Il mio bagaglio alle colonne d’Ercole

Buon giorno a tutti. Ho varcato la soglia delle colonne d’Ercole, già con l’idea di tornare con il mio bagaglio da esibire: ho visto Caino, l’ho visto rubare, gridare, deridere, uccidere. L”ho visto cantare, ballare, correre in riva al mare. L’ho visto in volto serio, compiaciuto, stolto. L’ho visto sfinito, perso, mesto. Ho visto un tuono, ho visto l’uomo.

Ieri mattina cosi per caso ho scritto “buon giorno a tutti”. È stato come gettare un masso nello stagno, le onde subito si sono propagate. In questo luogo ci sono esseri viventi, ma solo alcuni hanno risposto, i più solerti e molto attenti. Stanotte non ho dormito, questo è ciò che ho partorito. Ho pensato di ripetere l’esperimento, facendo a tutti un dono, l”aggiunta di un commento.

Vai all’indice della sezione

Pedala, sennò cadi!

Pedala, sennò cadi
Nicolas Aureli

Ci sono certe prime volte che non ti rimangono impresse nella memoria, mentre altre difficilmente se ne andranno via. Pochi ricordano la prima volta che hanno comprato un vasetto di marmellata, o la prima volta in cui sono saliti sopra ad un ponte; ma ci sono quelle prime volte che sono così importanti che diventano indimenticabili, un confine da cui si può decifrare con precisione un prima e un dopo (e non sto parlando esclusivamente di quelle prime volte in cui i vestiti sono sparpagliati sul pavimento). Spesso può avvenire un cambiamento così profondo che la persona dimentica completamente come fosse la vita prima di quel determinato evento, quale visione avesse del mondo attorno e un po’ di chi fosse. Voglio raccontarvi di due prime volte, così distanti nel tempo eppure così simili.

Ero un bimbetto di poco più di un metro (circa 80 centimetri fa), di poche parole e una capigliatura che allora non mi sembrava così imbarazzante (o forse ancora non sapevo cosa fosse l’imbarazzo). Come tutti i giorni di primavera gironzolavo in sella al mio biciclino nel solito parcheggio davanti a casa dei miei nonni. Questa volta però non stavo sfrecciando da una parte all’altra… ero fermo, saldamente ancorato al pavimento con tutti e due i piedi e le manine che iniziavano a sudare sul manubrio di plastica. Un osservatore poco attento avrebbe potuto non accorgersi della differenza dai giorni precedenti: lo stesso bambino, nello stesso parcheggio e con la stessa bicicletta.

Ma quella volta c’era qualcosa di meno, così piccolo eppure così importante. Era il primo giorno senza le mie preziose rotelle, il mio unico sostegno. Mi ricordo che nel pomeriggio mio nonno aveva violentato la mia piccola biciletta svitando con un cacciavite la mia sicurezza, lasciando il macabro trofeo sul bancone del garage. “Oggi è il giorno in cui diventi grande” la faceva facile lui, mica doveva trovarsi d’un tratto senza certezze, su una sella dove l’equilibrio non lo dovevi trovare in rotelle di plastica ma dentro di te!

Appena levavo un piede dal pavimento per metterlo sul pedale e la bicicletta iniziava pericolosamente a traballare, riappoggiavo immediatamente il piede a terra. Ero completamente bloccato, i miei timidi tentativi di partenza non sortivano l’effetto desiderato. Più ci provavo e più mi agitavo e più mi bloccavo. “Non devi aver paura, l’hai sempre fatto e sai come si fa!” Bravissima persona mio nonno ma come motivatore era davvero scarsino e banale. Però ho provato ad ascoltarlo. Una gamba, poi l’altra, la pressione sul pedale. I primi giri di ruota e il manubrio che tremava cambiando di continuo direzione. Il terreno che sembrava volesse a tutti i costi abbracciarmi. La gravità che non era mai stata così pesante. Ero instabile e insicuro, non sapevo a cosa appoggiarmi.

