Burattini danzanti

Burattini, burattinai, scelte, libertà.
Ragnatele per catturare burattini,
che diventano labirinti in cui si perdono i burattinai.

Danziamo, seguendo ritmi e melodie,
che ci trascinano fino a farci perdere,
mentre cerchiamo armonie di cui sentirci autori.

Ci deve essere un modo, una palestra, una via
per non sciupare la malinconia,
per una speranza che non sia pura follia,
per un gradino che allarghi l’orizzonte,
senza scordare che non c’è vita senza ponte.

Angelo Aparo

La responsabilità dei burattiniNelle mani del burattinaio
Un labirinto dove si è perso Dedalo – Lo scopo del dolore
La nostra palestraLa galleria di Franco Scoccimarro

 

Te chiedo scusa a Ma’

A Ma’ stasera nun torno
va a letto nun m’aspetta’
faccio ‘n sarto all’artro monno…
Te chiedo scusa a Ma’
c’era n’amico ‘n difficoltà
nun me la sentivo de scappa’…
Erano tutti grossi e muscolosi
c’avevo na paura
se vedeva che erano pericolosi…
M’hanno ammazzato come n’animale
ma che ho fatto de male ?!?!?
A Ma’ hai visto come so piccolo
però so dovuti veni ‘n tanti
co sto sorriso li sdrajavo tutti quanti …
Mortacci loro come menavano
io ar massimo je sorridevo…
Te chiedo scusa Ma’
ma quarcuno li doveva affronta’ …
Quarcuno je doveva fa capì che sbajaveno
c’avevano troppo veleno…
Quello che nun capisco de sta gente
invece de divertisse e ride
vanno in giro a cerca’ e sfide…
Se sentono forti e onnipotenti
ma a strigne so na massa de deficienti…
A Ma’ io volevo solo mette pace
de litiga’ nun me piace…
Aho’ mo non voglio passa’ da eroe
l’ho affrontati
ma c’avevo na paura de sti tatuati…
Poi a Ma’ non ho più sorriso
Ma che se fa così
senza neppure n’avviso
Me so spento
lento lento…
Ancora adesso me sto a chiede er perché
de tutta sta cattiveria e rabbia verso de me…
Ora te saluto a Ma’
Che c’ho da fa’…
Sto a sali e scale
Me devi promette che nun starai male…
Ammazza quante so che fatica
ricorda che la vita nun è finita…
Ogni vorta che te manco pensa a sto sorriso
Che er fjo tuo te sta vicino dar paradiso

Er Poeta Romantico Fastidioso

In ricordo di Willy Monteiro Duarte

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Il nemico comune

Mi chiamo Francesco Castriotta. Sono nato nella zona di Quarto Oggiaro quando il degrado regnava in ogni angolo del quartiere. All’età di 16 anni entrai a far parte di una grossa organizzazione criminale, dove i capi erano persone, o forse diavoli, che con la loro arroganza e il loro potere comandavano e decidevano su chi doveva vivere e chi doveva morire.

Era una delle più grandi piazze di eroina di tutta Italia e lì ho fatto strada! Da allora sono passati più di 30 anni e ancora oggi in molti quartieri di periferia le istituzioni combattono contro degrado, bullismo, arroganza, potere, mafia e narcotraffico.

A volte mi capita di seguire fiction, serie TV, film basati sulla delinquenza e mi domando se per i ragazzi siano un bene o un male. Io ricordo che da ragazzino, di fronte a film e serie TV come il Padrino, Scarface ecc.., provavo un fascino inspiegabile…  volevo essere come loro, arrogante, prepotente e onnipotente.

Oggi, frequentando gli incontri del Gruppo della Trasgressione, ho l’impressione di riuscire a guardare le cose meglio, mi sembra di sapere ascoltare di più la mia coscienza e di dare meno spazio a quei falsi miti in cui ho creduto per anni.  Oggi, quando mi capita vedere uno di quei film con gli occhi che ho adesso, riesco a vedere il marcio che il film denuncia, ma quando si è giovani questo non si capisce!

Allora io chiedo, se possibile, di intervenire prima che si finisca in galera, anche perché non mi sembra che in tutte le carceri d’Italia ci sia un Gruppo della Trasgressione che ti spinge a metterti sotto sopra.

L’arroganza, che in alcuni quartieri nasce e cresce tanto facilmente, è diventata la principale nemica della mia vita, dopo aver contribuito per mano mia alla distruzione della vita di chissà quante persone. E’ quello il nemico che le istituzioni devono combattere!

Per nostra fortuna, qui a Opera ce ne occupiamo al nostro tavolo e con i nostri convegni, ma perché solo adesso e perché solo in carcere?

Francesco Castriotta

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Abuso e Assuefazione

Hannah Arendt parla di “banalità” del male, mentre racconta l’operato di Eichmann, gerarca nazista al tempo dell’Olocausto, che riesce a commettere turpi atrocità continuando a pensare di essere nel giusto:  dal suo punto di vista, egli non faceva altro che “rispettare le regole impartite dall’alto”.

