Nel trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e via D’Amelio (simbolo di una memoria collettiva rivolta a tutte le persone perbene, uccise da mani mafiose), rimetto in ordine alcuni appunti e li affido – sempre più fiducioso – alla nostra capsula del tempo
Accadde che un pomeriggio di fine aprile 2022 Angelo Aparo detto Juri, con quel tempismo organizzativo che tutti gli riconosciamo, mi chiamò chiedendomi se “avessi piacere” a presenziare il 25 maggio successivo ad un incontro a Roma presso il Senato della Repubblica e a dire qualcosa.
Quando ho riattaccato il telefono, dopo avergli detto di sì meravigliandomi di ritrovare in agenda proprio quella giornata libera da impegni di udienza, mi sono chiesto se per questo incontro avesse pensato a me come magistrato o come cittadino: la domanda è solo apparentemente mal posta perché, se mi guardo indietro, ho conosciuto prima il Gruppo della Trasgressione e, solo dopo un anno, sono diventato pubblico ministero per aver superato un concorso pubblico.
Ed in effetti fu proprio grazie alla lettura del libro “I pugni nel muro” che esattamente 20 anni fa aiutai un Professore di una scuola superiore a portare una sua classe nel carcere di San Vittore, perché ritenevo importante anche io – ai tempi solo un educatore, anche se laureato in giurisprudenza – che dei giovani potessero avere occasioni di “aprire gli occhi” sul mondo che li circondava.
Di questo mio primo incontro con i detenuti del Gruppo ho già scritto una volta:
Ricordo ancora perfettamente 40 minuti fitti fitti a sentire parlare, tra le altre cose, di uno psicologo che aveva fondato un Gruppo detto addirittura “della Trasgressione” e ad un certo punto, seduto fino a quel momento in silenzio intorno al tavolo, una voce che soddisfa la mia curiosità: “il dott. Aparo sarei io”.
E’ capitato a molti di scambiare Juri per un detenuto, e così è capitato a me fino a quando l’ho sentito prendere la parola.
E non è stato amore a prima vista, si badi bene… questo lo ricordo sempre perché a quell’incontro ne seguì un altro, nei mesi successivi in un bar vicino al carcere, che suggellò quello che in altre occasioni ho definito “un patto tra macellai”.
Nella mia incoscienza educativa proposi [ad Aparo] uno scambio di prigionieri: carne giovane di giovani scout in cerca d’autore vs. carne meno giovane ma ugualmente interessante. I primi prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19/20 anni, i secondi prigionieri di mura troppo strette. Entrambi però desiderosi di evasione, e – sia pure in quella prima fase inconsapevolmente – di mettersi a nudo fino al punto di farsi tagliare a piccoli pezzi da questa prospettiva di cambiamento interiore.
Nonostante queste premesse e la circostanza che poi superai anche il concorso per magistratura, l’idea (nostra, perché in fondo in fondo so per certo che lui non aspettava altro per il Gruppo) risultò vincente: partimmo nel marzo dell’anno dopo (2003) con il primo incontro in carcere, e da quel momento non abbiamo mai smesso […].
Questo fiume vitale [di giovani, entrati negli anni in carcere] condusse, quale dono della moltiplicazione, all’approdo del Gruppo della Trasgressione in molti istituti scolastici. Ed impagabile fu per me il piacere di constatare che un gruppo di criminali riusciva ad incidere sull’indole di adolescenti, in 3 ore di “lezione” nelle classi, molto più di quanto gli insegnanti in un triennio.
All’esito di questo mio cammino ventennale, a me sembra importante (e spero utile) mettere ordine ad alcuni accadimenti – di cui posso dirmi testimone diretto in quanto legati alla mia frequentazione con il Gruppo della Trasgressione – i quali con il tempo hanno generato nella mente (e anche nella pancia) di un pubblico ministero questi due spunti di riflessione.
Il primo parte da un passaggio dell’intervento (a ricordo dell’impegno sociale e culturale di Francesca Morvillo con i più giovani) che ho sentito pronunciare dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia lo scorso 6 maggio quando anche io mi trovavo nell’aula bunker di Palermo all’esito dell’incontro dei Procuratori europei del Consiglio d’Europa:
“C’è un nesso tra educazione e contrasto alla criminalità che non dobbiamo stancarci di coltivare.
