I fratelli Karamazov a Bollate

Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, da effettuare entro il 2 marzo 2024 su lostrappo.net/karamazov

I Conflitti della famiglia Karamazov

Non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio

Con le canzoni di quale autore potrebbero interloquire al meglio i “trasgressivi”, coloro cioè che hanno infranto le regole del sistema sociale catapultandosi nell’angustia di una muta cella?

Con chi se non col cantautore che da sempre conosciamo vicino ai ratés, ai derelitti, agli ultimi insomma, colui che prefigura un Dio compassionevole ed auspica una suddivisione del bene e del male in parti uguali fra gli umani, colui che ha nome Fabrizio De André e con la sua produzione poetica si è meritato un posto nell’olimpo della Treccani?
“Gli occhi grandi color di foglia” è un verso tratto da una delle prime e più note composizioni di questo grande esegeta dell’amore, Via del campo.
Solo un animo sensibile come il suo ha potuto conferire un aspetto idilliaco nella sua evanescenza a chi si presta ad un rapporto mercenario: la “sua” puttana diventa infatti ora bambina, ora graziosa e suscita addirittura il desiderio di farsi sposare. Il tutto perché De André, nonostante le sue origini borghesi, sa bene che non nel denaro ma nel fetore della vita umile ma vera va cercato l’humus che dà origine ad ogni forma di bellezza.
Ascoltate con empatia il concerto, subitene il fascino catartico e, soprattutto, non abbiate paura del destino della diversità perché, per dirla sempre con Faber, “non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”.

Siamo tutti fratelli Karamazov

Le parole del dottor Cajani mi hanno dato modo di riflettere. Condivido con lui la sorpresa nell’osservare lo stile di guida del dottor Aparo. Uno stile unico, direi quasi sincopato, a volte apparentemente disordinato, ma che alla fine ti porta con piacevole sorpresa dove sapevi o almeno intuivi di dovere andare, ma non sapevi di starlo facendo, ancora.

Sarà forse il callo della professione, ma c’è un incredibile invito alla ricerca di significato nel percorso guidato che stiamo compiendo insieme.
La ricerca di senso è sempre stata per me il rifugio sicuro di ogni esperienza ed anche in questo progetto sento oggi di aver intravisto la strada, maieutica, verso questo locus amoenus.

Mi sono chiesto, allora, perché. Il perché della domanda ‘chi è il protagonista de I fratelli Karamazov?’. La domanda è semplice, la risposta è complessa, lo scopo porta ad affacciarsi sul contesto dialogico della nostra ricerca.
Nella critica letteraria le risposte alla domanda si avvicendano. E non senza ragione. Molte sono già state date e molte ancora, probabilmente, verranno.
Sarebbe forse corretto parlare del carattere polifonico del romanzo che esplorando le diverse prospettive dei fratelli e del padre, Fedor Pavlovic, racconta la complessità dell’esperienza umana in ogni aspetto che ognuno dei personaggi rappresenta. Ed è tenendo questo bene a mente che suggerisco una diversa risposta.

I protagonisti del ‘nostro’ I fratelli Karamazov siamo proprio noi, nelle nostre complessità, nelle nostre esperienze, nelle nostre diversità.
In questa risposta inizio a rivedere le tappe del nostro tragitto.
Ci vedo il credito che ognuno potrebbe vantare verso gli altri, il modo di affrontarlo, infinitamente diversificato da individuo ad individuo, declinato in una serie di aspetti ed esperienze che colorano la crescita di ciascuno.
Ci vedo tutte le soggettive letture del mondo, degli errori, e del modo di affrontarli.
Ci vedo la necessità di ricomporre tutte le pagine strappate, per leggere il libro nell’insieme, di ascoltare le voci di chi ha fatto e di chi ha subito, per iniziare a capire e per non sbagliare più.

Dostoevskij ha bisogno dei suoi personaggi principali per raccontare la complessità della società russa, dei temi della morale, della religione, della libertà, della ricerca del senso della vita esattamente come noi tutti siamo i necessari protagonisti del nostro racconto.
Il tutto di cui siamo parte si scopre soprattutto nell’altro. La difficile presa di coscienza della comunità di destino di cui siamo i pezzi è il percorso per riscoprire una diversa composizione dei conflitti, che parta e sia fondata sul riconoscimento dell’altrui dignità e sullo sperimentare un’Esperienza contraddistinta dalla fiducia.

