Carcere di Opera: detenuti e vittime

Da “GIUSTIZIAMI”: Mafia, a Opera i detenuti leggono i nomi delle vittime e incontrano i familiari

Manuela D’Alessandro

C’è il silenzio denso e la ritualità assorta delle cerimonie mistiche. Stanno in coda, stringendo il foglio con la lista. Uno a uno, chi con voce tenue, chi spavalda, si avvicinano al leggio in ferro e pronunciano con cura i nomi, ripetendoli quando inciampano nel pronunciarli.

Il pubblico è diviso a metà: sulla sinistra i condannati in regime di massima sicurezza, a destra quelli che devono scontare pene per reati meno gravi. In tutto sono più di un centinaio. Tra loro i familiari delle vittime e chi li accompagna ogni giorno nelle strade della prigionia.   Arrotolano il foglio, tornano in platea e danno le mani a chi li aspetta, anche agli agenti delle polizia penitenziaria.

“Sono stato combattuto fino all’ultimo perché non me sa sentivo di sporcare quei nomi con la mia voce.  Mi sono detto ‘mi alzo o non mi alzo’, poi alla fine la mia coscienza mi ha suggerito ‘alzati, devi fare qualcosa’”. A Opera va in scena quella che il direttore Giacinto Siciliano, padre dell’iniziativa a cui ha aderito anche ‘Libera’, definisce “una prima assoluta in un carcere italiano”. Alcuni detenuti per reati di sangue salgono sul palco dell’auditorium per ricordare i 940 nomi delle vittime della mafia e, al termine della lettura, incontrano una decina di familiari caduti per mano della criminalità organizzata, dando vita una discussione carica di emozioni e contenuti.

L’idea era nata a settembre durante uno scambio tra la mamma di una ragazza uccisa e dei carcerati nell’ambito delle attività del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano e del Gruppo della Trasgressione.

Quello che provano adesso lo raccontano loro, col viso rivolto ai parenti delle vittime accanto ai quali occupano le dieci poltrone bianche sul palco, vuote durante la lettura.

“Mentre leggevo i nomi, mi sono venute in mente le persone che ho ucciso io. Mi è venuta in mente la prima volta che ho ucciso un uomo e la soddisfazione che ho sentito. Quell’uomo si chiamava Roberto. Fino a che sono entrato in carcere, non mi ricordavo come fosse fatto, poi, dopo il lungo lavoro che ho fatto qui dentro, ho cominciato a mettere a fuoco lui, i suoi figli. In quel momento è cominciata la sofferenza ma anche la purificazione. Il nostro dolore è diverso dal vostro che, come vittime, dimostrate una grande apertura dialogando con noi. Cosa possiamo fare per riparare? Noi del Gruppo della Trasgressione ci stiamo relazionando coi ragazzi in bilico che incontriamo nelle scuole. Questo è il nostro modo per dire che siamo vivi, per dare un senso al nostro passato. Il vostro coraggio è un modo per darci forza”.

“La voce mi tremava, mi sono sentito piccolo piccolo davanti a voi. Quando dall’altra parte c’è chi, come voi, non guarda il reato ma la persona, si avverte una grande forza dentro. La parola perdono è una parola grande, però il dialogo mi fa vivere”.

“Tutti fuori che dicono che ‘dobbiamo morire’ ed è giusto, il pregiudizio ci deve essere, siamo stati condannati. Mi vergogno a stare qua e mi vergognerei a scrivere una lettera alla ragazza figlia dell’ispettore che ho ucciso, a lei che a 12 anni disse in un’intervista che mi perdonava. Ma in carcere possiamo assumerci le responsabilità e crescere”.

“Né perdono, né pentimento”, è il senso di questo cammino, precisa una delle mediatrici del Comune. “Questi percorsi vogliono dare riconoscimento alle persone, sia alle vittime che ai carnefici e dare spazio all’indicibile”.

Il senso lo raffigura in modo folgorante Angelo Aparo, psicologo coordinatore del Gruppo della Trasgressione. “Voglio regalare qualcosa ai familiari delle vittime che sono qui. Dei piccoli beni sequestrati alla criminalità organizzata. Questi beni hanno la voce per parlare, non possono restituire la vita a chi è morto ma possono dare un piacere ai congiunti dei morti perché, dopo essere andati vicini alla cancellazione della loro coscienza, ora l’hanno recuperata e sono stati confiscati alle mafie”.

Eccoli, i familiari che raccolgono questi beni come un tesoro. Marisa, la mamma di una ragazza uccisa: “Da quando vi ho incontrati ho ritrovato mia figlia che è diventata più importante perché mi ha fatto incontrare altri figli. Sentirvi leggere i nomi è stato molto emozionante. Oggi sento mia figlia viva e presente come non l’ho mai sentita”.