La Arendt lo dice chiaramente: Eichmann non è altro che un burocrate che ha smesso di pensare, non riuscendo più a distinguere fra i valori che favoriscono la crescita delle persone e le ideologie che distruggono la dignità umana, pur se a volte si nascondono sotto una parvenza di legalità.

In fondo Eichmann non faceva altro che far tornare i conti: egli era uno “specialista” nell’organizzare il traffico ferroviario. Nella sua mente diceva a se stesso che il suo compito era solamente quello di muovere treni, mica di uccidere persone! Ed era anche bravo nel proprio lavoro, adempiva diligentemente ai propri “doveri”, quelli assegnatigli dalle autorità.

Mentre Eichmann aderisce completamente all’autorità del momento, il film mostra parallelamente il faticoso tentativo della Arendt di sottrarsi dallo scrivere quello che tutte le sue autorità di riferimento (il redattore del giornale, il preside dell’università dove insegna, i suoi vecchi amici) vorrebbero lei scrivesse: ovvero che Eichmann è un demone, un perverso e malvagio assassino senza scrupoli né coscienza. Ma lei non ci sta e, contro tutti, continua a battersi per ciò in cui crede: Eichmann, più che un “Mostro”, era un Signor Nessuno che, come tanti altri, eseguiva senza porsi troppe domande i compiti che gli erano stati assegnati.

Così, con il suo esempio, la Arendt ci mostra quanto sia difficile opporsi all’autorità, per il potere che l’autorità stessa esercita su di noi. È difficile mantenere la mente aperta al dialogo anche in un paese libero, figuriamoci in una dittatura quale è stato il nazismo.

Ma ciò che ci colpisce è che per Eichmann “opporsi all’autorità” non è nemmeno un’alternativa possibile. Egli non arriva neppure a porsi le domande: “Stiamo sbagliando qualcosa?”. “Sono responsabile?”. Imperturbabile e senza dar segno di sentirsi in alcun modo colpevole, ripete durante tutto il processo: “Io sono nel giusto, non ho fatto altro che eseguire gli ordini, ho adempito alle mie responsabilità”.

Centrale quindi è il tema dell’Autorità. Sembra sia fondamentale possedere prima di tutto un’autorità interiore che faccia da modello, da sestante, da guida, per orientarsi nella realtà e poter così distinguere sul nostro cammino le Autorità che ci chiamano a crescere dai falsi miti onnipotenti che si spacciano per autorità, ma che non hanno alcun interesse per la nostra crescita o evoluzione, e al contrario ci seducono attirandoci su scorciatoie dalla vita breve.

Questo ci porta ad interrogarci sulla “funzione” dell’autorità. Dopo diversi anni di frequentazione col Gruppo Trsg, mi sembra di poter dire che quando l’autorità è cieca, sorda e incapace di rispondere alla propria funzione, due sono le reazioni possibili:

  •  da una parte ci si arrabbia e ci si oppone, si attacca l’autorità e la si disconosce, smettendo così di sentirsi responsabili verso tutte le Istituzioni che quell’autorità deludente rappresenta;
  • dall’altra parte, invece, si inserisce il pilota automatico quale potente “anestetizzante” della coscienza: progressivamente si mette a tacere la mente e si spegne il pensiero. Ancora una volta smettendo di sentirsi responsabili. Delusione e paura spesso contribuiscono a questa progressiva assuefazione, che è in grado di trasformare un “essere umano pensante” in un “automa manovrabile”.

Ma quand’è che l’Autorità ci induce a farci carico delle nostre responsabilità invece che a disconoscerle?

Al Gruppo della Trasgressione abbiamo avuto la possibilità nel tempo di imparare a riconoscere le due funzioni dell’autorità: non solo quella di “punire” e “misurare” quanto grave deve essere la punizione, ma anche e soprattutto quella di “orientare”.

Tanto più, quindi, l’Autorità svolge il proprio ruolo di contenimento e orientamento, ampliando così i nostri orizzonti e rendendoci più “liberi” di coltivare i valori che danno dignità agli esseri umani, tanto più sapremo di trovarci di fronte a un’autorità positiva e autentica. Al contrario le autorità ingannevoli, che ci inducono su una strada che porta a restringere progressivamente i nostri orizzonti, sono facilmente riconoscibili perché ci illudono con facili gratificazioni, ottenibili senza alcun lavoro o fatica; oppure si impongono con la forza, quasi sempre spacciandosi come invincibili e onnipotenti ed essendo nei fatti più autoritarie che autorevoli.

A volte diverse autorità di segno opposto convivono dentro di noi, entrando in conflitto tra loro e costringendoci a scegliere tra il combattere per mantenere vivo il dialogo con la nostra coscienza e lo spegnere il pensiero, favorendo l’assuefazione a ideologie e fantasticherie ingannevoli, che si propongono come facili e allettanti surrogati dei nostri valori.

Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio che ci ha permesso di lavorare a lungo su questo tema. Il mito di Sisifo, attraverso il dialogo tra Sisifo e Asopo, ci ha insegnato a riconoscere e a rielaborare la reazione di opposizione, rabbia e misconoscimento reciproco che provocano le autorità assenti e incoerenti. Sisifo si arrabbia con Asopo fino all’arroganza di farlo inginocchiare, in quanto vede in lui un padre che lo ha lasciato senza acqua e senza cure. Ma alla fine egli diventa anche consapevole che la sua rabbia e il suo ostinato opporsi alle Istituzioni, per via di quella grande delusione subita, lo porteranno solo a ripercorrere all’infinito i propri errori.

Il film della Arendt mi ha fatto però riflettere su quanto sia importante lavorare anche sulla seconda reazione possibile di fronte ad un’autorità deludente: quella del “pilota automatico”, del “burocrate senza pensiero”, dell’assuefazione all’onnipotenza.

Il dialogo tra Asopo e Zeus si presta bene a questo scopo. Asopo, nella nostra versione del mito, sembra aderire senza alcun pensiero critico alle seduzioni dell’onnipotente Zeus, che vende illusioni e si vendica crudelmente contro chi osa disobbedirgli, che esercita il potere utilizzando l’Olimpo come territorio di sua proprietà esclusiva.

A mettere in crisi Asopo, assuefatto e acritico verso gli abusi del potere, è solo la constatazione che adesso gli abusi di Giove riguardano proprio sua figlia Egina. Prima di questo, tutto il dialogo con Sisifo, è una evidente dimostrazione di come possa prodursi una progressiva distanza fra potere e attenzione ai bisogni e alla prossimità dell’altro.

Tiziana Pozzetti

Il mito di Sisifo

Il cineforum su “La banalità e la complessità del male”

Il nostro Mito di Sisifo

Dalla complessità del male alla banalità del male;
dal delirio di onnipotenza alla presa di coscienza.

Il nostro Sisifo tratta temi ricorrenti nelle nostre vite da delinquenti, ma che si ritrovano anche in altre vite, non solo nelle nostre. Ma forse dovrei iniziare parlando di Sisifo e raccontarvi il suo mito…

Ci troviamo nella città di Corinto, in Grecia, dove il re Sisifo viene pressato dai suoi cittadini che protestano per la mancanza di acqua. Durante una delle sue passeggiate, egli assiste per caso a una scena i cui protagonisti sono Giove, massima divinità dell’Olimpo, ed Egina, figlia del dio delle acque fluviali Asopo. La giovane è appena uscita da una lite con il padre, assente e autoritario; la ragazza, arrabbiata e sfiduciata, scappa di casa e incontra Giove, il quale non si lascia sfuggire l’occasione di sedurla, promettendole vita facile fra le stanze dorate dell’Olimpo.

Prima i conflitti fra Asopo ed Egina e, subito dopo, la scena della seduzione mettono in evidenza l’importanza del rapporto genitori-figli e le possibili conseguenze sull’adolescente. L’adulto, che dovrebbe trasmettere valori positivi ed essere una guida per i ragazzi, viene invece vissuto come poco credibile e per nulla rispettabile. L’adolescente, non sentendosi accudito e sostenuto dalla famiglia, si lascia sedurre dalla mira del potere e dei soldi facili o, come diciamo noi, dal virus delle gioie corte, quando invece avrebbe bisogno dell’adulto per comprendere le proprie fragilità.

Sisifo, che ha osservato la scena di nascosto, incontra subito dopo Asopo in cerca della figlia e dopo una serie di reciproche accuse gli propone un compromesso: in cambio dell’acqua per il suo popolo, egli dirà al dio dell’acqua che la figlia Egina è stata portata via da Giove.

Tutto il dialogo è caratterizzato da un gioco di ruoli tra i due personaggi: Sisifo, travolto dalla rabbia per la trascuratezza di Asopo verso i cittadini di Corinto, ma anche dalla voglia di rivalsa e dalla sua stessa arroganza, cade in balìa del delirio di onnipotenza, supera i limiti arrivando a far inginocchiare la divinità ai suoi piedi, che per il bene della figlia si adeguerà alla richiesta dell’uomo.

Questa scelta è inconsciamente dettata da quello che è, come raccontano molti miti, il sogno di ogni uomo ed è, di sicuro, il delirio mai addomesticato di Sisifo: vivere senza limiti, raggiungere l’immortalità, poter decidere, come un dio, della vita e della morte degli uomini

Asopo viene indirizzato verso Giove il quale, accogliendolo con sufficienza, si inalbera quando viene a conoscenza dell’accaduto e decide, visti i problemi che Sisifo sta causando, di farlo uccidere.

Giove interpella il fratello Ade, dio degli inferi, che a sua volta, seppur titubante, si rivolge al suo braccio destro: Thanatos, il dio della morte, al quale comanda di portare Sisifo agli Inferi.