Siamo tutti fratelli Karamazov, tutti insieme protagonisti della Nostra storia.

Vincenzo Caragnano

I Conflitti della famiglia Karamazov

Gli occhi grandi color di foglia

Concerto Trsg.Band
Sabato 2 marzo 2024 – 21:00

Teatro Civico Roberto De Silva – Rho

Una selezione delle canzoni di Fabrizio De André combinate con le riflessioni dei detenuti del Gruppo della Trasgressione sui loro periodi più bui e sul lavoro di questi ultimi anni con i componenti esterni del gruppo.

La serata prende il nome da un verso di Via del campo, una delle prime e più note canzoni di De André. Una bambina e una puttana vivono entrambe in Via del Campo, tanto vicine l’una all’altra da far germogliare fiori, illusioni e speranze d’amore in chi va a trovarle. La prossimità fra l’una e l’altra c’è, ma per coglierla occorrono occhi grandi color di foglia, capaci di accettare parentele nascoste fra personaggi apparentemente incompatibili.

Scritta in collaborazione con Enzo Jannacci, Via del campo invita al dialogo con ciò che a una prima lettura sembra distante e privo di valore; la canzone è un’anticipazione del tema che rimarrà il filo conduttore di tutta la produzione poetica di De André: l’importanza della comunicazione con le proprie parti dimenticate o negate, cioè con quegli errori, fragilità, insicurezze o, come dice la canzone, con quel letame da cui possono nascere progetti e riconoscimento reciproco fra persone diverse. 

Juri Aparo dal 2005 incrocia le canzoni di De André con i temi e la ricerca del Gruppo della Trasgressione  che opera a Milano dentro e fuori dal carcere e di cui è il coordinatore.

Non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio

Gli interventi e del canzoni del concerto a Rho

  • Princesa

Uno specchio

Ho pensato subito che fosse un oggetto scelto magistralmente in quanto molto scenografico e simbolico nella nostra analisi de I fratelli Karamazov; uno specchio in cui due fratelli, che stavano rispettivamente ai lati opposti del nostro quadrato, si potessero rivedere l’uno nell’altro, in un incontro nuovo.

Seduta in un angolo del quadrato, come chi timidamente si affaccia ad un’esperienza intensa ma che vuole con tutte le sue forze vivere, vedevo inizialmente riflesso – secondo leggi della fisica che, come quasi tutti gli studenti di giurisprudenza, non comprendo – il volto di chi mi stava di fronte.

Poco dopo l’inizio dell’incontro, tuttavia, ho iniziato a scorgere qualcos’altro: un viso familiare ma dai confini sfumati, che, per quanto mi concentrassi, non riuscivo a tracciare in maniera definita.

Non era solo il fatto che fosse uno specchio giocattolo: non riuscivo a riconoscere quel volto. Continuando a seguire il discorso che dipanava la matassa intorno a me e intorno ai capitoli del romanzo, l’immagine si è via via definita, fino a restituirmi il mio stesso viso.

Non è facile ricomporre il volto di se stessi, analizzare quello che siamo, venire a patti con il proprio vissuto e con come si è vissuto, accettare chi siamo diventati e perché.

Per Dimitrij è accettare di essere più simile al padre di quanto desidererebbe; per Alesa il rassegnarsi al fatto che il suo conforto e compagno di vita è un Dio intangibile; per Ivan il cercare qualcosa che non c’è mai, e che se c’è non sembra volersi affiancare a lui; per Smerdjakov capire di essere diverso dai fratelli.

L’immagine nello specchio sorride con una punta di ironia, pensando al fatto che anche io e i miei fratelli – io, quarta di quattro, per la precisione – potremmo essere i fratelli descritti da Dostoevskij: complessi, con un vissuto comune ma che è stato elaborato in modi totalmente differenti e ci ha portato a costruire quattro identità che si incontrano e scontrano con un ritmo costante e in qualche modo, a dispetto invece dei fratelli del romanzo, armonico. Ognuno con il proprio carattere che certamente, una volta plasmato, contribuisce alla reazione agli eventi e alle sfide della vita; ognuno con il proprio mondo che, se in parte per i fratelli di sangue sembra coincidere nel periodo dell’infanzia, inizia poi a differenziarsi sempre più, soprattutto nel periodo in cui poi, come ci insegnano anche i detenuti del carcere di Bollate che abbiamo ascoltato, spesso si verificano gli eventi da cui siamo segnati e che tentiamo di elaborare, se siamo fortunati e dotati degli strumenti giusti, o da cui, nella maggior parte dei casi, tendiamo a scappare.