Rosy, la nipote di un pensionato assassinato dalla mafia: “Per tanti anni sono stata piena di rabbia verso chi l’ha ucciso, me li immaginavo come dei mostri. Poi, dopo una visita a Scampia suggerita da un camorrista incontrato durante un evento pubblico, ho capito cosa vuol dire quando si dice che lì i bambini non possono scegliere. Ho cominciato a capire che nella vita si sbaglia tutti e oggi, quando ho varcato le soglie del carcere, mi sono sentita male. Ho visto le sbarre dappertutto e ho compreso cosa vuol dire non essere liberi. Sono qui per sentire il dolore di tutti voi perché il mio l’ho già sentito abbastanza”.

Il direttore Siciliano prende l’ultimo microfono: “Voglio provare a dire qualcosa, ma con molta fatica. E’ stato un susseguirsi di emozioni, è stato veramente difficile assistere alla lettura. Dietro chi leggeva c’erano dieci poltrone bianche vuote che a un certo punto si sono riempite. Non posso dire che le vittime abbiano riacquistato la vita, ma la vita è comunque salita su questo palco dando un senso a quello che facciamo. Giovanni Falcone diceva che la mafia sarebbe stata sconfitta quando ogni palermitano avesse appeso un lenzuolo bianco. Oggi le persone che hanno avuto il coraggio di leggere questi nomi erano tante lenzuola bianche”.

Numeri

“Noi siamo numeri”. Così ad un certo punto Romeo, studente del Pia Marta, ci dice di sentirsi. Ci dice che in certe situazioni lui si è sentito considerato un numero e non una persona. Appena Romeo ha comunicato questa sua sensazione le persone presenti hanno provato a capire in che senso si sentisse un numero, cercando di proporgli un’alternativa a questa sensazione, con riletture varie che potessero convincerlo a modificare il suo sentire.

Io ho ascoltato per un po’, ma intanto dentro di me riaffioravano i ricordi di quando anch’io mi sono sentita un numero, un voto, una media, un presente o assente sul registro. Ho deciso di prendere la parola e di dire a Romeo: “hai ragione!” In tantissimi momenti gli adolescenti si sentono un numero e non un individuo, con le sue paure, insicurezze, rabbie e frustrazioni, con la sua sensazione di solitudine.

Ricordo che alle superiori erano considerate persone quelle che erano sempre brave, non si ribellavano mai, facevano i sorrisi agli insegnanti. Io non ero una di queste, non studiavo, ero sempre in conflitto con la maggior parte degli insegnanti, li consideravo degli incapaci che facevano quel lavoro solo per avere uno stipendio a fine mese, non ho mai sorriso gratuitamente a nessuno di loro, il mio sorriso o il mio sguardo lo avevano solo quelli che se lo guadagnavano e credo che in 5 anni si possano contare sulle dita di una mano le volte in cui mi sono lasciata andare ad un sorriso. 

Sono stata un’adolescente abbastanza arrabbiata e rancorosa, ci sono diversi momenti che ricordo in cui gli “adulti” hanno contribuito a far crescere quel sentimento di non stima nei loro confronti, che in parte vivo ancora, ma voglio raccontarvene uno in particolare: eravamo in gita scolastica in terza superiore, stavamo facendo una passeggiata sulla via dell’amore alle 5 terre, io ero con due mie amiche, davanti avevamo il professore d’inglese di una delle altre classi e dietro la nostra professoressa di fisica.

Non ricordo perché ma ad un certo punto io ho cominciato a discutere con l’insegnante d’inglese sul significato della frase “ti amo tanto”. Lui sosteneva che non si può amare tanto o poco, o si ama o non lo si fa. Io sostenevo che l’amore ha diverse forme e diverse fasi e che si può amare tanto, tantissimo o semplicemente amare. Comunque non è questo quello che voglio raccontare.

Tornati dalla gita, mia madre è andata ai colloqui, ovviamente per me il giorno dei colloqui era terribile, venivo sempre sgridata e messa in punizione, anche quella volta andò così… ma mia madre mi disse anche che la professoressa di fisica era rimasta piacevole colpita da come io fossi matura e in grado di tenere una discussione con un “adulto” e che, se avessi usato la metà delle mie capacità anche nello studio, sarei stata sicuramente tra le migliori.

Mia madre mi riferì questa cosa convinta di motivarmi e di darmi uno stimolo per impegnarmi di più, io invece mi arrabbiai così tanto che cominciai a urlare le peggio cose nei confronti dell’insegnante, il fatto che quella che avrebbe dovuto essere una mia professoressa si era accorta dopo tre anni che la Noemi non era la media del 4 che aveva nella sua materia, ma era una ragazza che aveva qualcosa da dire a chi le permetteva di dirlo, fu per me la conferma e l’autorizzazione a continuare a non stimare quelle persone. Ovviamente a me la professoressa non disse mai nulla, né mai cambiò il suo comportamento nei miei confronti, continuò a rimproverarmi e a sfottermi per i miei risultati.

Purtroppo a distanza di 11 anni da questo episodio e da molti altri, mi rendo conto che l’unica ad essere stata punita sono io, ho vissuto male, ho sofferto e ho dovuto fare verifiche su verifiche per recuperare i voti e non essere bocciata, la professoressa ha continuato a vivere e a lavorare nella più completa tranquillità, e al fianco della sua totale incapacità di fare il suo mestiere.