“Non ti fermare, se no cadi! Continua a pedalare!” non potevo abbandonarmi ma dovevo faticare e spingere verso il basso quei dannati pedali. Con sempre più convinzione, la ruota iniziava a girare più forte e il manubrio traballava molto meno. Aveva ragione il nonno nella sua banalità! Era davvero una cosa che avevo sempre fatto e che sapevo fare, solo che ora non avevo nulla che mi proteggesse. Et voilà, ho imparato ad andare in bicicletta. Non che non sia mai caduto, anzi, molto probabilmente non mi ricordo nemmeno un centesimo di tutte le volte che mi sono ritrovato sdraiato sull’asfalto (e chissà quante altre volte mi ricapiterà!) ma avevo iniziato ad andare senza rotelle ed ero diventato grande.

L’altra prima volta che vi voglio raccontare è successa a circa vent’anni di distanza dalla precedente. Era una mattina di inizio primavera, una di quelle in cui prima di uscire pensi per 10 minuti se sia il caso di mettersi la giacca invernale o qualcosa di più leggero (e puntualmente sbagli ritrovandoti a crepare di caldo o a lamentarti per il freddo). Via Pusiano 52, alla fine di un vicolo a senso unico c’è l’Istituto Pia Marta, un comprensorio di più edifici su un enorme parcheggio centrale. Le scuole si assomigliano tutte, come con gli ospedali riesci a riconoscerle a prima vista e in pochi secondi riaffiorano tutte le ansie di quando anche tu eri incatenato a quei banchi. L’appuntamento era alle 9:30 del mattino nel piazzale della scuola, ci siamo ritrovati cercando di sembrare più svegli di quanto in realtà non fossimo.

Ci siamo divisi in due squadre cercando di equilibrare gli anni di esperienza al gruppo. L’agitazione si poteva respirare, non c’eravamo preparati nulla ma questo è tipico del Gruppo della Trasgressione. Nell’aria galleggiava una domanda che nessuno ha avuto il coraggio di fare: “siamo davvero pronti?”. Stavamo per andare a fare il gruppo, una cosa che facciamo solo 5 volte alla settimana, in una scuola in cui eravamo già stati alcune volte, con ragazzi che avevamo già conosciuto; eppure era una cosa così diversa e nuova che nessuno si sentiva certo del risultato.

Quel giorno mancavano le preziosissime rotelle. Il fondatore e conduttore del gruppo, leader, psicoterapeuta e tante altre parole altisonanti, Juri Aparo oggi non ci sarebbe stato. Provare a descriverlo è molto più difficile del risolvere equazioni di secondo grado. C’è chi l’ha definito “bizzarro”, di sicuro non è la parola esatta ma è anche una delle prime che ti vengono in mente. Un concentrato di imprevedibilità che difficilmente si riesce a trovare in una persona sola: al gruppo non puoi MAI rilassarti, da un momento all’altro potresti ritrovarti a dover recitare una scena di Sisifo mentre pochi minuti prima si stava parlando della differenza tra le arachidi e le mandorle. Ma il prof è tanto imprevedibile quanto carismatico, qualsiasi membro del gruppo si farebbe senza battere ciglio da Opera al Duomo di Milano a piedi se te lo chiedesse. Con questo mix il prof riesce a gestire ogni situazione, qualsiasi imprevisto. Potrebbe benissimo parlare per 40 minuti di un tovagliolino del bar della stazione dei treni di Molfetta senza alcun problema. Spesso non capisci quale sia la direzione che stia prendendo, dove voglia arrivare o cosa capiterà tra pochi minuti ma sai che qualcosa uscirà fuori. La sua presenza è una sicurezza di riuscita, un paracadute che in qualsiasi situazione ti salverà.

Beh, oggi il prof non ci sarebbe stato, quindi si può ben capire di quanta responsabilità fosse caricato ogni componente del gruppo. Ognuno di noi doveva prendere in mano un remo per dare alla nostra zattera una direzione anche senza il suo “capitano”, per far capire che non siamo solo un mucchio di legnetti legati con un po’ di spago ma siamo un vero e proprio gruppo.