Alla fine del nostro incontro in carcere, nello specchio vedo con più chiarezza una me diversa: per me il “trucco” ha funzionato, e il dialogo con Marisa, Lilian, Stefano, Sebastiano e con tutti coloro che sono intervenuti mi ha regalato una visione di me più profonda e complessa.

Sono giunta quindi alla ferma conclusione che sì, Alesa è certamente figlio di suo padre: il trauma non viene infatti cancellato per come si reagisce ad esso: Fabio si sarebbe sentito ugualmente privato delle attenzioni dei genitori e abbandonato, anche se non avesse scelto di delinquere per sfogare la sofferenza.

Mi viene in mente l’esame di penale che ho appena dato: la nostra Professoressa ci teneva molto che noi imparassimo a fare l’analisi della fattispecie che troviamo nel codice sulla base di alcune voci (reato di danno/pericolo, comune/proprio e via dicendo). Un criterio dell’analisi era “indicazione della vittima del reato”, e la maggior parte dei delitti aveva una “vittima non visibile, cioè la collettività”.

Ecco, Alesa è una vittima meno visibile, ma non per questo inesistente. E allora la domanda per me più difficile che ci siamo posti è stata cosa cambiasse tra Smerdjakov e Alesa, tra me e Fabio: cosa dirotta il nostro comportamento tra male e bene, lecito e illecito?

La risposta che mi sento di dare è profondamente intrisa delle parole che ho ascoltato nei nostri primi due incontri: la solitudine.

Marisa aveva quella voce nella testa, Alesa ha un Dio che non lo lascia solo. La banale ma decisiva differenza è quell’amare e lasciarsi amare di cui parlava Don Gianluigi.

Alesa è figlio di Fedor, ma è un figlio che non è stato lasciato solo, o meglio, non si è abbandonato alla solitudine, che non le ha permesso di identificarsi con le cellule morte del suo cuore ma l’ha aperto all’incontro con l’altro.

Dimitrij chiude il cuore, operazione ben più facile e immediata, lo fa diventare di pietra. Ricordo che in una preghiera della messa, quando eravamo piccoli, Dio diceva “Vi toglierò il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”: è necessario un qualcosa di sovrannaturale, di straordinario, di diverso da noi, per rendere il nostro cuore sensibile all’altro. Questo, che la Bibbia chiama Dio, nella mia visione è invece qualunque cosa, persona o esperienza che sia in grado di scuoterci dentro, di smuoverci, di identificare le cellule di vita del nostro cuore come una TAC e di permettere loro di procreare.

Se invece siamo nelle condizioni di Fabio, di Stefano, di Alberto, risulta quasi facile – e che impressione dire che risulti facile, in una concezione del reato così polarizzata come è la nostra opinione comune – come abbiano dirottato, cambiato la rotta, verso il comportamento criminoso.

E, tenendo presente che come si diceva il gruppo della trasgressione comprende detenuti “modello”, non ho potuto fare a meno di notare e di sorprendermi quando Stefano ha condiviso come la sua rinascita sia iniziata con la sua prima carcerazione: una mano tesa. Nulla di più, è quello che è servito a Stefano per diventare l’uomo che avrebbe sempre voluto essere.

Il protagonista del romanzo per me è il padre: o meglio, è la sofferenza che il padre ha causato e che ciascuno dei figli, e ciascuno di noi figli, ha affrontato nella propria vita; quella sofferenza che farebbe venire la voglia di chiudere, indurire ulteriormente un cuore che già tende ad essere di pietra, perché essere vulnerabili è scomodo e ci tocca nelle corde profonde della nostra emotività; la sofferenza che fa maturare un credito nei confronti della vita, che consiste in amore, protezione, affetto, e che è possibile riscuotere solo con amore, protezione e affetto, rinvenibili dentro di noi e attraverso di noi ma, secondo me, solo grazie all’incontro con Altro: un amico, l’amore, Dio, un libro, la musica ecc. (Mi viene da pensare qui alle parole di Marisa, nel nostro primo incontro, al modo in cui lei sente di riscuotere il suo credito).