Siamo numeri, lo siamo stati e lo saremo in moltissime situazioni, ma non lo siamo per tutti. La vita ci dà tantissime possibilità di essere riconosciuti come persone, con qualità, difetti, risorse e conflitti. Oggi mi sento un numero in molte situazioni, ma in altre tante mi sento Noemi.

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Il Gruppo Trsg al Piamarta

Milano, 6 Marzo 2017

Oggi è stata una giornata particolarmente importante e ricca di emozioni per il nostro gruppo. Ci siamo infatti cimentati in nuova sfida, con detenuti e studenti coinvolti in prima persona nella conduzione del Gruppo della Trasgressione senza la presenza del prof. Aparo.

Il tutto si è svolto questa mattina all’Associazione Formazione Giovanni Piamarta, un’associazione senza fini di lucro che ha lo scopo di svolgere attività di educazione e formazione, con particolare riguardo ai giovani e ai lavoratori, curandone la crescita umana e professionale. L’Ente realizza Corsi di Istruzione e Formazione Professionale, destinati a ragazzi in obbligo formativo; Corsi di Formazione Superiore, destinati a diplomati e laureati; Corsi di Formazione Continua e Permanente, destinati a soggetti occupati, inoccupati e disoccupati.

La collaborazione tra il Gruppo della Trasgressione e l’Associazione nasce dalla necessità di intervenire in una realtà difficile ma purtroppo sempre più comune: l’adolescente inserito in un contesto familiare e sociale precario, in cui i fattori di rischio superano di gran lunga quelli di protezione.

Questo progetto ha avuto luogo grazie alla fiducia del Rotary Club Milano Duomo, che ha completamente finanziato il progetto, credendo nell’utilità del confronto e dialogo tra detenuto/studente e studenti della suddetta scuola.

Pe noi è stata una grande vittoria. È bello toccare con mano che il nostro gruppo va consolidando giorno dopo giorno un metodo di intervento che va oltre le mura del carcere. La nostra vittoria non è stata solo con gli studenti ma è stata, soprattutto, l’esperienza di viverci come gruppo, con un metodo di lavoro e con un obiettivo.

Ecco come abbiamo impostato la giornata. Fra studenti del Piamarta e componenti del gruppo Gruppo della Trasgressione eravamo una trentina; ci siamo divisi in due gruppi composti da circa 15 persone. L’obiettivo ultimo di questi incontri è quello che ciascuno di noi riesca a narrare la storia dell’altro.

Nel gruppo dove ero presente anch’io, i ragazzi erano particolarmente “ermetici”. La prima parte dell’incontro è stata difficile da gestire. Massimo Moscatiello, detenuto del gruppo, ha cercato, in diversi modi, di oltrepassare il loro muro, ma la loro risposta era sempre la stessa: “non ho voglia di raccontare i fatti miei a degli sconosciuti!”

Ci guardavamo tra di noi e dai nostri occhi traspariva la difficoltà. Dopo circa 90 minuti, in accordo con l’educatrice, si decide di fare una “pausa sigaretta”. Quello è stato il momento in cui abbiamo avuto la possibilità di avvicinare i ragazzi singolarmente ed è stato molto meno difficile di quanto immaginato: ciascuno di loro fremeva dalla voglia di raccontarsi ma aveva paura del giudizio del gruppo; singolarmente, invece, è stato molto più semplice. Una volta rientrati dalla pausa, abbiamo deciso di cambiare metodo d’azione; anziché interrogare loro, abbiamo iniziato, noi del gruppo, a raccontare parte della nostra storia.

Ho percepito dal gruppo un estremo interesse e una partecipazione che prima non era così palpabile. Hanno iniziato a interagire attraverso domande e dubbi. Dopo hanno anche iniziato a raccontare parte delle loro storie, vite così giovani ma già così segnate da ingiustizie e sofferenze.

Mascia è stata la prima a rompere quel muro, la prima a dar l’esempio agli altri, la prima ad ammettere che per lei raccontarsi è estremamente difficile perché ha la costante sensazione di non essere adeguata, di essere sbagliata e, dunque, di essere giudicata. Ma oggi è stata bravissima; si è raccontata nella maniera più sincera e profonda che poteva, senza preoccuparsi che quelle persone che aveva davanti avrebbero potuto giudicarla. No, invece era orgogliosa di ciò che stava facendo e si sentiva libera di poter essere se stessa.

Quasi tutti i ragazzi hanno raccontato pezzi della loro storia. L’unico che lo ha fatto in modo originale e alternativo al resto del gruppo è stato Aldo. Personalmente, sono rimasta molto colpita da questo ragazzo. Aldo ha 17 anni, si presenta come un ragazzo sorridente e sicuro di sé ma, allo stesso tempo, strafottente e arrogante. Il suo “racconto” è stato: “non racconto mai nulla di me perché gli altri non capiscono nulla. Io sono il migliore e le poche persone che abitano la mia vita sono le uniche degne di rispetto; il resto, in quanto esseri inferiori a me, merita di essere maltrattato!”