Suona la campanella, sono le 10 e dobbiamo entrare. Come sempre ci mettiamo in cerchio attorno a un tavolo su cui gettiamo un po’ di caramelle e qualche interrogativo sulla vita. Arrivano i ragazzi, si siedono tra di noi e dopo poche parole questa distinzione tra noi e loro cade. Questa è la magia del gruppo, qui sono tutti umani con le proprie colpe, i propri dubbi, le proprie idee e le proprie passioni. Puoi essere una persona che ha fatto piangere tante famiglie o puoi essere una che non schiaccerebbe nemmeno un moscerino che ti sta tormentando, ma a quel tavolo siamo tutti sullo stesso livello, siamo tutti uomini. Studenti, detenuti, volontari, tirocinanti, ex detenuti, tutti lì seduti su quelle scomode sedie a parlare di quella cosa così strana che è la vita. È la bellezza del gruppo.

Per conoscerci abbiamo messo sul tavolo la nostra storia, per aprire agli altri una piccola finestrella su ciò che siamo stati e ciò che siamo ora. Eravamo saliti sul sellino e stavamo iniziando a pedalare, come sempre i primi giri di ruota sono incerti. Il manubrio traballa, prima troppo a sinistra poi troppo a destra per raddrizzarsi. “Continua a pedalare! Non ti fermare, se no cadi!” E allora fai quello che hai sempre fatto: pedali!

I ragazzi sono stati fantastici (quei ragazzi segnalati dalle insegnanti perché più difficili ma che forse hanno sempre e solo avuto bisogno di poter parlare ed essere ascoltati), non abbiamo dovuto spiegare loro nulla, ognuno ha preso lo spazio che più gli si addiceva. Come le piante, alcune hanno bisogno di una luce intensa per poter fiorire; altre muoiono se le metti al sole mentre nella penombra riescono a sbocciare. Eravamo tutti interessati e partecipi a quelle storie così diverse dalla nostra eppure così vicine. In pochissimo tempo abbiamo visto i ragazzi aprirsi come spesso nemmeno dopo anni di terapia. Storie così toccanti che spesso avrei voluto gettare il mio cuore per terra per non sentire tutte quelle cose. Ma la cosa giusta da fare è l’esatto opposto, bisogna strappare un po’ di quella sofferenza e prenderla sulle proprie spalle per alleggerire chi la sta raccontando. Da soli non si riescono a combattere i propri demoni. Il gruppo è un valido alleato, ti fa capire che c’è qualcuno che ti ascolta, che ha già combattuto i propri demoni e che può allungarti una mano per aiutarti.

Quel giorno abbiamo dimostrato che il gruppo riesce ad andare anche senza le rotelle. Ognuno ha dovuto fare qualcosa in più del solito senza la protezione di una guida sicura. Ognuno di noi era una parte della bicicletta, le ruote che sembravano più gonfie del solito, il manubrio che assecondava meglio la strada, i freni che rallentavano senza inchiodare e la catena che girava come se gli avessero messo l’olio da pochi minuti. Ogni pezzo doveva sopperire alla mancanza di quelle rotelle su cui si poteva sempre contare. L’equilibrio ora dovevamo trovarlo dentro di noi e negli altri pezzi della bici. Avevamo interiorizzato le rotelle!

Lungi da me dire che ora il gruppo può fare a meno di un sostegno, ma di sicuro abbiamo dimostrato che la bicicletta sa correre anche da sola. Perché sono state proprio quelle rotelle ad averci insegnato a pedalare, quelle rotelle trasformano i sassi in menti che pensano. Abbiamo imparato che spesso le domande sono più importanti delle risposte, che spesso siamo troppo ancorati a risposte preconfezionate, che non sappiamo più dire quello che pensiamo se nessuno ce lo suggerisce.