È Lei dunque la protagonista del romanzo, la Sofferenza che non lascia spazio per svilupparsi pienamente come persone umane ma agisce intrecciandosi con il carattere di coloro che colpisce.

Una protagonista ingombrante, che esce dalle pagine del libro per riflettersi in quello specchio in cui, giovedì, mi sono rivista anch’io, figlia e sorella che ha vissuto.

Siamo tutti persone umane.

Angelica Brizzi

I Conflitti della famiglia Karamazov

Protagonista è la famiglia

Dimitrij, tra i quattro fratelli Karamazov, è quello che più fatica a trovare un minimo di stabilità, vivendo costantemente in balia delle proprie emozioni che non riesce a dominare. Egli, a differenza dei suoi fratelli, non riesce a trovare un punto di equilibrio:  Alëša ha trovato pace nella fede lasciandosi guidare dal proprio padre spirituale del quale si fida cecamente; Ivan si rifugia nella ragione, negando l’esistenza di un Dio che non trova ed incolpa; Smerdjakov, taciturno ed ostile verso gli altri, dedica la propria esistenza a servire il padre.

Dimitrij, invece, è inquieto, prova collera verso il padre, sentimento che emerge tanto chiaramente da portare il lettore a credere che sarà lui il parricida nel romanzo. Il credito che Dimitrij ritiene di vantare nei confronti della figura paterna è un peso troppo grande ch’egli fatica a gestire, vivendo una vita superficiale, frivola e che lo rende quanto mai simile al padre tanto disprezzato.

Sinteticamente, sono queste le ragioni per le quali alla domanda “chi è il protagonista dei fratelli Karamazov” ho risposto, di getto, Dimitrij. Ad una riflessione più ponderata, però, sono giunta a ritenere che in realtà tutti e quattro i fratelli sono i protagonisti del romanzo. O forse, ancora meglio, è l’intera famiglia Karamazov ad essere protagonista: lo stesso Fëdor – senza il quale la famiglia Karamazov non esisterebbe così come non esisterebbero i complessi e sfaccettati rapporti tra il padre e i quattro figli – insieme a Dimitrij, Alëša, Ivan e Smerdjakov, sono coessenziali al romanzo, ognuno con i propri tratti caratteriali e con le proprie fragilità.

Approfitto dell’occasione per condividere con il gruppo l’obbiettivo della mia ricerca, così sintetizzabile: imparare ascoltando l’altro e mettendosi in discussione. Ognuno di noi porta con sé le proprie esperienze, le proprie convinzioni, la propria sensibilità… in sintesi, il proprio vissuto.  Tutti noi dobbiamo esserne consapevoli nel momento in cui prendiamo posto nel teatro del carcere di Bollate in occasione dei nostri incontri settimanali e ci mettiamo all’ascolto.

“Bisogna aver visto”, è il j’accuse di Piero Calamandrei in uno dei suoi primi interventi parlamentari del 1948. Richiamando le sue parole, io aggiungo che oltre ad avere visto, occorre avere ascoltato e compreso, tenendo viva la luce della ragione e della solidarietà umana e rammentando che prima di essere detenuti, vittime, studenti, avvocati, magistrati… siamo tutti uomini che condividono la stessa dignità.

Margherita Viglione

I Conflitti della famiglia Karamazov

Dalla corruzione all’ascesi

Secondo me il protagonista dei Fratelli Karamazov è l’autore stesso e i fratelli, con le loro indoli. I loro pregi e difetti altro non sono che sfaccettature della sua anima. Certo alcuni tratti sono più riconoscibili nella realtà, altri sono più espressione di un’aspirazione verso quel modo di essere.

L’edonismo e il vitalismo smodato di Mitia gli appartengono, il tormento interiore alla ricerca dell’esistenza di Dio con relativo apparato di argomentazioni filosofiche di Ivan gli appartiene, l’aspirazione all’armonia e all’accoglienza di Alesa gli appartiene, la rabbia per l’ingiustizia di una posizione sociale determinata da un destino di origini illegittime di Smerdjakov gli appartiene.

Si chiama Fedor, come il padre dei fratelli, e non è un caso perché riconosce in lui suo padre e, come si sa, non è possibile costruire la propria esistenza se non accettando l’origine da cui si proviene e, solo da qui, nell’odio o nel perdono, è permesso tracciare il proprio percorso.