A me, con il suo intervento, ha comunicato tantissimo. Come raccontavo anche a lui, mi ricorda l’adolescente che ero io. Anch’io, come lui, mi atteggiavo con sicurezza e superiorità, il mio motto appena entravo a scuola era: “io sono la migliore!” solo pochi meritavano il mio rispetto e quei pochi solitamente coincidevano con le persone che mi “rispettavano”.

Ai tempi il mio concetto di rispetto era un po’ diverso da quello di oggi. Il rispetto, come Aldo, lo pretendevo attraverso l’unico strumento che avevo: la mia aggressività. Allora non capivo che il modo di interagire con gli altri, altro non era che un bisogno smodato di trovare un mio spazio nel mondo, che evidentemente non sentivo di avere. Era la mia fragilità che mi obbligava a ricoprire il ruolo della bulla, di colei che doveva sempre intromettersi nelle situazioni irrisolte che non mi riguardavano; eppure la cosa mi divertiva e mi faceva sentire realizzata.

Non sapevo cercare il mio spazio né dar voce alla mia intelligenza, alle mie capacità relazionali. Come Aldo, anch’io avevo pochi amici, non perché gli altri non fossero abbastanza per poter stare con me, ma perché erano gli altri che non volevano stare con me. Chi vuole come amica un’adolescente sempre incazzata che sottomette gli altri?

Credo che la vittoria più grande per il gruppo si chiami anche Aldo. Siamo riusciti a instillare nella sua mente delle domande, dei grandi punti interrogativi che sono certa che si porrà anche quando tornerà a casa e tutte le volte che avrà voglia di riflettere su di sé. Spero che nei prossimi incontri cerchi insieme a noi delle risposte a questi interrogativi che adesso abitano la sua mente. Ma qualora questo non avvenisse, credo che il suo sia stato comunque un grandissimo passo.

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Dal Gruppo Trsg 2001

Caro Dott. Aparo,

sono Salvatore M., membro del “Gruppo della Trasgressione” 2001/3 a San Vittore. Spero ti ricordi di me, io non posso dimenticare dell’aiuto ricevuto durante la detenzione, dal gruppo della trasgressione e in particolare dal suo coordinatore, un aiuto di cui ho beneficiato anche nella post-detenzione, utilizzandolo per il mio reinserimento nella società.

Sono entrato in carcere convinto che prevaricare la libertà degli altri, sottrarre i beni altrui, fosse un mio diritto, un diritto derivante dal mio vissuto, una storia di povertà e privazioni; ritenevo giusto, quasi doveroso, appropriarmi di ciò che non avevo mai avuto sottraendolo a chi, invece, aveva sempre avuto.

Il gruppo della trasgressione, attraverso gli incontri e i confronti, sviscerando e analizzando punti di vista diversi a riguardo dei comportamenti trasgressivi, mi ha portato a comprendere che il confine della mia libertà non è un limite, bensì è il terreno d’incontro e arricchimento personale, è un luogo per capire come progredire, accogliere, ricevere, donare, conoscere.

Ho capito il senso profondo del rispetto dell’altro chiunque esso sia, di qualsiasi nazione, religione, colore, ceto sociale, senza pregiudizio verso chi mi ha condannato, né verso chi mi ha arrestato. Il rispetto va dato all’uomo e alle regole sociali che appunto regolano i rapporti di un popolo.

Tra un mese compio dieci anni da uomo libero e rispettoso delle regole, nel frattempo mi sono messo a lavorare, mi sono sposato, ho un figlio di dieci anni, non soffro la mia modesta condizione economica, invece sono ricco del piacere della vita dato dalla famiglia, dal lavoro e dalla bellezza della natura; vivo in un posto di mare ed è lì che navigo con la fantasia e mi arricchisco di creatività.

Oggi a Bollate è detenuto mio fratello Giuseppe, impegnato in un percorso di studio universitario, avrei molto piacere se tu lo coinvolgessi nel gruppo della trasgressione, perché, sono certo, farebbe bene anche a lui confrontarsi.

Se la mia esperienza detentiva può essere un contributo al gruppo, sono a tua disposizione.

Possibilmente estendi la mia affettuosa stima alla Dott.ssa Patruno e al Dott. Pagano. Grazie

Con profonda stima Salvatore M.

Vascello

C’è chi lo chiama zattera, chi nave. A me il Gruppo piace immaginarlo come un vascello che solca i mari della vita. Il vascello della Trasgressione ha un equipaggio composito. Studenti e detenuti, laureandi ed ex detenuti, liberi cittadini diversi per sesso, formazione, età, caratteri somatici e culturali. Lo definirei un vascello perfetto per un mondo globalizzato qual è il nostro. Questo vascello ha anche un capitano gagliardo, attento a cogliere la minima turbolenza del mare e del vento, ad avvertire le inquietudini e le aspettative della ciurma e ad impartire gli ordini appropriati.

Tutto l’equipaggio è importante, perché è composto di esseri umani. Alcuni hanno avuto una vita fortunata, sono stati amati e apprezzati e hanno trovato naturale studiare e impegnarsi e amare a loro volta. Altri hanno avuto una vita dura, sono stati abbandonati o trascurati, sono ancora alla ricerca di sé e del proprio posto nel mondo e non sempre viene loro naturale studiare e impegnarsi e amare, proprio perché nessuno li ha amati o perché non ne avvertono il senso.