E c’è un nesso tra rieducazione dei detenuti e sicurezza pubblica che dobbiamo imparare ad apprezzare in tutta la sua portata, come ci indicano anche gli strumenti internazionali […]”.
Vorrei concentrarmi sulla prima frase e, dalla mia particolare prospettiva di pubblico ministero, affermare che questo “nesso tra educazione e contrasto alla criminalità” deve necessariamente essere coltivato a partire dalla formazione degli studenti di giurisprudenza, prima che essi intraprendano il percorso per diventare magistrati (ma anche, lasciatemelo dire, avvocati).
Questa idea, che forse può apparire a prima vista un poco astrusa, io la voglio invece con forza ricollegare al bel titolo di questo incontro in Senato – “una mappa per la pena” – perché mi ricorda quando, alcuni anni fa, proprio con il Gruppo della Trasgressione siamo andati in un Istituto di istruzione superiore a Sesto San Giovanni a passare un intero pomeriggio solo perché una Professoressa (che si chiama Sofia Lorefice e che conobbi, quattordici anni prima, quale giovane scout partecipante ad uno dei nostri primi incontri in carcere) si era messa nella testa che si potesse parlare di Cittadinanza e Costituzione agli studenti del quinto anno anche in questo modo, ossia grazie ad un incontro di testimonianze apparentemente diverse.
Io arrivai a quell’appuntamento con un passaggio di un intervento di Piero Calamandrei (tenuto alla Assemblea Costituente nella seduta del 4 marzo 1947) il quale ricordava a tutti noi come la Costituzione è fatta anche di disposizioni cd. programmatiche e tra esse, a mio modesto avviso, è compreso anche l’art. 27 comma 3. Calamandrei propose di inserire questo tipo di disposizioni non già nella forma di articoli ben determinati ma in una sorta di Preambolo. Ma poi, proprio in questo intervento, spiegò chi riuscì a fargli cambiare idea e come:
Ecco, nell’essere pionieri in questo nostro viaggio dovremmo iniziare a distribuire queste mappe sulla pena nelle aule universitarie, prima che nei Tribunali. Perché, allo stesso modo, anche quando siamo andati – grazie, questa volta, ad un fecondo protocollo di intesa tra le università milanesi e l’associazione Libera – un intero pomeriggio all’Università Bicocca di Milano ad accompagnare alcuni Familiari delle vittime della criminalità mafiosa (ricordo, in particolare, Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani) ho percepito, alla fine della profondità dei loro interventi, la fortuna che quei giovani studenti di giurisprudenza avevano avuto proprio grazie quell’incontro.
Fortune che, per esempio e per quanto possa qui valere, io non ho avuto: diversi Professori (da Federico Stella ad Angelo Giarda) mi hanno lasciato un segno indelebile nel diritto e nella procedura penale ma quanto a tutto il resto (che oggi è al centro di questo nostro ragionamento) io personalmente lo devo ai casi della vita e non alla struttura precostituita del mio percorso universitario.
Concludo allora questo primo spunto con una rivelazione per quei detenuti del Gruppo che erano a Sesto San Giovanni quel pomeriggio del 2019: alcuni mesi fa, mentre ero in ufficio in Procura, verso le 13 bussa alla mia porta un ragazzo che mi dice: “sono venuto in Tribunale per un convegno, lei sicuramente non si ricorda di me ma volevo dirle che dopo quell’incontro nella nostra scuola mi sono deciso ad iscrivermi a giurisprudenza. Buon pomeriggio e grazie”. Ecco, ve lo dico oggi perché se poi Giacomo diventerà un magistrato lo avrete anche voi sulla coscienza!
Questo poi lo dico anche perché ricordo perfettamente, una decina di anni fa, la posizione di alcuni magistrati (sia pure autorevoli) contrari al fatto che gli allora uditori giudiziari (oggi magistrati ordinari in tirocinio) cominciassero a svolgere – per la prima volta rispetto a quanto era sempre avvenuto in passato – una parte del loro percorso formativo dentro il carcere, perché (si sosteneva) era importante rimanessero “non psicologicamente condizionati” in tal senso.