Viene quindi azionata quella che la celebre Hannah Arendt definisce “Catena di Comando”, basata sull’individuo che, succube della società, annulla la propria coscienza morale ed esegue quasi meccanicamente ciò che gli viene comandato.

La vita di Sisifo è ora nelle mani di Thanatos, che ha il compito di ucciderlo, ma che viene tuttavia ingannato e immobilizzato grazie alla furbizia con cui Sisifo circuisce e ubriaca il sicario.

Ma con Thanatos impossibilitato a svolgere il proprio compito, sulla terra non muore più nessuno; chiunque adesso diviene immortale! Giove viene immediatamente avvisato da Marte della gravità della situazione e, dopo una rapida consultazione fra i due, sarà lo stesso Marte a riprendere Sisifo e a portarlo da Giove.

A questo punto Giove, finalmente con Sisifo in suo potere, condanna l’astuto re di Corinto a spingere per l’eternità un masso su una montagna alta e scoscesa, che ricadrà giù ogni volta che arriverà in cima.

Così come avviene nei gironi infernali della “Divina Commedia”, dove le pene che affliggono i dannati dell’Inferno sono assegnate in base alle colpe commesse in vita, anche nel caso di Sisifo, la corrispondenza tra colpe e pene, fra peccato e punizione, pare essere regolata dalla legge del contrappasso: Sisifo, bramoso del potere di chi non muore mai, viene condannato a vivere in eterno una pena senza senso e senza fine.

Ma paradossalmente, quella che sembrava essere la fine della storia, prelude invece a un nuovo e inaspettato inizio: Sisifo, costretto a convivere con questa pena, inizia a dialogare con il masso (che nel nostro lavoro rappresenta la coscienza lasciata a tacere per lungo tempo). La comunicazione tra i due condurrà verso la crescita della coscienza di Sisifo e alla comprensione degli errori commessi.

La presa di coscienza costituisce il passo fondamentale affinché lo sbaglio non si ripeta. Ogni essere umano, infatti, ha la spinta a ripetere situazioni e/o azioni dolorose fino a quando non ne comprende il senso.

Museo di Addis Abeba

Così come avviene tra Sisifo ed il masso, al Gruppo della Trasgressione il detenuto all’interno viene guidato ad interrogarsi sempre e questo conduce all’evoluzione e al conseguente sviluppo della coscienza. Questo processo introspettivo, che a volte somiglia alla “maieutica” di Socrate, porta il soggetto a dar luce a verità interne, del tutto trascurate all’epoca dei reati, e questo renderà gradualmente più leggero il masso, il peso della pena.

Quando si fanno le scelte sbagliate le conseguenze sono inevitabili, questo un detenuto lo sa bene. Frequentare il gruppo comporta un lungo percorso alla scoperta di tematiche molto complesse e importanti, quali: il potere, il delirio di onnipotenza, i limiti umani, la banalità e la complessità del male, l’arroganza e tante altre. I continui reati, governati dall’arroganza, fanno perdere il senso e la misura di ciò che si sta compiendo e allontanano sempre di più dall’altro.

Via via che si pratica il male, si produce un’assuefazione, ci si abitua ed è proprio quando il male diventa abitudine che diviene pericoloso perché non viene riconosciuto come tale. Si assiste quindi al passaggio dalla complessità alla banalità del male.

Approfondendo il mito di Sisifo e conoscendo il personaggio che io stesso ho interpretato diverse volte, ho riscontrato molte affinità caratteriali e comportamentali, che mi hanno portato a riflettere.

Parlando di scelte, spesso non ci rendiamo conto di quanto esse siano importanti, partendo da quelle più piccole, le cosiddette micro-scelte, apparentemente insignificanti ma che conducono verso le macro-scelte, che apportano profondi cambiamenti nelle nostre vite. Possono essere positive o negative e conducono a strade diverse. Esse definiscono in parte chi siamo, ma soprattutto cosa stiamo cercando. Proprio come Sisifo, molti di noi si sono fatti guidare dal proprio delirio di onnipotenza oltre i limiti consentiti, dimenticando la complessità dell’impasto che porta ciascuno a praticare il male, fino ad assuefarsi al suo esercizio quotidiano e ad anestetizzare la propria coscienza.

Passando attraverso l’illegalità, si entra in contatto con realtà difficili, fatte non solo di soldi sporchi e violenza, ma anche di povertà e costrizioni, circoli viziosi in cui si entra con relativa facilità e da cui poi difficilmente si riesce a venir fuori. Ciò comporta l’annullamento della coscienza, proprio come è successo al protagonista del nostro mito e da questo seguono comportamenti messi in atto per il gusto di sentirsi potenti e invincibili.

Tuttavia, prima o poi bisogna necessariamente fare i conti con i propri errori, poiché si arriva inevitabilmente al capolinea e sopraggiungono le conseguenze delle scelte fatte precedentemente.