Per questo siamo insieme, per capire insieme che vale la pena studiare e impegnarsi e amare… non solo “anche se non siamo stati amati” ma soprattutto “per il fatto che non siamo stati amati”. Amare è l’unico modo per non avvitarsi su se stessi. Nessun membro dell’equipaggio è inutile, perché ogni essere umano ha una sua individualità, preziosissima proprio perché unica.

L’effetto che ogni componente del gruppo produce sugli altri va oltre quello che la persona pensa o si prefigge. Qualche mese fa abbiamo letto lo scritto di un componente detenuto del gruppo. Mi aveva colpito l’incipit: “Mi affaccio al gruppo“.

Ne avevo sorriso e mi era subito venuto alla mente l’oculo della camera degli sposi nel Palazzo Ducale di Mantova. L’oculo è un disegno ovale al centro di una cupola che simula un’apertura sul cielo azzurro, (in realtà inesistente) a cui si affacciano dall’esterno alcuni amorini ricciuti e sorridenti che sporgono la testa e guardano in giù, con espressione maliziosa e dolce.

Quegli angeli somigliano all’autore dello scritto e non solo perché si affacciano, non solo perché sono ricciuti e sorridenti e dallo sguardo un po’ malizioso, ma soprattutto perché la dolcezza dei loro volti assomiglia alla dolcezza dell’espressione che talvolta lui ha e che non aveva appena arrivato.

Egli talvolta è dolce e contento, vorrei quasi dire appagato, come se approdare al gruppo per qualche ora gli permettesse di sentirsi al suo posto. Lo sguardo che prima era un po’ bellicoso ora è solo fiero, ma di una fierezza non tracotante. E’ un bello sguardo.

Gli ho sentito dire un’altra frase mi aveva colpito: “mi sento preso a braccetto”. E’ una bella frase, esprime una bella sensazione e trasmette un’emozione positiva. Riesce a smussare un po’ l’altra, quella in cui dice che… l’impotenza per la sofferenza subita, cui è stato ingiustamente sottoposto, l’ha indotto a una ribellione pervicace e insensata che gli ha rovinato la vita.

Questo scrivevo mesi fa. Ma i flutti della vita sono tempestosi e le vele che prima si gonfiavano al vento si sono afflosciate e ora non potrei più scriverlo. La sofferenza ha ripreso il sopravvento, l’autore sembra essersi arenato, pare non riuscire più a prendere il largo, trattenuto dalla risacca della rabbia, non vede più l’orizzonte e non sente più la vicinanza degli altri.

Ma si sbaglia. Con lo studio e l’impegno le vele torneranno a gonfiarsi e la navigazione potrà riprendere. Posso promettergli che non ci saranno altre derive o tempeste? Purtroppo no. Posso però ricordargli che ci sarà il vascello a tenerlo, motivarlo, orientarne le energie, se lui sarà parte dell’equipaggio.

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Gruppo Trsg Esterno – 18/10/16

Verbale 18/10/16
Roberta Rizza

Gli argomenti discussi durante la riunione del Gruppo della Trasgressione, tenutasi all’ASL di Milano in Corso Italia 52, hanno toccato tematiche differenti e trasversali.

Il primo argomento, più di carattere formativo-educativo, è partito quando il dottor Aparo chiese a una tirocinante quanto facesse 12×12. La domanda, che ha incuriosito un po’ tutti i presenti, ha dato luogo a una riflessione molto interessante. L’interrogativo posto, apparentemente fuori luogo, e soprattutto la reazione della tirocinante, che decise di non rispondere, furono emblematici per il discorso che ebbe vita successivamente.

Con quell’aneddoto il dottor Aparo voleva dimostrare come spesso si tende a fuggire davanti alle difficoltà, sottraendosi alla possibilità di cercare in maniera creativa una soluzione al problema. Inoltre, ciò che con quella domanda cercò di dimostrare fu che non solo i detenuti ricorrono a escamotage e vie di fughe per non dover affrontare il problema, ma che può accadere a qualsiasi essere umano di preferire l’astensione piuttosto che fronteggiare una situazione critica.

Successivamente il dottor Aparo ha raccontato che la mattina precedente alla riunione, aveva avuto un colloquio con un detenuto e che questo si era concluso a causa della medesima domanda, che aveva posto il ragazzo in un atteggiamento difensivo, scegliendo di andare via piuttosto che cercare di risolvere il problema matematico. Il detenuto in questione aveva espresso, durante il colloquio, il desiderio di poter costruire, una volta uscito dal carcere, una nuova vita lontana dall’illegalità e che il suo obiettivo ultimo fosse quello di lavorare onestamente e guadagnare cinque mila euro al mese.

