terreno che sembrava volesse a tutti i costi abbracciarmi. La gravità che non era mai stata così pesante. Ero instabile e insicuro, non sapevo a cosa appoggiarmi.

“Non ti fermare, se no cadi! Continua a pedalare!” non potevo abbandonarmi ma dovevo faticare e spingere verso il basso quei dannati pedali. Con sempre più convinzione, la ruota iniziava a girare più forte e il manubrio traballava molto meno. Aveva ragione il nonno nella sua banalità! Era davvero una cosa che avevo sempre fatto e che sapevo fare, solo che ora non avevo nulla che mi proteggesse. Et voilà, ho imparato ad andare in bicicletta. Non che non sia mai caduto, anzi, molto probabilmente non mi ricordo nemmeno un centesimo di tutte le volte che mi sono ritrovato sdraiato sull’asfalto (e chissà quante altre volte mi ricapiterà!) ma avevo iniziato ad andare senza rotelle ed ero diventato grande.

L’altra prima volta che vi voglio raccontare è successa a circa vent’anni di distanza dalla precedente. Era una mattina di inizio primavera, una di quelle in cui prima di uscire pensi per 10 minuti se sia il caso di mettersi la giacca invernale o qualcosa di più leggero (e puntualmente sbagli ritrovandoti a crepare di caldo o a lamentarti per il freddo). Via Pusiano 52, alla fine di un vicolo a senso unico c’è l’Istituto Pia Marta, un comprensorio di più edifici su un enorme parcheggio centrale. Le scuole si assomigliano tutte, come con gli ospedali riesci a riconoscerle a prima vista e in pochi secondi riaffiorano tutte le ansie di quando anche tu eri incatenato a quei banchi. L’appuntamento era alle 9:30 del mattino nel piazzale della scuola, ci siamo ritrovati cercando di sembrare più svegli di quanto in realtà non fossimo.

Ci siamo divisi in due squadre cercando di equilibrare gli anni di esperienza al gruppo. L’agitazione si poteva respirare, non c’eravamo preparati nulla ma questo è tipico del Gruppo della Trasgressione. Nell’aria galleggiava una domanda che nessuno ha avuto il coraggio di fare: “siamo davvero pronti?”. Stavamo per andare a fare il gruppo, una cosa che facciamo solo 5 volte alla settimana, in una scuola in cui eravamo già stati alcune volte, con ragazzi che avevamo già conosciuto; eppure era una cosa così diversa e nuova che nessuno si sentiva certo del risultato.

Quel giorno mancavano le preziosissime rotelle. Il fondatore e conduttore del gruppo, leader, psicoterapeuta e tante altre parole altisonanti, Juri Aparo oggi non ci sarebbe stato. Provare a descriverlo è molto più difficile del risolvere equazioni di secondo grado. C’è chi l’ha definito “bizzarro”, di sicuro non è la parola esatta ma è anche una delle prime che ti vengono in mente. Un concentrato di imprevedibilità che difficilmente si riesce a trovare in una persona sola: al gruppo non puoi MAI rilassarti, da un momento all’altro potresti ritrovarti a dover recitare una scena di Sisifo mentre pochi minuti prima si stava parlando della differenza tra le arachidi e le mandorle. Ma il prof è tanto imprevedibile quanto carismatico, qualsiasi membro del gruppo si farebbe senza battere ciglio da Opera al Duomo di Milano a piedi se te lo chiedesse. Con questo mix il prof riesce a gestire ogni situazione, qualsiasi imprevisto. Potrebbe benissimo parlare per 40 minuti di un tovagliolino del bar della stazione dei treni di Molfetta senza alcun problema. Spesso non capisci quale sia la direzione che stia prendendo, dove voglia arrivare o cosa capiterà tra pochi minuti ma sai che qualcosa uscirà fuori. La sua presenza è una sicurezza di riuscita, un paracadute che in qualsiasi situazione ti salverà.

Beh, oggi il prof non ci sarebbe stato, quindi si può ben capire di quanta responsabilità fosse caricato ogni componente del gruppo. Ognuno di noi doveva prendere in mano un remo per dare alla nostra zattera una direzione anche senza il suo “capitano”, per far capire che non siamo solo un mucchio di legnetti legati con un po’ di spago ma siamo un vero e proprio gruppo.

Suona la campanella, sono le 10 e dobbiamo entrare. Come sempre ci mettiamo in cerchio attorno a un tavolo su cui gettiamo un po’ di caramelle e qualche interrogativo sulla vita. Arrivano i ragazzi, si siedono tra di noi e dopo poche parole questa distinzione tra noi e loro cade. Questa è la magia del gruppo, qui sono tutti umani con le proprie colpe, i propri dubbi, le proprie idee e le proprie passioni. Puoi essere una persona che ha fatto piangere tante famiglie o puoi essere una che non schiaccerebbe nemmeno un moscerino che ti sta tormentando, ma a quel tavolo siamo tutti sullo stesso livello, siamo tutti uomini. Studenti, detenuti, volontari, tirocinanti, ex detenuti, tutti lì seduti su quelle scomode sedie a parlare di quella cosa così strana che è la vita. È la bellezza del gruppo.

