Il timone della mia adolescenza

Ricordo ancora il numero telefonico di casa dei miei nonni paterni, dove sono nato e dove ho trascorso infanzia e adolescenza. Tutti i giorni, in orari che mi dettavano i miei stati d’animo, aspettavo che squillasse il telefono (la chiamata di mio padre). Attese deluse, accompagnate sistematicamente dalle stesse mazzate.

Riuscivo a sentire la voce di mio padre grazie ai rimproveri di mia nonna che, almeno una volta a settimana, lo chiamava per ricordargli della mia esistenza e della sua irresponsabile assenza.

La solitudine che paralizzava le mie curiosità e la necessità di sentirmi accudito, cercavo di colmarle con i sorrisi e qualche carezza delle persone anziane del vicinato. Ma più tempo passava e più l’infame necessità di quel riconoscimento prendeva possesso del mio timone.

Iniziai così a farmi “guidare”, come una prostituta accetta la seduzione più proficua, dal miglior offerente: “Robertino, ma tu sei molto intelligente“, ”Aiutami a scaricare queste casse di sigarette che poi ti do 2 mila lire”, ”Bravo Roberto! Stai diventando un vero uomo e più tardi ti porto con me a vedere le corse clandestine dei cavalli “…

E così, pian piano, iniziarono per me le prime chiamate, fin quando arrivò, dopo tanti ”trofei ” conquistati, la vera, illusoria e definitiva chiamata di Lucifero.

Da quel giorno, pur tra improvvisi turbamenti e il delirio che li imbavagliava subito dopo, cominciai a sentirmi protagonista e compartecipe di un progetto chiamato distruzione e che oggi identifico con il mio fallimento.

La complessità del male aveva spianato la strada alla sua indegna banalità, fino a farmi abortire il dolore per la mancanza dell’unica, vera chiamata che, se ci fosse stata, mi avrebbe probabilmente impedito di consegnare il timone della mia adolescenza e della mia responsabilità al primo e più astuto offerente.

Lo 095/317006 non squillò mai e, quando lo fece, purtroppo per lui e me, si interruppe per sempre la linea.

Roberto Cannavò

Percorsi della DevianzaLa Chiamata

Cavarmela da solo

Ciao mi chiamo O. Se devo pensare a una delle prime delusioni, forse alla prima volta che mi sono sentito davvero tradito, è stato all’età di 8 anni circa. Correvano i primi anni 2000 ed io ero un bambino curioso e con molta immaginazione, avevo molti amici nel quartiere, certo non erano dei santi ma erano i miei amici, loro c’erano.

I miei litigavano di continuo e forse per questo vedevo negli amici una seconda famiglia. Un giorno mentre siamo a tavola con mio zio, mio padre insulta mia madre. Lei ferita, nell’orgoglio, prende la bottiglia di vino che stava lì sul tavolo, la rompe e si squarcia il petto.

Tra il vino rosso e il sangue non sapevo più dove iniziava il sangue e dove finiva il vino. Pochi istanti dopo mi ritrovo sull’ambulanza con mia mamma.

Conoscendo già la mia situazione a casa, la polizia porta direttamente mio padre in carcere. Io e mia madre dopo la notte in ospedale veniamo accompagnati in una comunità per madri e figli. Il giorno dopo mi sveglio in questa casa nuova dove non conoscevo nessuno. Che ne sarebbe stato di tutti i miei amici?

Come potevo spiegare delle cose che non capivo neanche io? Mi sono sentito tradito dalla vita, da mio padre, da mia madre. Per molto tempo sono rimasto chiuso nel mondo che mi sono creato. Crescendo, ho cominciato a non fare più affidamento sui più grandi e a cavarmela da solo.

Sentivo che nessuno poteva capirmi, ma allo stesso tempo sono sempre rimasto fedele ai miei amici. Certo non tutti lo sono stati con me, ma sto imparando bene a selezionarli. Per esempio questo gruppo della chiamata mi sembra uno di quegli amici che possono lasciarmi qualcosa di buono e io spero di fare altrettanto.

Reparto LA CHIAMATA  – Percorsi della Devianza

Il mio mito

Caro Dott. Aparo,
mercoledì mi ha chiesto di produrre uno scritto sulla mia vita “vissuta”.

Non sono tanto bravo con carta e penna, ma gli incontri con il gruppo mi stimolino tanto e trovo giusto almeno provarci, non solo per produrre uno scritto, ma più che altro per imparare che ogni limite affrontato può essere anche superato.

Vengo dalla Sicilia, più precisamente da Catania, terra che lei conosce abbastanza bene (abbastanza perché lei rappresenta la parte per bene, io quella fatta di male: una moneta che mostra le due facce).

Quando avevo quattro anni mamma e papà hanno divorziato, e si sa che queste decisioni, quando vengono prese non civilmente, finiscono per ripercuotersi sui figli. Io e mia sorella siamo cresciuti con mia mamma, donna che ha sempre lavorato per provvedere ai nostri bisogni; quindi, per motivi nobili diventava assente nella nostra vita quotidiana, diversamente da mio padre che era assente semplicemente per una sua scelta.