A questo punto, sono possibili due opzioni:

  • la prima è quella di coloro che, nonostante gli sbagli commessi, continuano a non rendersi conto del male causato e, imperterriti, non appena se ne dà l’occasione, imboccheranno nuovamente le strade della criminalità, senza alcuna presa di coscienza;
  • la seconda riguarda coloro i quali, trovandosi di fronte al grande masso con cui scontare la propria pena e, seppur consapevoli di poter fare ben poco per rimediare agli errori commessi, decidono, come il re di Corinto, di intraprendere un dialogo con la propria coscienza, cercano di ricostruire la  propria storia, di conoscere le motivazioni che avevano indotto alle scelte fatte e di ridare vita ai valori messi a tacere già nei primi anni dell’adolescenza.

Il cambiamento è possibile e le Istituzioni svolgono un ruolo fondamentale insieme a tutti coloro che hanno a che fare con i tribunali e i luoghi di detenzione. Tuttavia è proprio il detenuto a dover compiere dei passi in avanti, che daranno poi il via a tutto il resto.

L’obiettivo del gruppo è l’evoluzione dei detenuti e per questo è necessario che ognuno di noi abbia dei punti di riferimento, “un posto sicuro”, delle certezze e buone relazioni: questo è ciò che con l’Associazione e con la Cooperativa Trasgressione.net si cerca di fare all’interno e fuori dal carcere. Si promuove la cultura, il lavoro, la comunicazione, si torna indietro, nel passato, al male per raggiungere le emozioni dell’epoca perché si ha bisogno di “sentire”, di immergersi nelle proprie emozioni e riviverle per potersi guardare dentro con persone che ti accompagnano nella tua evoluzione.

Marcello Portaro, Katia Mazzotta e Angelo Aparo

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Il cineforum su “La banalità e la complessità del male”

Sliding doors

Anche se non mi è stato possibile partecipare le ultime due volte, ho visto i film delle ultime settimane. Immagino che la discussione sul film di Cucchi sia stata interessante. A me aveva colpito la totale mancanza di fiducia di Stefano nelle autorità, anche in quelle che hanno provato autenticamente a tendergli una mano.

Abbiamo anche visto La terra dell’abbastanza, il film per l’incontro del 6 luglio. Mi sono persa alcune frasi che, a causa della parlata dialettale, non sono riuscita a decifrare. Ad esempio quando banchettano tutti insieme e il boss sceglie i due ragazzi perché loro “non hanno consapevolezza”, poi conclude con una frase che mi è sfuggita.

Alcuni dei film che stiamo vedendo, sia questo che L’Odio, mi lasciano un senso di angoscia; dentro, mi sembra manchi il pezzo dell’alternativa. Se potessimo pensare ad una sorta di “sliding doors”, dove la potremmo collocare nel film? Quando il padre dà il consiglio sbagliato? O prima ancora? Forse lì era già troppo tardi? Quando nasce la “consapevolezza” e di cosa si nutre?

Mirko, il protagonista, mi ha ricordato tante persone che conosco. Un ragazzo, Leonardo, ha fatto l’alberghiero come Mirko e viene da una situazione familiare difficile. Guardando il film, mi sono chiesta cosa avrebbe fatto Leo al posto di Mirko: sarebbe tornato indietro con la macchina dopo avere investito un uomo? Avrebbe poi accettato di seguire il suo amico nel clan?

Chissà quanti ragazzi in qualche momento della loro vita si sono trovati di fronte a un bivio simile a quello in cui si è imbattuto Mirko! Ma alla fine qualcuno va di qua, altri di là. Perché? In fondo, anche Leonardo ha vissuto quotidianamente la notte dei locali e delle discoteche, dell’alcol che scorre a fiumi e delle droghe.

Beh, non lo so perché, ma sta di fatto che Mirko e Leonardo hanno preso strade diverse. Questo per dire che un’alternativa possibile quasi sempre c’è. Penso che a volte abbiamo bisogno di storie che parlino delle alternative, di dove trovarle e come coltivarle.

Tiziana Pozzetti

Il Cineforum

Per quanto voi vi crediate assolti…

“Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti “
Fabrizio de André

Mi aggancio alla citazione finale di De André nello scritto di Manuela per proporre una riflessione ulteriore sul film “L’insulto” di Ziad Doueiri.

Riparto dalle parole finali del giudice del film che prima di emettere la sentenza assolutoria dice:”Qui ci sono due persone che sostengono di essere vittime e ci chiedono di decidere chi ha più torto”.

In questa premessa ci sono a mio avviso due concetti utili per nutrire la riflessione sulla banalità e complessità del male.

Concetto numero uno: “ La dialettica dei pugni”. Ovvero stabilire chi ha più torto ha senso solo se si suppone che esista una sola ragione.

Nel film vengono presentate ragioni opposte, entrambe valide, che determinano un conflitto insanabile finché le posizioni restano orientate l’una contro l’altra.