Al gruppo non è importante il risultato ma il processo che l’ha portato, la fatica che si è fatta a mettersi in gioco, il lavorio delle teste che fumano a forza di pensare. Non siamo discepoli che ascoltano un messaggio ma persone che mettono in discussione ogni cosa di cui si parla senza per forza arrivare a una soluzione. Non vorrei abbandonarmi a banalità e frasi alla baci Perugina (cosa che per i miei gusti ho già fatto fin troppo nelle righe precedenti) ma le circostanze mi obbligano: al gruppo, come in bicicletta, a volte diventa davvero più importante il tragitto che la destinazione.

Per concludere questa relazione (che ormai si è trasformata in una vera e propria dichiarazione d’amore), voglio dire che il lavoro con la scuola Piamarta è stata una delle esperienze più arricchenti che abbia mai fatto e sarebbe una tragedia interrompere qui un percorso che sta già dando dei frutti succosissimi.

Torna all’indice della sezione

Un gioco di squadra al Piamarta

L’esperienza con gli studenti del “Piamarta” si sta rivelando estremamente coinvolgente. Innanzitutto perché per la prima volta noi del Gruppo della Trasgressione stiamo interagendo con ragazzi che si trovano già concretamente al confine tra il continuare la propria evoluzione o perdersi; poi perché confrontandomi con loro e percependo chiaramente il loro disagio, sto rivivendo il malessere che ha caratterizzato la mia infanzia e la mia adolescenza, rendendomi facile preda della devianza.

Nell’ultimo dei quattro incontri che abbiamo avuto sinora con questi giovani, abbiamo avuto una prova di maturità dei membri del Gruppo poiché, per la prima volta, ci siamo confrontati con loro senza il supporto del dott. Aparo, che coordina il gruppo da vent’anni e da quasi quaranta lavora come psicologo nelle carceri.

Nell’ultimo incontro, membri del nostro gruppo e studenti si sono divisi in due gruppi. Quello di cui ho fatto parte, sin dall’inizio l’incontro, si è svolto sorprendentemente bene. Abbiamo rotto il ghiaccio dicendo, semplicemente, il nostro nome, cosa che poi, riflettendoci, non è così banale, poiché il nome è la prima forma di riconoscimento individuale e ricordandosi come si chiama la persona con cui ti relazioni è come se gli dicessi: “io ti riconosco tra tanti!”

A turno ognuno dei partecipanti ha raccontato qualcosa di sé e, man mano che le testimonianze andavano avanti, i ragazzi entravano sempre più in profondità. Ascoltandoli parlare, sono riuscito a immedesimarmi nelle loro storie perché anch’io sono cresciuto con la sensazione costante di essere fondamentalmente solo. Non nascondo la mia preoccupazione, perché in questa fase della loro vita questi ragazzi sono veramente in pericolo; al punto in cui sono, è sufficiente un evento che in qualche modo li turbi per scaraventarli negli abissi dai quali difficilmente si può risalire.

Nonostante il disagio che vivono, durante l’incontro ponevano anche delle domande che dimostravano per la loro pertinenza l’attenzione con cui ascoltavano. La cosa che ho percepito maggiormente è il bisogno dei ragazzi di essere ascoltati senza essere giudicati; inoltre, penso sia fondamentale non minimizzare mai i loro problemi e instaurare un rapporto paritetico che, oltre a farli sentire “riconosciuti”, permetta loro di sentirsi parte integrante di un mondo dal quale, purtroppo, ricevono continuamente messaggi fuorvianti.

Penso che il compito principale del gruppo, a maggior ragione di noi detenuti riemersi dalle nostre vecchie paludi, sia di infondere nei ragazzi quella fiducia in se stessi che noi, “Beni confiscati alla mafia” come ci ha affettuosamente definito il dott. Aparo, non abbiamo avuto durante la nostra adolescenza.

La nostra “rinascita” dimostra che, nonostante il mondo sia abbastanza incasinato, quando una persona incomincia a dialogare con se stessa e con le proprie fragilità, e a intrecciare relazioni che favoriscono la nascita di progetti a lungo termine, è possibile trovare la propria strada senza aver bisogno di cercare la felicità. In questo modo si può può fare facilmente a meno di quella strana e perversa eccitazione alla quale puntano le persone in difficoltà, ricorrendo all’uso sistematico della violenza e dell’arroganza o di sostanze che, non solo ci distruggono fisicamente e psicologicamente, ma ci allontanano ogni giorno di più gli uni dagli altri, rendendoci sempre più sordi ai segnali che la coscienza ci invia.