L’osservazione del dottor Aparo spalancò le porte a un’ulteriore riflessione: il voler perseguire a tutti i costi un obiettivo meramente materialistico, distrae e allontana l’uomo dal vero senso della vita e della realtà. Ricercare costantemente e incessantemente attività che portino a un guadagno di denaro, acceca il singolo e lo rende incapace di godere delle bellezze naturali della vita che esulano da ciò che può essere acquistato, come la contemplazione di un campo di margherite, di un tramonto al mare, della profondità degli occhi di un bambino.

Inoltre, il dottor Aparo sottolineò la pericolosità di questo atteggiamento e di come questo si elevi all’ennesima potenza quando ad avere questo “sogno” è un detenuto, condannato per detenzione e spaccio di droga, ovvero un reato che ha di per sé a che fare con il guadagno dei cosiddetti “soldi facili” e che, paradossalmente, davanti al problema matematico risponde fuggendo.

La rieducazione personale e sociale dei detenuti, che si fonda sul concetto di “riscatto”, può aver luogo se a ciascuno è offerta la possibilità di interiorizzare un modello di autorità vicario, credibile rispetto a quello avuto in passato, che preveda a sua volta un cambiamento di prospettiva che vada da “il fine giustifica i mezzi” a “non sempre il fine può giustificare i mezzi”. In un percorso riabilitativo alla legalità proporsi come fine il guadagnare tanto e subito, condurrebbe il detenuto a ricadere in un pattern comportamentale che ha già messo in atto in passato, l’unico che conosce e che lo ha già condotto a trasgredire dalle regole della società in cui vive.

Dunque il messaggio che il dottor Aparo ha cercato di veicolare durante la riunione, fu quello di vivere godendo delle meraviglie offerte dal mondo che ci circonda, anche di quelle più piccole. Imparare a vivere non coincide con l’essere ricchi economicamente; rincorrere il denaro è un pericolosissimo fine che, alle volte, conduce il singolo a ricorrere a mezzi scorretti e sleali. Il messaggio aveva il fine di invitare ciascuno a mettere in discussione i propri obiettivi: uscire dal carcere con il “sogno” di diventare ricco lealmente, oltre che improbabile e difficile, è anche molto pericoloso, in quanto quasi mai si realizza ed è possibile cedere nuovamente a quel vortice di cui, nelle riunioni precedenti, è stato più volte citato dai detenuti stessi, costruendo una sorta di anticamera all’illegalità.

Successivamente è stato affrontato un altro argomento più di carattere organizzativo, che ha visto la partecipazione attiva di tutti i detenuti e non. Giorno 29 Ottobre, il gruppo parteciperà a un evento al parco di Rho in occasione del suo compleanno. L’obiettivo della partecipazione all’evento ha l’obiettivo di far conoscere ai cittadini l’operato della Cooperativa Trasgressione.net e, contemporaneamente, pubblicizzare il lavoro dei detenuti. Durante la riunione è emersa la forte complicità di tutti i partecipanti nei confronti della Cooperativa ma, soprattutto, la forte volontà di ciascun detenuto a essere promotore di se stesso e parte attiva al progetto. Come in un brain storming, inizialmente si è discusso della parte maggiormente creativa, proponendo ciascuno la propria idea rispetto alle attività pratiche da presentare all’evento; successivamente ci si è focalizzati sulla parte organizzativa, dunque sul come mettere in pratica queste idee, quali strumenti utilizzare per renderle quanto più realizzabili e particolari, così da poter catturare l’attenzione dei vari visitatori. L’attività pare aver coinvolto ed eccitato la maggior parte dei presenti, ma il tempo era insufficiente per organizzare il tutto di cui si discuterà alla prossima riunione.

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Invito per Isabella Bossi Fedrigotti

Gentilissima Dottoressa Isabella Bossi Fedrigotti,

siamo i detenuti componenti del “Gruppo della trasgressione” attivo nel carcere di Milano Opera. Le scriviamo per ringraziarla per l’attenzione a noi dedicata attraverso il suo articolo sul Corriere della Sera del 18/9/2016 e, in particolare, per il suo commento sull’incontro che abbiamo avuto con la signora Marisa Fiorani, mamma di Marcella, assassinata dalla criminalità organizzata.

La sua riflessione contribuisce ulteriormente a favorire quei sentimenti di ravvedimento e autocritica con i quali ognuno di noi si confronta con il proprio passato distruttivo. La testimonianza e il dolore che la signora Marisa ha voluto consegnarci scuote e allarga le nostre coscienze. Il Cardinale Martini disse “se non si è capaci di percepire il dolore dell’altro, non si può uscire dalla spirale di odio e violenza”.

Noi detenuti, colpevoli di gravissimi reati contro il prossimo e contro la società, grazie anche all’insostituibile laboratorio di riflessione qual è il “Gruppo della trasgressione”, lo facciamo riconoscendo e condividendo il dolore dell’altro, riconoscendo e condannando la scelleratezza del nostro passato.

I mattoni di quella corazza di delirio e di indifferenza, che a suo tempo c’eravamo creati, oggi stiamo imparando a utilizzarli per costruire ponti di dialogo e di confronto con persone come la signora Fiorani e come lei.

