Aula Dostoevskij. Delitto e castigo al carcere di Opera

Durante i cinque mercoledì di Novembre 2022 abbiamo dato forma – dentro le mura del carcere di Opera – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, invitando 43 studenti di giurisprudenza a dialogare insieme a chi ne ha già commessi parecchi e a chi ne ha subiti alcuni. Traendo beneficio anche dalle autorevoli sollecitazioni di Fausto Malcovati, docente di lingua e letteratura russa.

Magistrati e studenti universitari, familiari delle vittime della criminalità organizzata e detenuti di media e ad alta sicurezza appartenenti al Gruppo della Trasgressione: ad un anno di distanza, i protagonisti di questa significativa ri-lettura collettiva del romanzo di Dostoevskij sentono la necessità di rendere pubblici i risultati e le risposte che, a seguito della ricerca, pensano di avere ottenuto.

Con la partecipazione straordinaria di Paolo Noriscrittore.

Introducono i lavori:

Angelo Aparo – psicoterapeuta, fondatore del Gruppo della Trasgressione
Francesco Cajani – pubblico ministero, comitato scientifico de “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine

Silvio Di Gregorio – direttore casa di reclusione di Opera

Alcuni materiali della ricerca sono disponibili qui .

Ingresso gratuito fino ad esaurimento dei posti disponibili.

CONTRIBUTI VIDEO

o il servizio di Elena Scarrone per il TGR Lombardia:

o la registrazione integrale dell’incontro a cura di RadioRadicale:

No, non c’è tradimento!

San Vittore 16/02/2023

Ascolto con attenzione i contributi dell’eterogeneo gruppo che si riunisce tutti i giovedì al nascente reparto LA CHIAMATA e constato che tutte le idee vengono scambiate, confrontate, criticate, tanto che io dubito spesso anche delle mie.

Tuttavia, quando il prof. Aparo ha aperto l’incontro di giovedì scorso a San Vittore, chiedendo ai presenti se chi s’interessa del benessere della persona condannata stia tradendo i famigliari della vittima o se occuparsi della sofferenza di chi ha commesso un omicidio equivalga a ignorare la disperazione della figlia e della moglie della vittima, ho sentito dentro di me una risposta certa: “No, non c’è alcun tradimento!

Anche se l’argomento è complesso e doloroso, non posso rinunciare a tentare di capire la relazione lega l’uomo al criminale, non posso credere che sto trascurando la vittima quando cerco di scoprire dov’è andata l’umanità di chi è stato carnefice.

Mi avvicino alla persona detenuta, sentendo la necessità di rintracciare quali siano i fattori che hanno contribuito a farlo scivolare verso l’assenza da se stesso. E mi preoccupa che siamo in pochi a volerlo fare, a voler capire cosa succede all’uomo. Sento nei racconti dei detenuti la mancanza di qualcosa di cui, invece, mi sembra che noi tutti abbiamo bisogno. E al gruppo si cerca di continuo cos’è: qualcosa che prima c’era? Che non c’è mai stato?

Pur considerando che la figura dei genitori ha un ruolo centrale nella costruzione della personalità dell’adolescente, mi chiedo come abbiano fatto molti giovani a sopravvivere a infanzie infelici con genitori disattenti o assenti e a contesti degradanti, senza per questo autorizzare se stessi all’abuso, senza ricorrere a “soluzioni” devianti.

Comprendere perché alcune persone soccombono e altre sopravvivono in ambienti in cui si vivono le stesse difficoltà, rappresenta un terreno di studio molto interessante per noi componenti del Gruppo della Trasgressione. La direzione che il degrado ambientale e le difficoltà familiari imprimono ai sentimenti e alle scelte dell’individuo non è automatica! Diversamente, come si spiegherebbe che nello stesso nucleo famigliare un figlio prende la strada della devianza e l’atro no?

Mi sembra quindi importante cercare di approfondire cosa sente il giovane deviante, osservare il modo in cui egli reagisce alla frustrazione, quale lettura egli dà degli eventi e delle relazioni che vive, quale impasto si produce nella sua affettività, tale da portarlo al reato.

Quanto più ragiono su questi aspetti, tanto più mi rendo conto degli effetti terapeutici del Gruppo della Trasgressione sulle persone che lo frequentano e del metodo con cui viene perseguito l’obiettivo del reinserimento sociale della persona detenuta. Per questo mi sembra indispensabile sgrovigliare i nodi che compongono i bisogni psicologici dell’autore di reato e ottenere informazioni utili a impostare progetti e operazioni d’intervento.

L’avvicinamento a chi ha operato l’offesa e la sua responsabilizzazione in progetti collettivi sono certamente gli strumenti migliori per contrastare il ripetersi dell’abuso: “Capire cosa induce alla condotta antisociale non è un tradimento nei confronti della vittima, è piuttosto una ricerca di quell’umanità che era stata progressivamente defenestrata lungo il complesso percorso che ha portato all’episodio criminoso” (Aparo, San Vittore, 16/02/2023).

Lara Giovanelli

Reparto LA CHIAMATAIncontri con i familiari delle vittime

Il timone della mia adolescenza

Ricordo ancora il numero telefonico di casa dei miei nonni paterni, dove sono nato e dove ho trascorso infanzia e adolescenza. Tutti i giorni, in orari che mi dettavano i miei stati d’animo, aspettavo che squillasse il telefono (la chiamata di mio padre). Attese deluse, accompagnate sistematicamente dalle stesse mazzate.

Riuscivo a sentire la voce di mio padre grazie ai rimproveri di mia nonna che, almeno una volta a settimana, lo chiamava per ricordargli della mia esistenza e della sua irresponsabile assenza.