Per conoscerci abbiamo messo sul tavolo la nostra storia, per aprire agli altri una piccola finestrella su ciò che siamo stati e ciò che siamo ora. Eravamo saliti sul sellino e stavamo iniziando a pedalare, come sempre i primi giri di ruota sono incerti. Il manubrio traballa, prima troppo a sinistra poi troppo a destra per raddrizzarsi. “Continua a pedalare! Non ti fermare, se no cadi!” E allora fai quello che hai sempre fatto: pedali!

I ragazzi sono stati fantastici (quei ragazzi segnalati dalle insegnanti perché più difficili ma che forse hanno sempre e solo avuto bisogno di poter parlare ed essere ascoltati), non abbiamo dovuto spiegare loro nulla, ognuno ha preso lo spazio che più gli si addiceva. Come le piante, alcune hanno bisogno di una luce intensa per poter fiorire; altre muoiono se le metti al sole mentre nella penombra riescono a sbocciare. Eravamo tutti interessati e partecipi a quelle storie così diverse dalla nostra eppure così vicine. In pochissimo tempo abbiamo visto i ragazzi aprirsi come spesso nemmeno dopo anni di terapia. Storie così toccanti che spesso avrei voluto gettare il mio cuore per terra per non sentire tutte quelle cose. Ma la cosa giusta da fare è l’esatto opposto, bisogna strappare un po’ di quella sofferenza e prenderla sulle proprie spalle per alleggerire chi la sta raccontando. Da soli non si riescono a combattere i propri demoni. Il gruppo è un valido alleato, ti fa capire che c’è qualcuno che ti ascolta, che ha già combattuto i propri demoni e che può allungarti una mano per aiutarti.

Quel giorno abbiamo dimostrato che il gruppo riesce ad andare anche senza le rotelle. Ognuno ha dovuto fare qualcosa in più del solito senza la protezione di una guida sicura. Ognuno di noi era una parte della bicicletta, le ruote che sembravano più gonfie del solito, il manubrio che assecondava meglio la strada, i freni che rallentavano senza inchiodare e la catena che girava come se gli avessero messo l’olio da pochi minuti. Ogni pezzo doveva sopperire alla mancanza di quelle rotelle su cui si poteva sempre contare. L’equilibrio ora dovevamo trovarlo dentro di noi e negli altri pezzi della bici. Avevamo interiorizzato le rotelle!

Lungi da me dire che ora il gruppo può fare a meno di un sostegno, ma di sicuro abbiamo dimostrato che la bicicletta sa correre anche da sola. Perché sono state proprio quelle rotelle ad averci insegnato a pedalare, quelle rotelle trasformano i sassi in menti che pensano. Abbiamo imparato che spesso le domande sono più importanti delle risposte, che spesso siamo troppo ancorati a risposte preconfezionate, che non sappiamo più dire quello che pensiamo se nessuno ce lo suggerisce.

Al gruppo non è importante il risultato ma il processo che l’ha portato, la fatica che si è fatta a mettersi in gioco, il lavorio delle teste che fumano a forza di pensare. Non siamo discepoli che ascoltano un messaggio ma persone che mettono in discussione ogni cosa di cui si parla senza per forza arrivare a una soluzione. Non vorrei abbandonarmi a banalità e frasi alla baci Perugina (cosa che per i miei gusti ho già fatto fin troppo nelle righe precedenti) ma le circostanze mi obbligano: al gruppo, come in bicicletta, a volte diventa davvero più importante il tragitto che la destinazione.

Per concludere questa relazione (che ormai si è trasformata in una vera e propria dichiarazione d’amore), voglio dire che il lavoro con la scuola Piamarta è stata una delle esperienze più arricchenti che abbia mai fatto e sarebbe una tragedia interrompere qui un percorso che sta già dando dei frutti succosissimi.

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Un gioco di squadra al Piamarta

L’esperienza con gli studenti del “Piamarta” si sta rivelando estremamente coinvolgente. Innanzitutto perché per la prima volta noi del Gruppo della Trasgressione stiamo interagendo con ragazzi che si trovano già concretamente al confine tra il continuare la propria evoluzione o perdersi; poi perché confrontandomi con loro e percependo chiaramente il loro disagio, sto rivivendo il malessere che ha caratterizzato la mia infanzia e la mia adolescenza, rendendomi facile preda della devianza.