Saremmo pertanto felici se Lei volesse essere nostra ospite al tavolo del “Gruppo della Trasgressione” a uno degli incontri che noi abbiamo tutti i mercoledì mattina qui nel carcere di Opera. Ascoltare le sue riflessioni e confrontarci con Lei sarebbe per noi una rinnovata possibilità di crescita culturale e morale.

Infine, in quella stessa circostanza, potremmo invitare la sig.ra Fiorani e il dott. Paolo Foschini, ai quali dobbiamo la fortuna di avere destato la Sua attenzione verso la nostra realtà.

Milano Opera 29/9/2016

Cordiali saluti
Il “Gruppo della trasgressione


 

Marisa, una breccia tra gli ergastolani

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Alto & Basso di Isabella Bossi Fedrigotti
MARISA, UNA BRECCIA TRA GLI ERGASTOLANI


Gli alti e i bassi secondo la prospettiva e la sensibilità di ciascuno. Si apre da oggi uno spazio domenicale dedicato a commentare il bello e brutto della città. E nelle pieghe della cronaca di questi giorni ci piace ripescare storia di Marisa Fiorani.

fedrigotti2Saranno a Milano più gli alti o i bassi, i chiari o gli scuri? Dipende probabilmente anche da come si guarda, da quale prospettiva e, forse, con quale stato d’animo. C’è infatti chi trova imperdonabile qualcosa che un altro nemmeno nota. E c’è chi per gli aspetti positivi della nostra città proprio non riesce ad avere né occhio né orecchio: sogna Barcellona, Parigi, Berlino, Vienna, Londra e a Milano gli sembra di vivere in un incivile, arretrato borgo selvaggio.

Questo spazio domenicale vorrebbe servire a segnalare e commentare il bello il brutto della città, le ragioni di ottimismo come quelle che giustificano disappunto, rabbia, frustrazione. Nel caso che prevalgano gli alti, resoconti, cioè, di situazioni e avvenimenti che lasciano ben sperare, ciò dipende dal carattere di chi scrive tendente all’ottimismo. Ma possono stare tranquilli pessimisti, perché non mancheranno purtroppo notizie in grado di nutrire ampiamente il loro catastrofismo. E avendo per cinque anni scambiato ogni giorno posta con i lettori, so bene che sono i migliori cronisti del brutto, dell’insensato, dello scandaloso; più raramente del bello e del buono, ma si sa che più della contentezza  e della soddisfazione sono delusione e collera che inducono a rivolgersi alla posta di un giornale.

Paradossalmente, il primo avvenimento positivo che vorrei commentare è legato a una vicenda di pesantissima criminalità. Se ne è scritto una settimana fa in queste pagine, ma vale la pena riscrivere perché ha qualcosa di straordinario, di irreale, di miracoloso, quasi.

Potevo forse succedere in qualsiasi altra città, ma è successo a Milano, segno che qui c’erano i presupposti necessari perché potesse avvenire. Marisa Fiorani, pugliese, mamma di Marcella, massacrata venticinque anni fa a colpi di pietra per mano di esponenti di clan malavitosi, ha incontrato nel carcere di Opera –  come ha riferito in queste pagine Paolo Foschini – un gruppo di una ventina di ergastolani mafiosi pluriomicidi.

Davanti a loro ha parlato del suo lungo, inconsolabile dolore e invece di incontrare, come ci si poteva aspettare, un muro di indifferente, corazzato silenzio, una breccia si è aperta. E’ come se da quel muro fosse caduto prima un mattone, poi, lentamente, un altro e poi ancora un terzo. Quegli uomini che hanno ammazzato anche in modo crudelissimo, alcuni così tante volte che nemmeno si ricordano quante, che per forza di cose immaginiamo del tutto privi di umanità, hanno parlato, hanno raccontato le loro tragiche storie di crimine e di morte; qualcuno ha chiesto scusa, qualcuno è andato ad abbracciare Marisa.

Miracolo della parola reso possibile in questo caso grazie all’iniziativa del Gruppo della trasgressione attivo nelle carceri milanesi e dell’associazione Libera contro le mafie.

18 settembre 2016


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Volantini appesi nel cortile di filosofia, dell’Università Statale, in ricordo delle vittime di mafia e per la giornata dell’impegno e della memoria (Fotogramma)
Marisa Fiorani e Pisapia agli Ambrogini 2013: ritirò il premio alla memoria di Lea Garofalo (Fotogramma)

Marisa Fiorani e Pisapia agli Ambrogini 2013: ritirò il premio alla memoria di Lea Garofalo (Fotogramma)

È stato organizzato nell’ambito delle attività promosse dal Gruppo della Trasgressione che lo psicologo Angelo Aparo manda avanti in carcere da anni non solo a Opera ma anche a Bollate e San Vittore. A favorirlo un pm antimafia, Francesco Cajani, insieme con il lavoro congiunto di Libera — l’associazione contro la mafie fondata da don Ciotti — e del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano. Il cui obiettivo principale, come spiegano Federica Cantaluppi e Luana De Stasio che per questo Centro lavorano, è quello di favorire l’incontro tra vittime e autori dei reati. Non tanto alla ricerca di parole pur profondissime nella loro essenza ma qui banali e addirittura irritanti nei luoghi comuni che evocano, quali «perdono» o «scuse», ma in qualcosa che la signora Marisa sintetizza «a modo mio, perché non so parlare difficile: io mi porto il mio dolore da ventisei anni ma so che anche voi che state qui dentro avete il vostro, forse parlarci può aiutarci tutti».