Frequentavamo la scuola delle suore proprio per le necessità lavorative di mia mamma, la scuola delle suore infatti ci teneva impegnati per tutto il giorno, dalle 8.30 alle 18.30 e sapere che noi eravamo a scuola permetteva a mia mamma di sentirsi sicura.

Purtroppo, tante volte si guarda al problema più lontano e non a quello che abbiamo davanti agli occhi, infatti la possibilità di una mia devianza era proprio in famiglia. Mio cugino, il nipote di mio padre, era più grande di me e aveva una visione della vita distorta, deviante: era un rapinatore. Purtroppo, nel nostro contesto sociale è più facile nascondere una devianza che una cosa buona. Con mio cugino ci trascorrevo tanto tempo, ero affascinato da lui, dal suo modo disinvolto che aveva verso la vita quotidiana. Io non ero un bambino stupido, anzi ero molto sveglio: nel quartiere dove sono cresciuto, o eri furbo o eri scemo.

Una volta iniziate le scuole medie mi sono sentito più adulto, in grado di scegliere la mia vita; mentre in me crescevano tutte queste domande, un giorno arriva una risposta tanto concreta: ammazzano mio cugino. In quel momento in me entrò il buio totale, l’odio: il male peggiore. Era stato ucciso il mio idolo, il mio mito, quello che aveva dato un senso a tutto quel vuoto della mia vita.

Da quel momento in me era sparita ogni traccia di quel bambino dalle scelte insicure: sapevo cosa volevo, vendicare mio cugino, l’unico modo per scacciare quel dolore che premeva dentro.

Dopo un po’ anche a scuola la mia rabbia era padrona, infatti alla prima occasione è emersa, esplosa. Una convocazione con la preside per un mio comportamento in classe fu l’occasione per farmi allontanare dalla scuola: alzai le mani sulla preside.

Il mio allontanamento da scuola per cinque anni e gli impegni lavorativi di mamma favorirono la mia “libertà”. Ho iniziato a vivere la strada, meditare sempre di più la mia vendetta. Da quel momento in poi la mia vita è stata un continuo progredire verso la delinquenza, affinché chi della strada era padrone potesse accorgersi di me. Con gli anni si sono accorti di me, del dolore che avevo dentro, della rabbia e dell’odio cresciuto in me, della mia sete di vendetta, alla quale non ho nemmeno provato a resistere quando se ne è presentata l’occasione. Il giorno in cui ho ucciso l’uomo che aveva ucciso mio cugino, mi sono sentito bene.

La mia vendetta era stata fatta, ma anche il mio futuro era stato segnato.

Angelo Cacisi

Percorsi della devianza

Il volto si riscrive

Il volto d’ogni uomo si sciupa e si riscrive
Antonino Di Mauro

Il tempo fugge… e ogni cosa si modifica, si deteriora, cambia: mutano i paesaggi, si alterano le cose, il volto di ogni uomo si sciupa e si riscrive nel sopravvenire delle rughe, così come la sua anima.

Come mai non sono stato capace di proteggere quella bellezza naturale con cui ogni essere umano nasce e che io sento ancora dentro di me? Come sono giunto a tale degrado?

Un ambiente disattento e degradato, salvo per qualche raro caso fortunato, può spiegare la vita di un uomo incrostato nell’animo e indurito nelle sue forme? Di un individuo arrabbiato, che ha letteralmente bruciato la sua esistenza? Che cosa mi aveva ridotto a una tale condizione? Come mai non sono stato capace di proteggere quella bellezza naturale con cui ogni essere umano nasce e che io sento ancora dentro di me?

Certamente ho bisogno di curare il mio essere perché è stato trascurato! Ma come si può curare un uomo cresciuto in balia di se stesso, convinto che le sue scelte fossero quelle giuste e quelle degli altri quelle sbagliate? Come fargli capire che lui il carcere lo ha già nella sua testa e che di questo carcere è lui stesso il carceriere? Quali sono gli strumenti per aiutarlo a crescere a dispetto degli anni, delle scelte, delle trasgressioni di una vita? Per riportare l’animo a una nuova bellezza che dentro di noi vuole tornare a risplendere? Forse una risposta vera e propria non esiste!

L’essenziale, per quella che è la mia esperienza, è ricercare e ritrovare in quello stesso uomo proprio il punto in cui si è perso; nutrirsi dei primi ricordi e riprovare a crescere in maniera naturale proprio dal momento in cui la fiducia nella guida si è spezzata; ritrovare quella stessa fiducia in chi oggi è presente e ti soccorre, in chi crede nella persona che puoi essere e vuoi diventare, e ti tende una mano. E credo che la cultura abbia un ruolo fondamentale in questo processo di ricostruzione e rigenerazione della personalità.

Infine, penso che quell’uomo avrà bisogno del maggior sostegno nel momento in cui avrà piena coscienza del fallimento della propria vita. Dico il maggior aiuto, perché credo sia un momento delicatissimo, dove si può raggiungere la depressione più totale.

Personalmente, potrei dire che fra tutti i miei rimpianti vi è quello di aver trascorso così tanti anni dove sono stato e dove mi sono privato del bello.

Restauro & Recupero  – Cittadinanza Attiva alla Fondazione Clerici