La solitudine che paralizzava le mie curiosità e la necessità di sentirmi accudito, cercavo di colmarle con i sorrisi e qualche carezza delle persone anziane del vicinato. Ma più tempo passava e più l’infame necessità di quel riconoscimento prendeva possesso del mio timone.

Iniziai così a farmi “guidare”, come una prostituta accetta la seduzione più proficua, dal miglior offerente: “Robertino, ma tu sei molto intelligente“, ”Aiutami a scaricare queste casse di sigarette che poi ti do 2 mila lire”, ”Bravo Roberto! Stai diventando un vero uomo e più tardi ti porto con me a vedere le corse clandestine dei cavalli “…

E così, pian piano, iniziarono per me le prime chiamate, fin quando arrivò, dopo tanti ”trofei ” conquistati, la vera, illusoria e definitiva chiamata di Lucifero.

Da quel giorno, pur tra improvvisi turbamenti e il delirio che li imbavagliava subito dopo, cominciai a sentirmi protagonista e compartecipe di un progetto chiamato distruzione e che oggi identifico con il mio fallimento.

La complessità del male aveva spianato la strada alla sua indegna banalità, fino a farmi abortire il dolore per la mancanza dell’unica, vera chiamata che, se ci fosse stata, mi avrebbe probabilmente impedito di consegnare il timone della mia adolescenza e della mia responsabilità al primo e più astuto offerente.

Lo 095/317006 non squillò mai e, quando lo fece, purtroppo per lui e me, si interruppe per sempre la linea.

Roberto Cannavò

Percorsi della DevianzaLa Chiamata

Ho bisogno di un compenso, se no mi distruggo

“Cosa mi importa che non esistano colpevoli, che ogni cosa derivi semplicemente e direttamente da un’altra, e che io lo sappia! Ho bisogno di un compenso, se no mi distruggo. E un compenso non nell’infinito, chissà dove e chissà quando, ma qui, sulla terra e voglio vederlo coi miei occhi!”

Esito imprevisto ma alquanto gradito dei nostri cinque incontri al carcere di Opera su Delitto e Castigo, la intensa frequentazione con il Prof. Fausto Malcovati ha creato un’altra sinergia.

Suo l’invito per assistere ad una riduzione teatrale de “I fratelli Karamazov” a sua firma e al successivo dibattito:

-- Credits --

LE FORZE CHE MUOVONO LA STORIA. I CERCATORI. Nietzsche, Dostoevskij, Peguy - Letture Teatrali e dialoghi per la città contemporanea.

Fedor Dostoevskij: "...Il campo di battaglia è il cuore dell'uomo" (16.1.2012 - Centro culturale di Milano)

Massimo Popolizio legge "I fratelli Karamazov" (parte seconda, libro quinto)

Il fallimento

Ci sono parole che evocano disagio solo a pensarle. Parole che vengono evitate, sussurrate. Parole che vengono lasciate sospese, parole non dette.

La parola “fallimento” è una di queste. Si cerca di evitare poiché evoca una sensazione sgradevole, sia in chi la pronuncia sia in chi l’ascolta. A volte viene usata in modo impersonale: “è stato un fallimento”. Un fallimento di chi? Mio? Tuo? Nostro?

Fallire è un verbo che non ci piace, ci ricorda che siamo umani e che possiamo sbagliare. È difficile anche solo pensare di aver fallito, figurarsi dirlo. E quando si trova il coraggio di ammetterlo, spesso gli altri tendono a trovare parole di conforto: “non preoccuparti, ti rifarai, avrai un’altra occasione, non pensarci”. Spesso è vero, in molti casi il fallimento ci permette di riprovarci, con sforzi ancora maggiori, e, nella maggior parte delle volte, così dicono, dopo il fallimento arriva il successo. È raro che si parli della sensazione di fallimento. Spesso si preferisce cercare le cause, oppure trovare soluzioni.

Il fallimento si affronta da soli, non se ne parla a cena con gli amici o al bar con i colleghi. Eppure la maggioranza di noi, prima o poi, fallisce almeno una volta nel corso della sua vita. Fallisce in amore, in famiglia, nella carriera, nello studio. Si può fallire in qualsiasi cosa, eppure non si riesce a confrontarsi con gli altri. Non si riesce a rendersi responsabili del fallimento.

Da quando frequento il Gruppo della Trasgressione, spesso parlo volentieri con amici e conoscenti di quello che faccio e delle sensazioni che il gruppo mi crea. Tuttavia a volte vengo liquidata con un “mah si, tanto i detenuti sono il fallimento della società”. Ma noi facciamo parte della società giusto? Ognuno di noi è la società. E allora perché riusciamo a parlare a cuor leggero di un fallimento generale, ma fatichiamo a pensare ad un nostro fallimento personale? Forse, se parlassimo di più dei nostri fallimenti riusciremmo ad accettarli più facilmente. E una volta accettati, potrebbe essere più facile cercare soluzioni e comportarsi in modo che non capitino di nuovo.

Di una cosa sono abbastanza certa: parlarne con qualcuno, senza vergogna o sensi di colpa, può aiutare a comprendere che qualcuno ha già vissuto e, nella maggior parte dei casi, anche superato quello che noi crediamo sia un fallimento insuperabile.

Il fallimento fa parte della natura dell’essere umano e, a volte, è giusto ricordarci che possiamo anche fallire.