Ho la netta sensazione che con questi giovani possiamo costruire una base che ci consentirà di sostenere il peso del loro malessere di oggi e delle nostre scelte sbagliate di ieri con le quali i membri detenuti del gruppo devono convivere; ritengo, altresì, che attraverso il loro recupero io e i miei compagni potremo risanare in parte le ferite emotive della nostra infanzia e dare un valore al nostro folle passato, recuperando ulteriori energie per essere sempre più incisivi nella lotta contro la devianza e gli effetti collaterali che essa comporta.

Senza empatia è impossibile scardinare i meccanismi difensivi distorti che ognuno a proprio modo e spesso inconsciamente adotta. Solo mettendosi in gioco totalmente si può convincere un ragazzo a comunicare il proprio malessere e a indirizzare l’energia della rabbia che si porta dentro verso obiettivi funzionali alla sua evoluzione.

Certamente noi del gruppo dobbiamo essere consapevoli della grande responsabilità che abbiamo nei confronti dei giovani; per questo è necessario che ogni membro del Gruppo della Trasgressione ricordi sempre che solo facendo gioco di squadra possiamo riuscire nel difficile compito che ci spetta e per il quale, in un certo senso, ci prepariamo da anni: evitare che questi ragazzi distruggano la vita degli altri e la propria.

Torna all’indice della sezione

Il mito di Sisifo a Buccinasco

Genitori e figli, insegnanti e allievi, cittadini e istituzioni
al teatro Fagnana per un’alternativa alla fatica di Sisifo

Il lavoro del Gruppo della Trasgressione sul mito di Sisifo, avviato nell’intento di intercettare fantasie antiche, è diventato nel tempo uno strumento formidabile per riflettere sul presente e per recuperare passaggi centrali di chi ha perso la fiducia nelle istituzioni e nel proprio futuro. 

Le vicende di Sisifo sono diventate un racconto nel quale specchiarsi, motivando studenti e detenuti del gruppo a indossare i panni dei diversi personaggi e a interrogarsi sul problema della siccità a Corinto, sui conflitti di Sisifo con Giove, degli adolescenti con il limite e l’autorità, del cittadino con le istituzioni, dell’uomo con i suoi bisogni terreni e le sue ambizioni di eternità.

Sul mito di Sisifo

La radice

La radice, di
Gabriele Tricomi

Confinato nel sottosuolo sono
Invisibile. Al di sopra, fuoco e
Fiamme divorano le mie creature.

Il terreno si riscalda, sento
Cadere alberi e foglie bruciare
Sono solo una radice e non so dove
altro andare.

Di colpo qualcuno compare, ma
Non sono certo di potermi fidare.
Le talpe! Mi rodono! Decido di
Scappare.

Il primo pezzo di me va in
Superficie, si guarda intorno, ma
Tutto gli appare nero e bruciato.
Che brutto deserto lassù si è
Formato.

Torno indietro e mi lascio rosicchiare?
O rimango qui e continuo a lottare?

Ho deciso! Sono una radice e
Continuerò a germogliare.

Coming out

La cappella del Lazzaretto

IL RESTAURO ALLA CAPPELLA DEL LAZZARETTO

logo_restauro_colore472b

 

 

 

 

 

 

Restauro e recupero

logo_restauro_colore472b

Progetto: Restauro e Recupero
Proponente: Cooperativa Sociale Trasgressione.net
Indirizzo: Via dei Crollalanza 11 – 20143 Milano
Presidente: Angelo Aparo
Responsabile Progetto: Vittorina Bertuolo
Data inizio progetto: Gennaio 2013

 

OBIETTIVI DELL’INIZIATIVA E CAMPI D’INTERVENTO

Formare, attraverso un breve percorso di studio teorico e, soprattutto, attraverso l’esperienza sul campo, un gruppo di persone eterogeneo, detenuti e non, in grado di operare a vari livelli nell’ambito del restauro. In questo modo le conoscenze e le competenze della squadra di lavoro aumentano e si integrano giorno per giorno, mentre vengono applicate sul campo e mentre si impara a riconoscere il valore di beni abbandonati, a recuperarli dal degrado e a proteggerli.