Nell’ultimo dei quattro incontri che abbiamo avuto sinora con questi giovani, abbiamo avuto una prova di maturità dei membri del Gruppo poiché, per la prima volta, ci siamo confrontati con loro senza il supporto del dott. Aparo, che coordina il gruppo da vent’anni e da quasi quaranta lavora come psicologo nelle carceri.

Nell’ultimo incontro, membri del nostro gruppo e studenti si sono divisi in due gruppi. Quello di cui ho fatto parte, sin dall’inizio l’incontro, si è svolto sorprendentemente bene. Abbiamo rotto il ghiaccio dicendo, semplicemente, il nostro nome, cosa che poi, riflettendoci, non è così banale, poiché il nome è la prima forma di riconoscimento individuale e ricordandosi come si chiama la persona con cui ti relazioni è come se gli dicessi: “io ti riconosco tra tanti!”

A turno ognuno dei partecipanti ha raccontato qualcosa di sé e, man mano che le testimonianze andavano avanti, i ragazzi entravano sempre più in profondità. Ascoltandoli parlare, sono riuscito a immedesimarmi nelle loro storie perché anch’io sono cresciuto con la sensazione costante di essere fondamentalmente solo. Non nascondo la mia preoccupazione, perché in questa fase della loro vita questi ragazzi sono veramente in pericolo; al punto in cui sono, è sufficiente un evento che in qualche modo li turbi per scaraventarli negli abissi dai quali difficilmente si può risalire.

Nonostante il disagio che vivono, durante l’incontro ponevano anche delle domande che dimostravano per la loro pertinenza l’attenzione con cui ascoltavano. La cosa che ho percepito maggiormente è il bisogno dei ragazzi di essere ascoltati senza essere giudicati; inoltre, penso sia fondamentale non minimizzare mai i loro problemi e instaurare un rapporto paritetico che, oltre a farli sentire “riconosciuti”, permetta loro di sentirsi parte integrante di un mondo dal quale, purtroppo, ricevono continuamente messaggi fuorvianti.

Penso che il compito principale del gruppo, a maggior ragione di noi detenuti riemersi dalle nostre vecchie paludi, sia di infondere nei ragazzi quella fiducia in se stessi che noi, “Beni confiscati alla mafia” come ci ha affettuosamente definito il dott. Aparo, non abbiamo avuto durante la nostra adolescenza.

La nostra “rinascita” dimostra che, nonostante il mondo sia abbastanza incasinato, quando una persona incomincia a dialogare con se stessa e con le proprie fragilità, e a intrecciare relazioni che favoriscono la nascita di progetti a lungo termine, è possibile trovare la propria strada senza aver bisogno di cercare la felicità. In questo modo si può può fare facilmente a meno di quella strana e perversa eccitazione alla quale puntano le persone in difficoltà, ricorrendo all’uso sistematico della violenza e dell’arroganza o di sostanze che, non solo ci distruggono fisicamente e psicologicamente, ma ci allontanano ogni giorno di più gli uni dagli altri, rendendoci sempre più sordi ai segnali che la coscienza ci invia.

Ho la netta sensazione che con questi giovani possiamo costruire una base che ci consentirà di sostenere il peso del loro malessere di oggi e delle nostre scelte sbagliate di ieri con le quali i membri detenuti del gruppo devono convivere; ritengo, altresì, che attraverso il loro recupero io e i miei compagni potremo risanare in parte le ferite emotive della nostra infanzia e dare un valore al nostro folle passato, recuperando ulteriori energie per essere sempre più incisivi nella lotta contro la devianza e gli effetti collaterali che essa comporta.

Senza empatia è impossibile scardinare i meccanismi difensivi distorti che ognuno a proprio modo e spesso inconsciamente adotta. Solo mettendosi in gioco totalmente si può convincere un ragazzo a comunicare il proprio malessere e a indirizzare l’energia della rabbia che si porta dentro verso obiettivi funzionali alla sua evoluzione.

Certamente noi del gruppo dobbiamo essere consapevoli della grande responsabilità che abbiamo nei confronti dei giovani; per questo è necessario che ogni membro del Gruppo della Trasgressione ricordi sempre che solo facendo gioco di squadra possiamo riuscire nel difficile compito che ci spetta e per il quale, in un certo senso, ci prepariamo da anni: evitare che questi ragazzi distruggano la vita degli altri e la propria.

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Vittime e Carnefici a confronto

Da “La Repubblica”: “Guardarsi dentro aiuta a cambiare vita

SANDRO DE RICCARDIS

«ERAVAMO sordi, vuoti, ragazzi che non capivano e non ascoltavano, facevamo quello che ci ordinavano », dice l’uomo che sconta l’ergastolo per aver ucciso un poliziotto in Sicilia. «Adesso mi sento meno povera, meno sola. Mia figlia mi è stata strappata quasi ventisette anni fa, mi sembra ancora più importante perché mi ha fatto incontrare tanti altri figli. E oggi la sento viva come non l’ho mai sentita dal giorno in cui è stata uccisa», gli dice la madre di una vittima della Sacra corona unita, la mafia salentina.