Anita Saccani

Interrogarsi sulla trasgressione

Anita Saccani, Matricola: 792514
Tirocinio professionalizzante – Albo A, Area Sociale
Tipo di attività: Stage esterno
Periodo: 15 Aprile 2021 – 14 Ottobre 2021
Titolo: Interrogarsi sulla trasgressione

Caratteristiche generali dell’attività svolta
Ho svolto il secondo semestre del mio tirocinio professionalizzante presso il Gruppo della Trasgressione, una realtà composta da studenti, detenuti e liberi cittadini, fondata e coordinata dal Professor Angelo Aparo, psicologo e psicoterapeuta. L’associazione opera nelle case di reclusione di San Vittore, Bollate e Opera, e nel territorio milanese, con l’obiettivo di favorire la collaborazione e il dialogo tra detenuti e cittadini.

Il Gruppo della Trasgressione utilizza la devianza, in tutte le sue forme e sfaccettature, come punto di partenza per generare riflessioni sull’essere umano e sulla società in generale. Lo scambio reciproco di pensieri e idee favorisce la costruzione di un rapporto sincero tra i membri del gruppo, vengono abolite le etichette, non ci sono più detenuti, studenti, ex-detenuti o parenti di vittime, ma ci sono cittadini che insieme lavorano per costruire una società in continua evoluzione e miglioramento. È fondamentale ricordare che la trasgressione è una componente presente nell’animo umano e non basta “rinchiuderla” in una cella e dimenticarsi della sua esistenza per far sì che cessi di esistere, al contrario è necessario interrogarsi su di essa, formulare domande sulle sue origini e i suoi sviluppi e, in seguito, proporre risposte che possano aiutare a comprenderla e, nel possibile, a contrastarla.

Il particolare tipo di approccio del Professor Aparo consente ai membri del gruppo di interrogarsi su loro stessi, sulle proprie fragilità e certezze, sulle esperienze di vita e sui valori in cui ognuno crede, consentendo così un percorso di crescita e di conoscenza del sé atto a comprendere e riconoscere le responsabilità che ogni persona possiede nei confronti della società, sia come individui che come collettività. Le iniziative del Gruppo della Trasgressione mirano quindi a costruire relazioni e dinamiche di gruppo che consentano a un detenuto, o ex-detenuto, di sentirsi parte integrante della società e, di conseguenza, di sentirsi responsabile di essa.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte
Nel Gruppo del Trasgressione il tirocinante è prima di tutto un membro del gruppo
; quindi, è richiesta la sua partecipazione attiva a tutte le attività e iniziative del gruppo. A livello pratico, inizialmente ci si occupa della stesura dei verbali degli incontri; in seguito, man mano che si prende confidenza e conoscenza della filosofia del gruppo, si partecipa ai vari progetti in corso. Nel mio caso ho partecipato alle Interviste sulla Creatività e alla costruzione di progetti di prevenzione della devianza da attuare nelle scuole di Rozzano. Inoltre, lo studente è invitato a contribuire alle riflessioni trattate dal gruppo producendo degli scritti argomentati e coerenti, che verranno in seguito pubblicati sul sito.

Personalmente, ho avuto anche la possibilità di partecipare agli ultimi mesi di vita della Bancarella di Frutta & Cultura che si teneva il sabato mattina al mercato di Viale Papiniano, dove studenti e detenuti lavoravano insieme per promuovere le attività e ampliare le reti di conoscenze del gruppo, oltre che per vendere la frutta.

Infine, ho partecipato ai vari eventi organizzati dal gruppo durante il periodo del mio tirocinio, quali:

  • Il Concerto della Trsg-Band a Parabiago (24 Giugno)
  • L’evento di Pulizia del Parco delle Memorie Industriali di Milano e la messa in scena dello spettacolo “Il mito di Sisifo” (17 e 18 Luglio)
  • L’incontro tra Scout e detenuti nella casa di reclusione di Opera (18 Settembre)

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati
Gli incontri tradizionali del Gruppo della Trasgressione si tengono il Lunedì e il Martedì (14-17). Durante gli incontri vengono trattati diversi temi e ognuno può contribuire alla discussione, arricchendola con le proprie riflessioni. Quando ho iniziato il tirocinio, l’incontro del Lunedì verteva sulla “Banalità del Male”: ogni settimana si sceglieva un film da vedere e durante l’incontro si sviluppavano riflessioni intorno al film scelto. È stato molto arricchente, soprattutto perché sono state analizzate varie strade che portano al “male”: dall’abuso di sostanze stupefacenti alla carenza di affetto da parte dei famigliari, dalla nascita in contesti socioculturali sbagliati alle micro-scelte che portano sulla via della perdizione. Gli incontri del Martedì invece erano focalizzati sul rapporto “Genitori e Figli”: venivano quindi discusse le dinamiche famigliari che portano alla costruzione di rapporti difficili tra genitori e figli, soprattutto quando il genitore è un detenuto e, di conseguenza, è impossibilitato ad esercitare il proprio ruolo di genitore.

Successivamente, con l’attenuarsi della situazione pandemica, mi è stato possibile frequentare anche gli incontri interni alla casa di Reclusione di Opera, sia con i detenuti in alta sicurezza che con i detenuti comuni. Gli incontri interni sono molto simili come “modus operandi” agli incontri esterni: detenuti e tirocinanti si confrontano sui vari temi che tratta il Gruppo della Trasgressione e in questo modo contribuiscono alla crescita reciproca. Il detenuto, che spesso ha il doppio dell’età del tirocinante, condivide pezzi della sua vita ed elabora riflessioni sulle possibili origini della propria devianza e in che modo il percorso fatto all’interno del carcere lo abbia aiutato a prendere coscienza di sé stesso e delle proprie azioni; il tirocinante, d’altra parte, offre un punto di vista giovane, sincero e da esterno ai fatti, cercando di silenziare i pregiudizi e di mettersi in gioco attivamente.