Nel caso del film le posizioni conflittuali vengono sintetizzate dai due avvocati difensori e sono le seguenti:

  1. Anche se Yasser fosse l’uomo più oppresso de mondo, nessuno gli dà il diritto di farsi giustizia da solo.
  2. Yasser Salem reagisce a parole che hanno offeso la sua identità e quella del suo popolo. Quando si oltrepassa il limite, ci si deve aspettare una reazione. È normale, inevitabile, umano.

Gli avvocati argomentano dialetticamente a favore dell’una e dell’altra tesi: ciascuno segue una traiettoria riconoscibile, sensata, condivisibile a seconda dell’orientamento personale di chi ascolta. Tuttavia ciascuna posizione corre parallela all’altra: è impossibile che si incontrino e si accordino.

La prima affermazione sta alla base dello Stato di diritto.

La seconda ha a che fare con il conflitto tragico da Antigone in poi: ovvero la legge naturale che esiste ed ha valore anche quando entra in conflitto con la legge stabilita.

Mi vengono in mente le parole di papa Francesco che fecero grande scalpore nel mondo cattolico all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo in Francia: “Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri, che è un amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno”.

Nel film è proprio un pugno ad aprire il conflitto e poi è un altro pugno a fargli cambiare rotta.

Il conflitto che per buona parte del film sembra essere insanabile comincia a cambiare direzione quando, dopo una buona dose di dolore e fatica, ciascuna delle parti in causa, Toni e Yasser, riconosce nella propria storia la presenza dei torti subiti dall’altro: solo quando ciò avviene diventa possibile chiedere scusa.

Yasser non era disposto a chiedere scusa a un arrogante che credeva di avere il diritto di insultare lui e il suo popolo: inizia a cambiare idea quando scopre che Toni gli assomiglia. Da parte sua Toni inizia a mostrare che la sua ferita ha qualcosa in comune con quella di Yasser quando decide di aiutarlo a far ripartire la macchina.

Ma non basta questo, Yasser non vuole essere perdonato o compatito.
Prima di chiedere scusa Yasser ha bisogno di sentire la reciprocità: ha bisogno di sapere che Toni è consapevole di non essere né meglio né peggio di lui ma pari, almeno nella sofferenza. Per questa ragione va per la seconda volta alla sua officina, lo provoca e si fa sferrare un pugno. Solo in quel momento, in cui è innegabile il torto di entrambi Yasser chiede scusa.

Personalmente questa scena del film mi ha colpita molto: i due protagonisti si riconoscono nelle spinte problematiche che li hanno reciprocamente portati a sferrare il pugno l’uno contro l’altro è non nelle loro legittime ragioni.

Per quanto prima si sentissero assolti ciascuno dalla propria ragione è a suon di pugni che scoprono di essere coinvolti in un torto comune che provoca dolore.

Concetto numero due: sentirsi vittime

Frequentando il Gruppo della Trasgressione credo di avere imparato che nella mente di chi commette un reato c’è quasi sempre, in qualche forma più o meno chiara, consapevole e sensata, la sensazione di essere vittima di qualcosa o qualcuno.

Questa sensazione di mancanza e/o di sopruso subito e non riconosciuto è una “fame” che autorizza la sedicente vittima a trasformarsi in carnefice che fa altre vittime, le vittime dei reati appunto.

Ma, a reato avvenuto questa “fame” del carnefice/vittima viene disconosciuta da tutti: dal giudice che non è chiamato a giudicarla, dalla vittima che fa i conti solo con il proprio dolore e dal reo stesso che spesso ha bisogno di convincersi di aver agito come ha reagito perché voleva farlo e non perché spinto da una “fame” sulla quale non ha nessun controllo.

Finché il reo non trova le condizioni per fare spazio all’ascolto della propria “fame”, riconoscerla e darle in pasto vissuti differenti, difficilmente riconoscerà la sua e le altre vittime e si muoverà nella direzione del reinserimento nella società.

Mentre il giudice in tribunale può, anzi deve, sulla base della legge decidere chi ha più torto tra le vittime più o meno manifeste, il Gruppo della Trasgressione cerca, in accordo con il dettato costituzionale, di promuovere il riconoscimento di tutte le ferite per permettere di ricucire “lo strappo” avvenuto nel tessuto sociale.

In questo senso, come diceva giustamente Manuela “per quanto noi ci sentiamo assolti siamo per sempre coinvolti”.

Infine, come sintesi dei due concetti di cui sopra, mi viene in mente l’intervento di Paolo in risposta alla domanda di Roberto che si chiedeva come facessero le persone che gli dimostrano stima e simpatia a fare i conti con il terribile passato che lui oggi disapprova ma comunque non rinnega.

Paolo gli ha risposto raccontando di quella volta in cui è arrivato sul punto di uccidere un uomo. Poi ha detto che, per certi versi, il dolore per la consapevolezza che avrebbe potuto uccidere è più pesante del dolore che ha subito per la morte violenta della sorella Emanuela.