Al carcere di massima sicurezza di Opera, vittime e carnefici sono gli uni accanto agli altri. Un centinaio di detenuti per gravissimi fatti di sangue, e una decina di parenti di vittime delle mafie. Dopo un incontro tra un familiare e un gruppo di detenuti lo scorso settembre, nell’ambito delle attività del “Gruppo della trasgressione” e con il supporto del “Centro per la mediazione penale e la giustizia riparativa” del Comune, è nata l’idea di leggere in carcere l’elenco delle vittime innocenti di mafia. La direzione del carcere si è fatta promotrice dell’iniziativa, e Libera ha inserito Opera nell’elenco dei luoghi in cui si dà lettura dei nomi.

Al centro del teatro, c’è un leggìo. Sopra, i fogli con oltre novecento nomi. Per oltre un’ora, chiunque tra i presenti può alzarsi e leggere. Il primo a farlo è un detenuto. Raggiunge i piedi del palco e inizia coi primi nomi. «Emanuele Notarbartolo, Emanuela Sansone, Luciano Nicoletti..». Altri si alzano e aspettano al lato della sala il loro turno. Ognuno legge una pagina, poi porta con sè il foglio. «Abbiamo lavorato con fatica perché questo momento di confronto potesse avvenire qui, il primo in un carcere in Italia — dice il direttore di Opera, Giacinto Siciliano — . La sicurezza è anche questo: che le persone s’incontrino e si dicano quello che c’è da dire, con l’obiettivo di restituire a ogni uomo il significato profondo della responsabilità delle proprie azioni. La vera sicurezza nasce quando si abbandona la contrapposizione e si restituisce spazio alla persona. Guardare dentro se stessi è difficile, ma se si capisce che si può cambiare vita, facciamo un servizio alla sicurezza, ma anche qualcosa di più duraturo per la società».

A rappresentare il coordinamento lombardo dei familiari che si riconoscono in Libera, ci sono i parenti di diverse vittime: la madre di Marcella Di Levrano, la sorella e il fratello di Gaetano Giordano, la nipote di Giuseppe Tallarita. Dopo la lettura dei nomi, ascoltano i detenuti che da tempo riflettono sul proprio passato. «Mi sento in dovere di regalare alle persone che hanno avuto i loro congiunti uccisi alcuni beni sequestrati alle mafie — dice Angelo Aparo, lo psicologo che coordina il “Gruppo della trasgressione” — Sono beni che hanno voce per parlare, che non possono restituire la vita a chi è morto, ma possono dare ai parenti delle vittime una gioia, quella di dire che chi ha ucciso è ancora vivo. Dopo aver affogato se stessi nella palude dell’odio e del rancore, oggi sono vivi. Sono beni che i clan hanno usato per uccidere, ma che i clan non sono stati capaci di uccidere: dopo aver cancellato la loro coscienza, l’hanno recuperata».

«Mentre leggevo quei nomi, mi sono tornati in mente quelli che ho ucciso io — confida uno di loro —. La prima volta ho provato soddisfazione, finché sono stato fuori non me ne sono più ricordato. In carcere la nebbia lentamente si è diradata, sono venuti fuori l’uomo che era, i suoi figli. La sofferenza è venuta fuori, ora è un dolore che purifica, ogni giorno ci faccio i conti. Il dolore è di voi vittime e di noi carnefici, ma sono diversi: uno è stato subito, l’altro causato. Voi dimostrate grande coraggio a stare qui a dialogare con noi».

Accanto al detenuto, è seduta una ragazza. «Ho sempre vissuto a Milano, la mafia era qualcosa di lontano, quando mio nonno è stato assassinato in Sicilia, ero piccolina. I miei genitori hanno impiegato un sacco di tempo a spiegarmi cos’era successo. In questi anni ho sentito spesso parlare di perdono, sentivo molta retorica ed ero molto intransigente, perché chi uccide stravolge la vita di una famiglia, di chi c’era e di chi ci sarà. In un incontro ho conosciuto un ex camorrista. Mi ha raccontato la situazione di Scampia, storie a cui non credevo. Sono andata a vedere e ho capito cosa voleva dire quando mi spiegava che i ragazzini lì non hanno scelta. Ho cominciato a capire che il mio dolore non è molto lontano dal vostro. Che nella vita sbagliamo tutti. Forse mio nonno non apprezzerebbe quello che sto facendo. Ho pensato spesso: lui è morto, loro sono vivi. Ma sono venuto per conoscervi, per sentire il dolore di tutti, perché il mio lo conosco abbastanza. Non so se saprò perdonare. Ma sono sicura che ho fatto la scelta giusta».