Inoltre, ho partecipato anche al progetto delle “Interviste sulla Creatività”: sono state progettate interviste da rivolgere ad artisti, figure istituzionali e giornalisti, utilizzando la creatività come tema centrale. Lo scopo di questo progetto è duplice: da una parte, si vogliono evidenziare le funzioni che la creatività può avere nella prevenzione della devianza e nelle attività di recupero di un detenuto, dall’altra si cerca di suscitare un maggiore interesse da parte del “pubblico” verso il mondo della devianza anche per fare prevenzione e per poter divulgare ed ampliare le relazioni sociali del gruppo.

Infine, ho avuto la possibilità di partecipare alla stesura di un progetto di prevenzione della devianza nel comune di Rozzano. I membri del gruppo, insieme ad altre associazioni e a figure istituzionali, hanno progettato attività utili a informare i cittadini sulle varie forme di devianza e a comprendere come prevenirla, con particolare riguardo ai più giovani. A questo proposito, è stato organizzato un ciclo di incontri con due scuole superiori che partirà a Novembre e vedrà collaborare studenti, detenuti ed ex-detenuti nel cercare di comprendere le varie definizioni di devianza e, soprattutto, come contrastarle.

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte
Il professor Angelo Aparo è il fulcro del Gruppo della Trasgressione. È presente ad ogni incontro e sprona continuamente gli studenti tirocinanti a togliersi di dosso fin da subito la definizione di “tirocinanti” e ad essere membri attivi del gruppo, invitandoli a contribuire con riflessioni e scritti personali. Si mette personalmente in contatto con i tirocinanti e chiede aggiornamenti continui sulle attività svolte e sull’andamento dei progetti.

Conoscenze acquisite (generali, professionali, di processo, organizzative)
Trovo estremamente difficile definire e catalogare tutte le conoscenze che ho acquisito durante questo tirocinio. In linea generale, ho compreso l’importanza e le funzionalità di un lavoro di gruppo: le relazioni tra i membri devono essere incentrate sul rispetto, sull’ascolto reciproco e sulla presenza costante, in questo modo si crea un clima positivo e stimolante.

Inoltre, ho compreso come sia necessario utilizzare le proprie energie mentali per costruire, analizzare ed elaborare una linea di pensiero che sia coerente con la persona che si crede di essere. Ho passato molte ore a rielaborare le varie discussioni avvenute durante gli incontri, cercando di analizzarle attraverso diversi punti di vista per arrivare a formulare un mio pensiero personale. Il Gruppo mi ha insegnato che ad analizzare le situazioni mettendosi nei panni dell’altro: questo permette di non cadere nell’errore di cercare verità assolute e consente di elaborare al meglio ogni aspetto di una determinata situazione.

Infine, mi sono avvicinata al mondo carcerario e ho avuto la possibilità di conoscere meglio sia le nozioni prettamente tecniche, sia i percorsi educativi che sono presenti all’interno. Credo che la cosa più significativa che ho imparato sia l’importanza di non parlare del carcere durante gli incontri con i detenuti: in questo modo, loro possono sentirsi liberi anche dentro il carcere; parlare troppo delle ingiustizie subite all’interno, come sostiene il dott. Aparo, rende i detenuti più rabbiosi verso le istituzioni e, spesso, dispensa dall’impegno su riflessioni e strategie volte al miglioramento del sé.

Abilita acquisite (tecniche, operative, trasversali)
In primo luogo, l’esperienza al Gruppo mi ha permesso di sviluppare un ascolto empatico e “puro” dell’altro. La condivisione di storie di vita così diverse dalla mia mi ha aiutato ad abbattere i pregiudizi e a cercare di sviluppare relazioni fondate sul rispetto reciproco. In secondo luogo, partecipare alla stesura dei verbali e alla trascrizione di interviste e testi di detenuti, mi ha consentito di migliorare la mia capacità di scrittura, aiutandomi nella rielaborazione dei contenuti. Infine, mi sono anche avvicinata al mondo organizzativo, imparando come si costruiscono progetti di prevenzione e di miglioramento del benessere.

Caratteristiche personali sviluppate
Questo tirocinio mi ha permesso di crescere professionalmente mostrandomi la psicologa che vorrei diventare, ma soprattutto mi ha aiutato nella crescita personale. Ho imparato che ci vuole del tempo per conoscere le diverse realtà e che non sempre la prima impressione è quella giusta.

Il Gruppo mi ha spinto a prendere conoscenza di me stessa, spronandomi ad uscire dal mio guscio e ad affrontare le mie fragilità senza vergognarmi di essa. Trovo enormemente soddisfacente l’essere riuscita a combattere la mia ritrosia a parlare in pubblico ed essere riuscita ad intervenire senza il bisogno di stimoli esterni.

Il lavoro prodotto dal Gruppo della Trasgressione dimostra come ognuno di noi può e deve avere un ruolo nella società e, di conseguenza, come siamo tutti responsabili nella costruzione di un percorso volto al miglioramento. La società ha il dovere di stimolare chiunque a sentirsi parte di essa, partendo da chi è sul gradino più basso e coinvolgendolo attivamente nello sviluppo di una responsabilità collettiva: solo così saremo in grado di costruire un futuro migliore, per tutti.

Il mio mito

Caro Dott. Aparo,
mercoledì mi ha chiesto di produrre uno scritto sulla mia vita “vissuta”.

Non sono tanto bravo con carta e penna, ma gli incontri con il gruppo mi stimolino tanto e trovo giusto almeno provarci, non solo per produrre uno scritto, ma più che altro per imparare che ogni limite affrontato può essere anche superato.