È come se Paolo avesse voluto dire a Roberto che oggi loro due possono avere a che fare l’uno con l’altro in modo autentico, non perché Paolo sia disposto a sorvolare sul passato di Roberto o faccia uno sforzo magnanimo nei suoi confronti. Tutt’altro, Paolo può accettare di fare strada con Roberto perché non lascia che il dolore per la perdita di Emanuela gli impedisca di riconoscere le parti più problematiche del proprio sentire. Sono queste infatti che gli permettono di riconoscere Roberto, tutto Roberto, comprese la sua storia passata e la fatica della sua evoluzione.

Sofia Lorefice

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Riconoscersi

Cari tutti, permettetemi di aggiungere qualche riflessione a quelle che sono emerse in questi giorni sulla scia del film L’insulto.

Per la prima volta da quando è stato avviato il cineforum c’è stato una ripresa dei temi sollevati dal film, che ha stimolato diversi contributi, che non avevano trovato spazio in precedenza.

Penso innanzitutto che il gruppo sia importante come crogiuolo in cui vanno a fondersi i diversi punti di vista, ma che al tempo stesso il ruolo principale sia quello di accogliere tutti coloro che su quel palcoscenico mettono in gioco i loro vissuti, con i loro contributi personali, oltre a partecipare all’analisi teorica del film e della trama. Questo è ciò che penso di capire dal richiamo di Juri alla partecipazione di ognuno di noi.

Quanto al film: il ruolo svolto dalle istanze sociali ha dimostrato i suoi limiti, non riuscendo a far progredire, a smuovere oltre la situazione congelata, il cui sblocco può avvenire solo a partire da un cambiamento interiore, dalla rinuncia allo stereotipo, dalla rottura delle convenzioni, degli automatismi, della riproposizione coatta di schemi comportamentali.

Solo nel momento in cui avviene la rinuncia alla reazione attesa, umanamente comprensibile, ma paralizzante e sterile benché immediatamente allettante e gratificante, solo allora si crea il presupposto per un cambiamento fruttuoso, generatore di crescita.

Uscire dagli schemi è tutt’altro che facile perché essi sono molto seduttivi. Costano poca fatica, sono “naturali”, condivisi, riconosciuti, attesi, “umani”. Per giungere al punto di rottura, alla rinuncia, allo “scongelamento” occorre coraggio e la voglia di provare strade nuove, impervie, dove il senso di colpa del “tradimento” della tua carne ti attende dietro ogni curva.

Credo che la scintilla fondamentale stia nel non riuscire più a vivere schiacciati dalle convenzioni, nella solitudine di un dolore che comunque non si placa. Nella coscienza che la formalità retorica non aggiunge nulla alla tua solitudine, non scalda né scioglie il gelo interiore. Da qui nasce il coraggio di percorrere strade nuove. Da un bisogno impellente di provare a cambiare, dalla consapevolezza di non poter reggere oltre il ruolo, dalla necessità di stare meglio, dalla voglia di sfidare la sorte, poiché non hai più null’altro da perdere. E spesso d’istinto.

Riconoscere l’altro al di là degli schemi, riconoscere l’uomo che è in ognuno di noi, tendere una mano a quel coagulo indistinto che intravedi, offrire una possibilità a te stesso prima ancora che all’altro, per uscire dal tuo dolore, per allontanarti dal buio che ti circonda, per cacciare i tuoi fantasmi: è un brivido, qualcosa che rischia di precipitarti di nuovo nella disperazione, ma è l’unica possibilità che ti rimane per crescere, per allontanarti dall’abisso, per salire a rivedere le stelle.

Riconoscere il ruolo, la funzione, la semplice esistenza dell’altro è l’innesco. Scintille capaci di incendiare praterie sconfinate. Faticosamente, passo dopo passo, ti rendi conto che un altro modo di essere e di vivere è possibile, comprendi che altri si muovono specularmente, che può cominciare un dialogo innanzitutto con te stesso, poi col tuo doppio, che il tuo dolore è simile al suo, in quanto frutto di una presa di coscienza, e che la rilettura critica del passato può essere altrettanto dolorosa, figlia di un’ascesa faticosa dal fondo di un baratro e della difficile ricucitura di brandelli di coscienza…

che rispecchiano anni di solitudine, di disperazione e di dolore spesso autoreferenziale, ma che possono aiutare ad innalzarsi fino ad abbracciare l’orizzonte più ampio della comunità violentata e delle vittime.

Paolo Setti Carraro

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Cibo a domicilio…

Cibo a domicilio per famiglie in difficoltà,
i “fattorini” sono detenuti in semilibertà

Il Gruppo della Trasgressione fondato 22 anni fa nelle carceri
ottiene l’incarico e una sede in via Sant’Abbondio

IL GIORNO – Andrea Gianni

Milano, 1 giugno 2020 – Dopo una frenata, c’è una ripartenza. In momenti di crisi, quando tutto sembra immobile, nascono occasioni di crescita. Detenuti delle carceri milanesi in regime di semilibertà o ex detenuti in libertà condizionale hanno ottenuto l’incarico di distribuire cibo a famiglie disagiate a Rozzano e Peschiera Borromeo, riuscendo a garantirsi uno stipendio minimo nei mesi dell’emergenza sanitaria. Un’occasione di incontro tra persone che stanno cercando di ricostruirsi una vita fuori dal carcere e famiglie fragili, che rischiano di finire ai margini.