Allargando il discorso si potrebbe pensare che il protagonista del romanzo è il bisogno di conoscere l’animo umano, senza censure, esplorandolo dalle bassezze della corruzione fino all’altezza dell’ascesi e della santità. Per questo concordo con la critica quando sostiene che quando in Russia esce il romanzo, in Europa la forma romanzesca realistica aveva cominciato ad incrinarsi dunque più che figlio del secolo (come D. si definiva) D. ne è il genitore, è uno dei pilastri della crisi all’origine della coscienza moderna.

Dostoevskij dà conto dei pensieri e di come si susseguono nella testa dei personaggi e di come si influenzano, di come si concatenano secondo nessi logici ma anche di come spuntano subitanei per intuizione e come si impongono anche se illogici con una forza incoercibile.

Molti di questi pensieri riguardano il desiderio sessuale e la sua soddisfazione. Non a caso un’intera sezione è intitolata “I lussuriosi”o “I voluttuosi” a seconda della traduzione.

Nessuno si salva, nemmeno Alesa, che per sua stessa ammissione dichiara: “anch’io non ne sono esente; mi trovo sul primo gradino della scala, più in basso di voi, ma la scala è la stessa.” Tutti i personaggi ne sono contaminati, è un male trasversale. E anche la sezione successiva “Torture”o “I tormenti” è strettamente collegata alla lussuria. Il desiderio sessuale, più o meno esplicito, più o meno soddisfatto, più o meno riconosciuto, informa le azioni e le reazioni dei personaggi, determinandone l’intensità e le sfumature che poi si fanno complicazioni. Nel caso di Lise il comportamento si fa isterico. Nel caso di Katerina si fa contraddittorio, irragionevole, ingenuo e supponente. In ogni modo le relazioni tra i personaggi sono improntate, o comunque non sono mai esenti, da un esercizio del potere di sottomissione, mi verrebbe da dire improntati a un’alternanza di sadismo e masochismo.

A proposito di Fedor Karamazov ci sono alcuni tratti della sua personalità e della sua storia che forse meriterebbero un approfondimento. Condivido alcune riflessioni su di essi che non so interpretare.

Fedor fugge con la prima moglie Adelaida Ivanovna non per vero amore, dice la voce narrante, ma per interesse. Dissipa la di lei dote di 25000 rubli in un baleno, litiga con lei continuamente arrivando alle percosse, non date bensì subite (e qui ho avuto il primo moto di sorpresa). Adelaida lo abbandona cambiando città,  lui impianta una sorta di harem in cui avvengono gozzoviglie di ogni genere. Quando la rintraccia a Pietroburgo col seminarista con cui viveva, Fedor fa di tutto per raggiungerla ma viene a sapere della sua morte. Inneggia alla propria liberazione ma anche piange tutte le sue lacrime (secondo moto di sorpresa)

E’ fuori luogo pensare che l’uscita dalla sua vita di Adelaida, qualunque fosse il ruolo che ella aveva nella sua mente e nel suo cuore, lo turba al punto di perderlo?

Un’altra riflessione a margine, cui non so quale spazio e significato dare, è che nel romanzo, pur con tanti personaggi femminili, non è presente una figura significativa di madre, se non si considera la madre di Lise, che però definirei troppo marginale.

I Conflitti della famiglia Karamazov

Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Ti ho cercato subito, giovedì appena uscito dal carcere di Bollate alle sei del pomeriggio.

Avevo qualcosa di nuovo da chiederti.

[continua qui]

I Conflitti della famiglia Karamazov

Quella porta che si apre

La serata inizia con alcuni volti noti fra i detenuti, che mi accolgono con un vibrante “ciao prof!”, rido, non sono prof, almeno per ora, chissà. “Ma che gelo”, rispondo – “eh sai com’è. Qui siamo al fresco” ribattono. Uno scambio di battute che mi ha fatto sorridere, sensazione di essere entrata in una comunità di cui mi sento di qualche modo di far parte, un pezzo di casa. Assurdo trovare questa sensazione da queste parti, a pensarci bene, ma tant’è. Il calore dei saluti contrasta col freddo. Il riscaldamento non funzionante, in gennaio, purtroppo, è un benvenuto che racconta di fondi mancanti e incuria. Nel novembre scorso, sempre da queste parti, ho dovuto far attenzione a non scivolare sul pavimento bagnato: acqua infiltrata per la pioggia battente. Mi sovviene un esperimento sociologico studiato ai tempi dell’università in cui era stato dimostrato che il degrado genera, ovunque, sempre maggior degrado, per una dinamica intrinseca e caratterizzante il comportamento umano. Occorre più cura, soprattutto qui dentro.