Un impegno lungo e fatto di tanti avanti e indietro, sottolinea Federica, che richiede pazienza e delicatezza. Ma che alla fine ha prodotto, per esempio, un esito come quello di questa mattina a Opera. I detenuti non lo sapevano che oggi avrebbero incontrato Marisa. Per loro era la riunione settimanale solita. Ma anche per lei è stata la prima volta. Con tutto che aver trasformato la sua tragedia in impegno, nel suo caso, non è storia di adesso: da molto tempo la va raccontando nelle scuole e tre anni fa era stata lei a ritirare l’Ambrogino alla memoria di Lea Garofalo, altra uccisa per essersi ribellata alle cosche, a nome della figlia Denise.

E così adesso eccoli che le parlano, questi uomini. Come appunto Squillaci che dice «a fare i miei primi omicidi a Catania mi ci mandava mio padre». Che dice ancora «è terribile ma il problema del dolore altrui non me lo ponevo proprio, neppure quella volta che avevo ucciso e seppellito uno di cui conoscevo bene la madre e quando la incontravo e mi diceva “secondo te che fine ha fatto mio figlio?” le rispondevo “vedrai che tornerà” senza fare una piega e solo qui, dopo tanti anni, ho capito che anche uno come me può cambiare». O come Rosario Casciana, di Gela, che ora ha 45 anni e «sono in carcere da quando ne ho 19 per avere ammazzato più volte, anche io, e quando avevo una pistola in mano non pensavo a nulla, e dirlo ora mi fa impressione». O altri che il loro nome non lo dicono, come quest’altro killer che «ho 54 anni e ho chiesto tante volte di incontrare i parenti di quelli che ho ucciso, senza averlo mai ottenuto e li capisco… perché io appartenevo allo stesso tipo di mondo che ha ucciso sua figlia — dice a Marisa — e per questo anche se non sono stato io mi sento colpevole anche per lei, e le chiedo scusa». Così tanti altri ancora.

Marisa dice che «ai processi, dove ho fatto l’errore di non costituirmi parte civile, non ho mai chiesto una vendetta ma la verità». E si capisce che questo sarebbe un altro, lungo, discorso su quel che chi sta in carcere per mafia potrebbe raccontare dopo avere chiesto scusa. Ma non è questo il senso dell’incontro di oggi. Che finisce così: «Non finiamola qui».

10 settembre 2016

Noi, oggi, in cerca di senso

Alberto Marcheselli

Il Gruppo della Trasgressione è composto da detenuti e studenti (solitamente di psicologia) che si incontrano settimanalmente e che si confrontano su diversi temi: filosofia, arte, psicologia, tossicodipendenza, devianza, vita. Un gruppo solitamente attraversato dai malesseri e dai problemi di tutti i membri, che però di queste inquietudini e problematiche cerca di fare un punto di forza, un fulcro su cui azionare la leva della comprensione.

Gli incontri procedono secondo uno stile singolare, dovuto all’ideatore del gruppo, che da circa 35 anni lavora in carcere e che da circa 20 lo conduce. Egli si presenta all’inizio di ogni incontro parlando in maniera libera e, apparentemente, senza un collegamento con i temi del gruppo, ma ogni volta il discorso centra concetti e problematiche tali e raggiunge toni così profondi da diventare filosofia (gratis).

Il resto viene da sé, le persone iniziano a parlare, qualcuno interviene con l’umanità e la fisicità di quello che dice, con la ricchezza che arriva dall’esperienza e dalla tragicità di certe vite; qualcun altro è più amico delle parole e si esprime in modo chiaro e corretto, gli studenti si uniscono ai detenuti, i detenuti agli altri detenuti, ognuno in mostra con le sue debolezze e fragilità, ma anche con il carattere e la rabbia che ne fanno ciò che è.

Di sicuro non è il posto dove passare qualche ora di svago: ci vuole pazienza, costa fatica, ci si innervosisce, qualche volta aiuta a stare bene, spesso a stare male. Perché? Perché è un posto in cui si crea pensiero e il pensiero, si sa, non sempre regala l’immagine di sé che si desidera.

Il confronto con se stessi genera conflitto e il conflitto malessere, eppure non conosciamo miglior metodo per emanciparsi dal passato, per emergere dal proprio background, crediamo che al Gruppo della Trasgressione si vivano dei rapporti autenticamente orientati verso l’evoluzione della persona e si raggiungano livelli di consapevolezza veramente unici.

La nota dolente è che il gruppo è troppo subordinato al suo ideatore, tanto che è difficile immaginarlo senza la sua guida, almeno non nella forma attuale e che tanto ci piace. Se il dott. Aparo non trova il modo di farsi clonare, speriamo che qualcuno abbia voglia e modo di imparare come seguirne la traccia.