Un risultato del Gruppo della Trasgressione, iniziativa creata 22 anni fa dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero di detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità, attiva nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore. Oltre all’aggiudicazione dei bandi per la distribuzione di cibo nei due Comuni dell’hinterland milanese, il Gruppo ha ottenuto una nuova sede a Milano grazie al bando di Palazzo Marino “Valori in gioco“. Si tratta di un appartamento in via Sant’Abbondio, zona Chiesa Rossa, che diventerà una base per le iniziative anti-degrado nel quartiere.

“Dopo decenni di sudore, paradossalmente, in un periodo terribile per tutti, il nostro gruppo raccoglie frutti sui quali avevamo quasi perso le speranze”, spiega Angelo Aparo, fondatore del progetto che all’epoca contò tra i primi partecipanti il manager Sergio Cusani, in cella per la maxi-tangente Enimont, e ha offerto un percorso di recupero anche a persone condannate per omicidi e associazione mafiosa. Percorsi fatti anche di incontri con le vittime di reati e di lavoro in aziende partner e nella cooperativa sociale Trasgressione.net, che vende e distribuisce frutta e verdura.
“Con l’emergenza coronavirus il lavoro della cooperativa si è fermato – spiega Aparo – e per fortuna abbiamo ottenuto gli incarichi a Rozzano e Peschiera che ci permettono di sostenerci anche economicamente. In questo periodo non possiamo più lavorare nelle carceri: abbiamo avviato iniziative alternative online come un cineforum sulla “banalità del male“ che coinvolge detenuti, magistrati, studenti e vittime di reati, in attesa di riprendere i percorsi”.

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Nessuno può crescere da solo

Nessuno può crescere da solo
Manuela Re

Mi aggancio al finale del testo di Tiziana, “Nessuno può crescere da solo”, per tessere le lodi del Gruppo della Trasgressione dove ognuno è guidato ad esercitare la propria FUNZIONE -se ne parlava ieri a proposito di Toni che aggiusta l’auto a Yasser nel film (e, tra parentesi, la mia auto di terza mano è stata più volta riparata da Adriano Sannino senza il quale sarei rimasta N volte in mezzo alla strada e invece ora va come una lippa!)- e anche a diventare una guida per gli altri impegnati a combattere i fantasmi del passato. Penso per esempio al progetto Peer Support con i detenuti del Gruppo che entrano nel carcere di San Vittore per stimolare la riflessione e la crescita degli attuali reclusi, ma penso anche a chi è diventata psicologa come te Tiziana e anche Marta e al vs lavoro quotidiano con bambini/adolescenti l’una e adulti l’altra, incarnando in modo mirabile lo spirito del Gruppo.

Come accennavo ieri, credo che quando il conflitto tra le parti è molto aspro e si porta dietro un dolore atavico -come ne “L’insulto”- sia ancora più difficile uscirne da soli. La riconciliazione è possibile ci dice il film, ma occorre fare un percorso difficile di elaborazione e “scambio simbolico” come hai scritto tu Tiziana. Aggiungo che occorre anche che la società -alias tutti noi- svolga una funzione mediatrice e non si limiti a sperare che le parti avverse trovino da sé la strada per tornare a riconoscersi. Nel film le donne provano a svolgere questa funzione, con scarsi risultati d’accordo, ma fanno la loro parte. Anche il datore di lavoro di Yasser ci prova a modo suo, un po’ per motivi economici e un po’ per spinta compassionevole, ma è difficile con chi “a un certo punto inizia a vedere nemici dappertutto, anche in chi stava solo cercando di aggiustarti un tubo… (peraltro tubo abusivo!) …allora forse quel nemico non è lì sotto al tuo balcone, ma è dentro di te, indissolubilmente legato a ciò che sei diventato….” .

Interviene la legge, anche in questo caso con le proprie imperfezioni (è comunque fatta da uomini), ma mi sembra anche con il merito di aver sostituito la parola all’azione/al farsi giustizia da sé, il pensiero al tumulto di vissuti ed emozioni “non bonificate” (cit. Roberto).  E, in qualche modo, contribuisce a interrompere quel “paradosso della coazione a ripetere”.

Cosa voglio dire? Che non credo che i due protagonisti del film sarebbero arrivati ad una riconciliazione senza l’interesse della società civile -cui fanno parte- e la funzione mediatrice che ha svolto.

Ecco, il Gruppo della Trasgressione svolge egregiamente questa funzione, crede nella Legge e, contemporaneamente, ci ricorda con De André che “… Per quanto voi vi crediate assolti  Siete per sempre coinvolti …”

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