Data la vastità e complessità del campo in cui si vuole operare, si ritiene opportuno circoscrivere l’ambito d’intervento agli edifici storici e, più precisamente, al recupero degli intonaci, del materiale lapideo e dei metalli.

Lavorare al recupero è, sul piano simbolico e fattuale, l’attività che meglio si sposa con gli obiettivi del Gruppo della Trasgressione: scrostare, recuperare, riattivare risorse e funzioni coincide infatti con i nostri obiettivi primari, a maggior ragione se tali interventi promuovono la collaborazione e il reciproco riconoscimento fra cittadini di diversa provenienza; implementano le competenze del gruppo di lavoro in campo storico e artistico, oltre che sotto il profilo tecnico.

 

FASI PROPEDEUTICHE E OPERATIVE

Le squadre di lavoro vengono formate all’interno degli istituti penitenziari. Con immagini e brevi filmati, sono presentati in carcere i vari tipi di intervento, i materiali, le modalità di applicazione, ecc.

La formazione vera e propria, tuttavia, avviene sia sul piano pratico che teorico soprattutto con l’esperienza in cantiere.

Condizione fondamentale per la riuscita del progetto è l’acquisizione dei cantieri che, inevitabilmente, passa attraverso l’appoggio delle istituzioni e degli alleati del gruppo.

 

PRIMI RISULTATI

A distanza di tre anni dall’avvio, ecco i primi risultati tangibili del laboratorio di restauro. Accanto a questi, pur se più difficili da quantificare, vanno conteggiati benefici in termini di formazione professionale e umana maturati dai detenuti che hanno preso parte all’iniziativa nonché la ricaduta di tale maturazione sui loro figli e sulla società in generale.

 

 


 

 


 

 

Torna all’indice della sezione

Non ci basta!

Non ci basta è un libro on line sulla tossicodipendenza, la cui architettura è costituita soprattutto da:

  • le osservazioni, le curiosità, le domande dei componenti del gruppo che partecipano all’indagine sulla tossicodipendenza;
  • il riassunto e la storia delle teorie più diffuse e delle prassi terapeutiche più accreditate sulla tossicodipendenza;
  • le affermazioni che non li convincono;
  • i punti di contatto fra quanto si dice sulla tossicodipendenza, le dipendenze adiacenti (alcol, gioco) e i vizi meno dichiaratamente patologici  delle persone comuni;
  • le risposte che gli studenti mettono insieme consultando quanto è stato già scritto sulla materia;
  • i punti che rimangono comunque insoluti.

Il libro dovrebbe essere “fotografato” con scadenze periodiche, così da permettere agli studenti di riconoscere facilmente quanto, a fine corso, sarà cresciuta la loro competenza sulla materia.

 

Torna all’indice della sezione

Mandati di cattura

Ho saputo ieri dell’indagine sul conto di persone che hanno frequentato il gruppo nel recente passato e sento che non può essere ulteriormente rimandata la riflessione sulla difficoltà di emanciparsi dalla spinta a delinquere senza un innaffiamento continuo delle attività che alla delinquenza fanno da argine. Avevano smesso di frequentare il gruppo, ma lo hanno frequentato per anni e ciò non è bastato.

Se non possiamo riflettere insieme con le autorità istituzionali e strutturare con loro un piano, tanto vale chiudere il Gruppo della Trasgressione: responsabilità, rischi e frustrazioni a iosa, in cambio di quasi nulla! Ho bisogno di riflettere con le istituzioni, non per essere consolato ma per un progetto di cui possa essere verificata la consistenza.