Vengo dalla Sicilia, più precisamente da Catania, terra che lei conosce abbastanza bene (abbastanza perché lei rappresenta la parte per bene, io quella fatta di male: una moneta che mostra le due facce).

Quando avevo quattro anni mamma e papà hanno divorziato, e si sa che queste decisioni, quando vengono prese non civilmente, finiscono per ripercuotersi sui figli. Io e mia sorella siamo cresciuti con mia mamma, donna che ha sempre lavorato per provvedere ai nostri bisogni; quindi, per motivi nobili diventava assente nella nostra vita quotidiana, diversamente da mio padre che era assente semplicemente per una sua scelta.

Frequentavamo la scuola delle suore proprio per le necessità lavorative di mia mamma, la scuola delle suore infatti ci teneva impegnati per tutto il giorno, dalle 8.30 alle 18.30 e sapere che noi eravamo a scuola permetteva a mia mamma di sentirsi sicura.

Purtroppo, tante volte si guarda al problema più lontano e non a quello che abbiamo davanti agli occhi, infatti la possibilità di una mia devianza era proprio in famiglia. Mio cugino, il nipote di mio padre, era più grande di me e aveva una visione della vita distorta, deviante: era un rapinatore. Purtroppo, nel nostro contesto sociale è più facile nascondere una devianza che una cosa buona. Con mio cugino ci trascorrevo tanto tempo, ero affascinato da lui, dal suo modo disinvolto che aveva verso la vita quotidiana. Io non ero un bambino stupido, anzi ero molto sveglio: nel quartiere dove sono cresciuto, o eri furbo o eri scemo.

Una volta iniziate le scuole medie mi sono sentito più adulto, in grado di scegliere la mia vita; mentre in me crescevano tutte queste domande, un giorno arriva una risposta tanto concreta: ammazzano mio cugino. In quel momento in me entrò il buio totale, l’odio: il male peggiore. Era stato ucciso il mio idolo, il mio mito, quello che aveva dato un senso a tutto quel vuoto della mia vita.

Da quel momento in me era sparita ogni traccia di quel bambino dalle scelte insicure: sapevo cosa volevo, vendicare mio cugino, l’unico modo per scacciare quel dolore che premeva dentro.

Dopo un po’ anche a scuola la mia rabbia era padrona, infatti alla prima occasione è emersa, esplosa. Una convocazione con la preside per un mio comportamento in classe fu l’occasione per farmi allontanare dalla scuola: alzai le mani sulla preside.

Il mio allontanamento da scuola per cinque anni e gli impegni lavorativi di mamma favorirono la mia “libertà”. Ho iniziato a vivere la strada, meditare sempre di più la mia vendetta. Da quel momento in poi la mia vita è stata un continuo progredire verso la delinquenza, affinché chi della strada era padrone potesse accorgersi di me. Con gli anni si sono accorti di me, del dolore che avevo dentro, della rabbia e dell’odio cresciuto in me, della mia sete di vendetta, alla quale non ho nemmeno provato a resistere quando se ne è presentata l’occasione. Il giorno in cui ho ucciso l’uomo che aveva ucciso mio cugino, mi sono sentito bene.

La mia vendetta era stata fatta, ma anche il mio futuro era stato segnato.

Angelo Cacisi

Percorsi della devianza

Il bambino che non sono mai stato

Buongiorno a tutti, sono Nunzio. Ultimamente al gruppo si è parlato molto del contesto sociale dal quale proviene una persona e delle scelte di “vita”. Ripenso alla mia adolescenza deviante e, in fondo, non vissuta: collegio, carcere minorile e a San Vittore a 20 anni. Ripenso a quello che mi ha portato in collegio, a quello che poi ha permesso alla mia rabbia di prevalere su quella che poteva essere un’infanzia più tranquilla. Ricordo che, in comune con quasi tutti i bambini del collegio, avevo i genitori separati e trascorrevo i weekend uno con mamma e uno con papà, alternandoli. Nelle volte in cui toccava al secondo, tante volte quel weekend si trasformava in paura, orrore, attese varie e alla fine pure in realtà: mio padre non ci veniva mai a prendere, stavamo lì alla finestra a vedere gli altri che andavano a casa… E stai lì a distrarre il mio fratellino e consolarlo.

Quando andavo con mamma a casa sua, c’era sempre suo fratello, che ai tempi era un delinquente affermato, uno dei capi della zona di Giambellino. Con la sua presenza e il suo “affetto”, riusciva a mettere in ombra l’assenza di mio padre, mi sentivo sicuro: il suo essere presente anche economicamente mi portava a pensare, sognare che anch’io un domani avrei potuto prendermi cura di mamma e del mio fratellino.

Qualche anno dopo feci la mia prima esperienza al Beccaria (carcere minorile) per furto con altri cinque ragazzi. Arrivati lì, neanche il tempo di entrare che le guardie mi fecero sapere che mio zio Michele aveva detto di stare tranquillo, che tra pochi giorni sarei tornato a casa e che lui era molto orgoglioso di me. Oltre al messaggio, mi depositò un milione di lire sul libretto, per poter aiutare qualcuno che era in difficoltà: una cosa normale per uno come lui, entusiasmante per me. Penso, anzi oggi ne sono certo, che il carcere minorile sia la scuola di delinquenza più grande in assoluto, quella che forma un vero delinquente. La cosa che mi colpì di più in tutto questo, che mi rese orgoglioso di me stesso, fu la considerazione che quel falso “mito” aveva da parte di tutti: sempre più spesso dove andavo mi sentivo dire non che ero il figlio di Giovanni, ma il nipote di Michele.