Il teatro è gremito. Mi guardo intorno. Ho l’impressione che tanti stasera entrino in carcere per la prima volta. Obiettivo centrato, sala piena. Me ne compiaccio.

Con i saluti di rito arriva potente l’invito di Aparo agli agenti di polizia penitenziaria, di mettersi in gioco ed entrare a fare parte del gruppo. Aparo, immaginazione al lavoro, che alza sempre la posta. Sarebbe bello. (Mi chiedo: non sarà forse troppo difficile proprio nel carcere e nei reparti dove lavorano?)

Iniziamo. Delitto e castigo, oggi. Penso a quel libro parcheggiato lì, sulla mia libreria, in attesa di essere letto, sorpassato da altri di cui ho sentito più urgenza. Così, arrivo a questo incontro curiosa e impreparata; aspetto impaziente di vedere questo corpo a corpo con un libro, di capire come temi, personaggi, protagonisti siano stati avvicinati, fatti propri dal gruppo.

Il più anziano riassume una trama complessa in maniera efficace. Nonostante l’accento, mi pare di poter pensare, molto bene.

Dal pomeriggio mi porto a casa due cose, una domanda e la figura di Sonja/Marisa.

 La domanda, anzitutto: il protagonista a un certo punto si chiede: “Ma io, sono come un pidocchio o sono come Napoleone?”.

Dice Nori, in sanguina ancora, riferendosi a questa domanda “e ho avuto, mi ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centodieci anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora.”

Quanto mi affascina, da sempre, sentire chi può permettersi di soppesare le parole, indugiare in una traduzione, con la responsabilità di chi intende condurre per mano senza tradire. Così affascina Nori, quando snocciola parole in una lingua che suona ostica e impronunciabile, mentre cerca di farci mettete a fuoco quell’insetto: immaginatevi una carogna, peggio, una carogna tremante, un essere spregevole – diciamocelo pure, un giovane oggi direbbe, semplicemente: una merda. Ci penso. Personalmente opto per pidocchio, quegli insopportabili parassiti che un anno fa ho combattuto per tre mesi sulla testa di mia figlia, e che non riuscivo a debellare in nessun modo. Un parassita, un essere che vive nutrendosi di sangue altrui. Che si moltiplica incontrollato, ne lasci uno libero e te ne trovi 100.

 Sono un eletto o sono un pidocchio? Se uno, come me, rifiuta categoricamente la divisione del mondo in due categorie di uomini, (pericolosissima, se è vero che Nietzsche dirà di aver trovato in chi scrive Delitto e castigo un “fratello di sangue”), tenderei a pensare che la domanda ci interroga sulla misura del nostro spessore, dell’impronta che ciascuno lascia nella società, del contributo offerto nel costruirla o viceversa nell’affossarla.

A te chi ti ha dato l’autorizzazione di uccidere? Domanda Aparo a uno che qui sembra rinchiuso da parecchio tempo. “Me la sono presa”. Certo, continua, l’ambiente era degradato e degradante. Certo, ci sono le circostanze, le attenuanti, i ma, i però, le congiunzioni avversative o le concessive. Ma in fin dei conti l’autorizzazione, ciascuno, se la prende da solo, è la risposta corale.

Il gruppo è per me da anni quel lusso – che vale la mezza giornata di ferie – in cui concedersi del tempo per ragionare. È evidente che questa dinamica, questa parabola discendente che va dal non sentirsi compreso al sentirsi legittimato a un abuso, questa altalena che trasforma un senso di impotenza in un senso di onnipotenza menefreghista non si trovi solo in chi uccide.

Penso ai colleghi che fanno quiet quitting al lavoro, a chi trova un amante. Accomunano le circostanze, e le premesse. Di chi si sente non adeguato, non sufficientemente valorizzato, non compreso, a volte addirittura in gabbia, di chi non vede all’orizzonte una progettualità possibile. Tempo fa qualcuno mi disse: se sei in una stanza e ti accorgi di sentire caldo, di solito hai sempre più di una opzione: togliere il maglione, aprire la finestra, abbassare il riscaldamento, uscire dalla stanza, ovviamente anche stare a lamentarti per il caldo, anche morire per il caldo, nel caso in cui diventasse veramente eccessivo.