Questa è stata la costruzione del “mito” di me stesso. Inutile raccontare quanto la mia vita criminale sia stata sempre a crescere, tant’è che oggi sono un ergastolano. Non do minimamente colpa a mamma o papà o alla compagnia; mamma lavorava dalla mattina alla sera per non farci mancare nulla, papà aveva una piccola impresa artigianale e mi ha sempre voluto al suo fianco (solo al lavoro) però io avevo “scelto” altro e tutt’ora ne pago le conseguenze. Però, come dice il Dottor Aparo, col tempo trovi quello che coltivi nell’orto. Oggi, l’importante è che uno, dalle sofferenze che ha creato e sta patendo, trovi il modo per costruire un presente meno cupo, come le tante mattine che mi alzo, girando e camminando, ammazzando il tempo per anni, non giorni, senza meta.

Oggi quando sento dire che il contesto sociale è il “motivo” di devianza, mi fa un po’ rabbia, anche se, a guardarla così, il contesto dove sono cresciuto sarebbe per me un’attenuante per i reati che ho commesso. Penso che il contesto sociale possa favorire la devianza, tenendo però presente che la scintilla è dentro di noi. Sicuramente oggi ho la consapevolezza di riconoscerla nella rabbia accumulata da bambino, assieme alla delusione di un padre assente che potevo solo immaginare, mentre aspettavo alla finestra tra la rabbia e le lacrime che rendevano buia anche una giornata di sole.

Mercoledì, come altre volte, il Dottor Aparo ha notato che sembra che io non partecipi agli incontri. Le chiedo scusa, questa non è una mia scelta, ma la voglia di capire, di imparare, di riflettere e di guardarmi più in profondità. Come vede non lascio tutto al tavolo: lo porto con me, in me, in quello spazio vuoto che è il carcere, per riflessioni come queste. Scrivere è un modo certamente più facile per me, che non nascondo di essere un po’ timido, ma sono più concreto con carta e penna, perché mi aiuta anche ad ascoltare me stesso come non avevo mai fatto prima: fragile, debole, ma anche tanto curioso di scoprire e di scoprirmi curioso come quel bambino che non sono mai stato.

Nunzio Galeotta

Percorsi della devianza

La differenza tra me e loro

C’è una vecchietta seduta davanti a me. È molto minuta e sembra quasi scomparire dentro la sedia gialla delle metro milanesi. Osservandola attentamente, però, è facile notare come la sua fragilità sia solo un’apparenza: il piede della gamba destra continua a fare avanti e indietro, ad un ritmo regolare e veloce, che ad osservarlo a lungo si rimane quasi ipnotizzati, e dietro i piccoli occhiali viola, due grandi occhioni vispi e allegri osservano il mondo intorno.

Il suo sguardo interrogativo e vivace si posa su ogni persona e cosa e, a un certo punto, arriva anche il mio turno diventando così un altro oggetto della sua curiosità. A mia volta la osservo, di sottecchi però, con fare intimidito, cercando di non farmi notare, ma mi ci vuole poco per capire che, anche se la guardassi dritta negli occhi, lei non se ne accorgerebbe, tanto è l’interesse con cui analizza ogni centimetro della copertina del libro che sto leggendo.

Di lì a pochi istanti, mi rivelerà che non è stato tanto il titolo ad attirarla, “Di cuore e di coraggio”, quanto l’associazione insolita tra questo titolo, il quale le ricordava i romanzi rosa che amava leggere da ragazzina, con l’immagine di una stereotipata uniforme arancione da detenuto, tuttavia vuota, senza un corpo che la riempia, e dalla quale si libra uno stormo di uccelli bianchi che attraversano gli interstizi tra le sbarre di una prigione.

“No, non è un romanzo” le rispondo facendo viaggiare a cento all’ora la sua curiosità. “È il racconto di un direttore di carcere e della sua esperienza decennale all’interno di numerosi istituti di pena italiani”.

E via subito che inizia ad incalzarmi ed interrogarmi: perché una ragazza giovane come me dovrebbe interessarsi di argomenti così complessi e ispidi? Perché mai una studentessa ventitreenne dovrebbe aver voglia di frequentare degli uomini che sono reclusi da anni a causa di condanne e sentenze gravose, come ad esempio spaccio, rapina, associazione mafiosa e omicidio? Quale può essere il giovamento di una ragazza derivante dall’incontro con delle persone, in definita, tanto diverse da lei?

E io inizio a chiedermi: ma io e “loro” siamo davvero così tanto diversi?

Durante la mia preadolescenza sono stata protagonista di un evento molto doloroso, il quale mi ha catapultato, senza tanti preamboli, nel mondo dei grandi e mi ha costretta a confrontarmi faccia a faccia con la Giustizia. Sono rimasta segnata profondamente da questo episodio e, durante tutti gli anni successivi fino ad oggi, ho dovuto imparare a combattere contro il retro pensiero immobilizzante che fossi una persona cattiva, maligna, sbagliata e inadeguata.

Tuttavia, più che l’evento tragico in sé, sono state le conseguenze ad essere ancora più distruttive. Le prese in giro dei compagni, l’isolamento sociale perpetrato dagli altri come se fosse una punizione della comunità allargata per ciò che (non) avevo commesso, il continuo giudizio, i pettegolezzi di paese, le dispute tra gli avvocati e la sofferenza dei miei genitori (a nulla erano valsi i loro immensi sforzi per difendere la propria figlia), hanno reso il mio terreno sempre più fertile per la rabbia e l’odio.

Percepivo continuamente una spada di Damocle al di sopra della mia testa, pronta ad infliggermi una punizione da un momento all’altro, e la cosa peggiore era che, in fondo, sentivo di meritare il castigo che di lì a poco sarebbe sicuramente arrivato. Dopo due anni di costante pressione e sofferenza psicologica mi sono convinta che, per essere accettata e lasciata in pace, avrei dovuto incarnare l’immagine della cattiva ragazza che gli altri mi avevano cucito addosso. Ho cominciato così ad uscire con una compagnia di “amici” molto più grandi di me, che non frequentavano mai la scuola ed erano impegnati in attività al limite del lecito.

Oggi mi rendo conto che cercavo di soffocare il dolore di non essere creduta e accettata, anche se vi sommavo altro dolore imponendomi di essere chi non ero, auto-punendomi, come se spargessi il sale su ferite già aperte. Tuttavia, l’enorme sofferenza che provavo reclamava una via d’uscita, e quindi mi ferivo per punirmi e sostituire il dolore fisico al dolore psicologico.

Intorno ai 15 anni, la trama della mia vita ha subito una brusca inversione. Mi sono iscritta in un liceo, pur se a scuola non studiavo mai. Ho cominciato a coltivare nuove amicizie, pur se non mi fidavo di nessuno. Ho incontrato dei professori che mi hanno fatto capire l’importanza di avere una guida credibile e autorevole, pur se fino a quel momento avevo odiato e avevo avuto paura di tutto ciò che rappresentava l’autorità e le istituzioni.

Oggi sono passati un po’ di anni, mi sono laureata con il massimo dei voti, ho al mio fianco una persona fantastica e degli amici che considero la mia famiglia, non di sangue ma per scelta, i quali spesso mi hanno letteralmente salvata nei miei momenti bui.

Ma se non avessi avuto la possibilità di andare in un’altra città a studiare in una scuola attenta al rispetto delle regole? E se non avessi incontrato professori capaci di non farmi più sentire sbagliata, malata, incapace di raggiungere qualsiasi obiettivo e se non mi avessero insegnato ad apprezzare valori importanti come la disciplina, il rispetto e la perseveranza? Se non avessi trovato un gruppo di amici capaci di farmi sentire parte di qualcosa, quando mi credevo non meritevole delle relazioni e del riconoscimento altrui?

Da piccola avevo una sorella gemella. Qualche mese prima che mia mamma portasse a termine la gravidanza, l’Altra Me non ce l’ha fatta e sono nata solo io. Spesso faccio questo gioco nella mia mente, in cui mi immagino che lei si trovi in un universo parallelo e che sia la me che non ha compiuto quella grande inversione a U a 15 anni. La immagino prima come un’adolescente allo sbando, lasciata a se stessa e provata dalla mancanza di guide che la riportino sulla strada giusta, e poi come una tossicodipendente fallita o una delinquente.

È un po’ come il film Sliding doors, non so se ce lo avete presente. È quello in cui, in base alla porta del treno su cui sale il protagonista, il corso della sua vita cambia completamente. Forse è proprio per questo che la voce della signora della sedia gialla ha continuato a domandarmi per giorni quale fosse la differenza tra me e “loro”. Forse si tratta solo di condizioni di vita diverse in cui si cresce, di possibilità fortunate di redimersi e di salvifici incontri con guide credibili che riconducano sulla strada giusta.

Quindi innanzitutto cancellerei la parola “loro”, riferita a questi fantomatici esseri mitologici senza cuore che sono approdati in carcere perché hanno solo saputo fare del potere, del denaro e dell’arroganza gli unici binari della propria vita. La differenza tra NOI esseri umani sta spesso nelle condizioni soggettive e oggettive, ambientali e contestuali, materiali ed emotive a cui siamo sottoposti, le quali influenzano fortemente il percorso di vita verso una direzione piuttosto che un’altra.

Ora che si è detto ciò, potremmo anche concludere che sembra quasi che si tratti, in buona parte, di una questione di fortuna, quella di nascere in condizioni favorevoli al proprio sviluppo. E se accettassimo tale conclusione, non verrebbe facile pensare che noi cittadini civili non possiamo fare niente per prevenire e combattere la devianza?

Tuttavia c’è qualcosa che possiamo fare. Dobbiamo prendere una decisione: o subiamo passivamente ciò che accade all’interno di una società che ci vuole spaventati da tutto ciò che non conosciamo per tenerci lontani e per percepire gli “altri” come diversi, oppure diventiamo partecipanti attivi della nostra società ed esercitiamo il potere di cambiare il mondo e rivoluzionare il pensiero. Badate bene a quale strada scegliete perché, nel caso optaste per la seconda opzione, allora dovrete cominciare ad impregnarvi oggi stesso, seduta stante, a rivoluzionare il vostro pensiero e, di conseguenza, la società stessa.

La cosa più semplice da fare sarebbe quella di impegnarsi affinché quanto più cittadini possibile inizino a portare la società civile all’interno del carcere, contaminandolo come un morbo benefico. È bene che sempre più persone entrino come volontari negli istituti di pena e ascoltino le storie di quei “loro” tenuti tanto lontani da noi da sembrare alieni.

Non abbiate paura del dolore altrui e del male perché soltanto conoscendo e studiando il male, lo si può affrontare con le armi giuste per poi riuscire addirittura a prevenirlo. Studiamo le condizioni che conducono alla devianza non usando come cavie gli ex criminali, ma servendoci del loro aiuto di neonati cittadini responsabili per salvare chi oggi ha bisogno di un salvagente per ritornare sulla terraferma.

Il tempo per diventare una società responsabile è arrivato, ed è oggi.