Negli anni ho constatato che non sempre da soli si riesce a mettere a fuoco quanto si sta male, perché si sta male o cosa si potrebbe fare per cambiare. O non sempre si riesce ad avere, da soli, la forza o la possibilità di mettere in atto un cambiamento. Lo osservo in maniera così netta ed evidente sui miei figli… tipicamente sclerano e si urlano addosso in circostanze sbagliate di cui hanno ben poca responsabilità (ritmi della giornata costruiti male, fame, stanchezza..). Ma è una dinamica che rileggo anche su di me o su altri adulti che ho di fianco. Però, certo, l’adulto deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Sempre? Quando osservo contesti in cui il degrado è troppo iniquo mi verrebbe da interrogarmi sul grado di “responsabilità dei burattini”.

Alla me adulta suggerirei quantomeno l’importanza di sapersi fermare e trovare le giuste strategie, i giusti alleati, che ti aiutino ad aumentare di spessore e non a diminuirlo. Ecco. Quali, in questo periodo? Mentre sosto, spersa in queste derive del ragionamento, stasera, si impone la figura di Marisa, che sbaraglia tutti.

 Marisa viene chiamata in causa quando si parla del personaggio di Sonja, figura da scoprire, l’amore che tiene in equilibrio il mondo, che non giudica ma convince. Per me Sonja è Marisa, dice un detenuto. E allora Marisa Fiorani, a 84 anni, inizia a parlare con una forza così prorompente che io, che di anni ne ho la metà, penso che se arrivassi a 84 anni con la metà della sua forza ne sarei onorata.

Si presenta in maniera sintetica, Marisa: io sono una a cui hanno ammazzato la figlia. (Non si può capire però, in questa sintesi, quante ne abbia passate, quanti schiaffi abbia ricevuto, anche dalle autorità che non dovevano proprio permetterselo. Io, che in altre occasioni ho ascoltato un pochino di più della sua storia, penso che questa sintesi non le renda sufficiente ragione).

Eppure lei stasera sta alla sfida della sintesi e incanta. Quando c’è un dolore così grande, così grande, dice, ti viene voglia di piegarti in due e chiuderti su te stesso, piegare le braccia: questa sarebbe la reazione naturale. Ma io no, io ho deciso che dovevo impormi di stare dritta e aprire le braccia, amare, stare dritta e incontrare chi ha un dolore che assomiglia al mio. È con questa postura che da anni viene in carcere, con una presenza potente che non dubito possa trasformare gli animi. Questa immagine meravigliosa di chi nel dolore, nell’ingiustizia, impone a se stesso di stare a schiena dritta e a braccia spalancate credo mi interrogherà a lungo.

Francesco dice che questa serata c’è stata e ha avuto questa forma anche perché anni fa io gli ho regalato il libro “noi la farem vendetta” di Paolo Nori.

Che cosa vuol dire, vendetta, cerca di spiegare Nori a sua figlia nel finale del libro. “la punizione migliore è guardarlo e pensare La tua punizione è essere quello che sei”. Ma l’impressione, stasera, è che la “vendetta” del gruppo non si fermi qui, a illuminare una presa di coscienza di sé, con tutto il dolore che comporta. Il passo successivo, oltre a dirti “tu sei quel che sei” è prendere per mano e condurre a immaginare una progettualità, su di sé e per la società, e accompagnare nel metterla in atto.

Allora grazie al gruppo per questa serata, per avermi fatto venire voglia di leggere delitto e castigo, per avermi incuriosito su questo impronunciabile Raskolnikov e questa Sonja, prostituta sì, ma così dolce ed efficace nel suo “stare affianco”. Per aver aperto una porta sulle vostre vite, vissute senza dubbio nei loro chiaroscuri, e, soprattutto, per avermi fatto indugiare su parti luminosissime del quadro.

Grazie ai professionisti presenti e futuri (che bravi, gli studenti sul palco!) che trovano gli strumenti per umanizzare la loro professione.

Io ci credo, nella necessità di fare cultura, nella cultura come strumento insostituibile di crescita. Antonio Gramsci scriveva nel 1916, a 25 anni: «La cultura… è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri». E ogni volta che qualcuno riesce a fare cultura, aprendo una porta – sia essa quella di un libro, o quella di un carcere, quella di un incontro… ecco: trovo ci sia da festeggiare.

Delitto e Castigo