Mettersi in gioco

Alice Gabriella Viola, Matricola: 831984
Psicologia Sociale, Economica e delle Decisioni
Tipo di attività: Stage esterno

Periodo: dal 12/04/2021 al 12/07/2021
Il Gruppo della Trasgressione, Mettersi in gioco

 

Caratteristiche generali dell’attività svolta (istituzione/organizzazione o unità operativa in cui si svolge l’attività, ambito operativo, approccio teorico/pratico di riferimento):

Più di vent’anni fa, il dottor Angelo Aparo ha messo in piedi il Gruppo della Trasgressione, un’associazione costituita da detenuti, ex detenuti, studenti, parenti di vittime di mafia e comuni cittadini volta al sostegno e al confronto reciproco.

Il gruppo opera in ambito sociale, in particolare in quello carcerario, fornendo un appoggio, un’alternativa di presa di coscienza della quale fruiscono non solo i cittadini reclusi, ma anche quelli liberi.

E’ proprio il percorso di autoconsapevolezza a guidare il lavoro del gruppo: l’ascolto reciproco, la possibilità di esternare le proprie fragilità in un contesto non giudicante e di mutuo aiuto permette di far crescere il gruppo, ma soprattutto di crescere con il gruppo.

 

Descrizione dettagliata del tipo di ruolo e mansioni svolte:
Il Gruppo della Trasgressione non ha una struttura rigida, con ruoli e compiti severamente definiti; il suo punto di forza è lo scambio alla pari, è la possibilità di dare a tutti i membri la libertà di agire in modo creativo nel rispetto dell’altro.

La mancanza di rigidità, che certamente costituisce un metodo innovativo oltre che fruttifero, permette di immedesimarsi nell’altro con minor distacco e pregiudizio, di entrare in contatto con realtà diverse in un modo molto più diretto ed empatico.

 

Attività concrete/metodi/strumenti adottati:
In questi tre mesi di tirocinio ho avuto la possibilità di partecipare attivamente alle attività del gruppo, sebbene l’attuale pandemia abbia limitato fortemente le occasioni di incontrarsi nella sede di via Sant’Abbondio, dove abitualmente il gruppo si riunisce per svolgere gli incontri settimanali.

Fortunatamente, la possibilità di svolgere gli incontri da remoto ha permesso al gruppo di portare avanti i suoi progetti.

Ogni Lunedì, il Gruppo della Trasgressione si riunisce per dare voce ad un dibattito su temi emersi a partire da un film che ciascun membro guarda per proprio conto durante la settimana. Il filo conduttore dei film proposti è il tema della banalità e complessità del male, utile nel far emergere da ognuno le proprie fragilità e generare un confronto costruttivo.

Il martedì, invece, gli incontri vertono su tematiche di varia natura, elicitate dal racconto di un membro, da un progetto in corso o semplicemente da un pensiero condiviso. In questo spazio, ciascuno mette a nudo una parte di sé, dandosi in questo modo nuove opportunità di lettura del proprio vissuto, grazie alla restituzione e al confronto con gli altri.

Il sabato, grazie alla Cooperativa Sociale, alcuni componenti del gruppo vendono “frutta e cultura” al mercato settimanale di viale Papiniano. In questo contesto, il gruppo interagisce con l’esterno e matura la responsabilità lavorativa sostenuta dal percorso parallelo di presa di coscienza. Questa attività, oltre a dare al gruppo una fonte di autosostentamento, costituisce una dimensione dove imparare a collaborare e a condividere responsabilità e soddisfazione.

L’ “officina creativa” è un altro progetto a cui ho potuto prendere parte durante questi tre mesi. Insieme ad altre studentesse tirocinanti, ho avuto modo di intervistare artisti e figure istituzionali riguardo al tema della creatività. L’obiettivo di tale progetto è quello di utilizzare proprio la creatività per prevenire la devianza, il bullismo e contrastare le dipendenze.

 

Presenza di un coordinatore/supervisore e modalità di verifica/valutazione delle attività svolte:
Il dottor Aparo, coordinatore del gruppo, è il punto di riferimento per tutti i membri dell’associazione. Incentivando a mettersi in gioco, mi ha aiutata a comprendere il significato del lavoro di squadra, dell’importanza di dare oltre che di ricevere; con la sua costante presenza mi ha anche reso chiaro l’impegno e la dedizione necessari per svolgere il lavoro di psicologo, facendomi rivivere la passione con la quale ho intrapreso questo percorso di studi.

 

Conoscenze (generali, professionali, di processo, organizzative), abilità (tecniche, operative, trasversali) acquisite e caratteristiche personali sviluppate:
Entrare in contatto con questo tipo di realtà, fatta di verità e determinazione, è stato per me salvifico. Mettermi in gioco e in discussione è sicuramente ciò che più sento di aver appreso durante questi tre mesi: proprio grazie alla modalità con cui il Gruppo della Trasgressione è strutturato ed organizzato, ho imparato ad andare incontro all’ignoto, ad avere fiducia e soprattutto ad ascoltare.

 

Altre eventuali considerazioni personali:
Negli ultimi mesi, prima di intraprendere questa esperienza, avevo perso la fiducia nel cambiamento, non ero più motivata a continuare i miei studi perché la realtà in cui vivevo da qualche tempo non mi dava speranza sul fatto che le persone potessero cambiare.

Conoscere il Gruppo della Trasgressione mi ha fatto ritrovare l’entusiasmo e l’energia di andare avanti nel mio percorso, insegnandomi che il cammino verso il miglioramento è faticoso, ma possibile.

Mi sento dunque di dover ringraziare tutti i componenti del gruppo per avermi fatto ricordare, ognuno a modo suo, che nessuno si salva da solo.

Relazioni di tirocinio