Per quanto mi riguarda, posso dire – come avrete ormai capito – di avere una fitta frequentazione (non solo nel mio lavoro quotidiano ma anche quando poi, quantomeno un fine settimana all’anno, mi metto le scarpe da tennis e vado a partecipare ai lavori del Gruppo in carcere) con persone detenute per aver commesso dei reati ma di stare invece, nonostante questo tipo di frequentazione, dalla parte delle vittime.
“Io, tra vittima e carnefice” è appunto il titolo di una mia riflessione che accompagna un importante lavoro che, insieme a Juri Aparo e altri due professionisti (il criminologo Walter Vannini e il giornalista Carlo Casoli), nel 2017 – dopo una gestazione di oltre 7 anni – fa abbiamo regalato alla città di Milano, a Libera, all’Agesci e a tutte quelle altre realtà educative interessate a far capire cosa succede – nel tessuto sociale – ogni volta che viene commesso un reato.
Questo lavoro è racchiuso in 63 minuti di un documentario, liberamente fruibile in rete dal sito lostrappo.net, che appunto si intitola “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”. Abbiamo rivolto le stesse tipo di domande a chi ha subito un crimine, a chi lo ha commesso (e qui il documentario è ricco di interventi di molti detenuti del Gruppo della Trasgressione, ripresi nei loro ragionamenti durante alcuni incontri), a chi è chiamato ad amministrare giustizia e a chi invece è chiamato, nel mondo dei media, a raccontare a tutti noi questi fatti.
Tutto questo materiale è stato montato da 4 bravissimi professionisti (che si fanno chiamare Dieci78) in maniera tale che, come ha scritto in una acuta recensione Manuela D’Alessandro,
“i protagonisti dello ‘Strappo’ hanno una cosa in comune. Si cercano tutti, in uno strano girotondo, anche per maledirsi, e si toccano tutti anche solo per vedere com’è la pelle dell’altro”.
E arrivo allora al secondo spunto di riflessione, che questa volta mi chiama in causa direttamente come pubblico ministero (e non più come, in un tempo ormai lontano, studente di giurisprudenza): cosa ci faccio io in questo “strano girotondo”?
E questo spunto di riflessione lo ricollego, ancora una volta, a quella “intervista sulla punizione” a cui il Gruppo sottopose me – insieme ad altre persone, a dire il vero molto più esperte di me su quel tema – nel 2005. Io ero alla fine del mio primo anno in Procura a Milano dopo la presa di possesso come pubblico ministero e già mi sembrava che qualcosa non tornasse nel modo in cui l’art. 27 comma 3 della Costituzione venisse “declinato” nella pratica.
Sarà che, per la mia tesi di laurea, ho lavorato più di un anno presso il Tribunale per i minorenni di Milano per “confutare”, numeri alla mano sui tassi di recidiva, il pensiero di un magistrato che riteneva che la custodia cautelare per un soggetto di minore età potesse avere, a differenza di quanto di regola non avviene per i maggiorenni, una efficacia “educativa”.
Ma al di là di questa mia esperienza pregressa, la domanda era e rimane anche oggi questa: a chi si dovrebbe rivolgere l’art. 27 comma 3? A quale magistrato questa norma, appunto e sempre nell’ottica del Sommo Poeta, deve illuminare la strada?
Solo al magistrato della sorveglianza che appunto “esegue” la pena? O, al più, anche al giudice che tale pena “applica”?
E invece, quanto al pubblico ministero…. lo lasciamo fuori dall’art. 27 comma 3 della Costituzione? Lo lasciamo fuori, a fare – permettetemi l’ironia – “il bello addormentato”? Ossia il magistrato che, come nel quadro di un celebre pittore francese dell’ottocento (Thomas Couture), se la dorme nel mentre? Ricordo peraltro a tutti che è il pubblico ministero, di regola, il primo “volto della giustizia” che il reo incontra sul suo percorso!
Ecco, io ho sempre creduto di no… ho sempre creduto che l’art. 27 comma 3 della Costituzione chiami in causa anche me e, più in generale, ciascun pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Ed è anche per questo che ricordo di aver passato un lungo pomeriggio in un bar (un altro bar sempre nei dintorni di San Vittore) a cercare di farmi spiegare dal dott. Aparo perché quel mio indagato – rispetto al quale tutta la scena del crimine parlava a favore della sua colpevolezza – non volesse raccontarmi la verità.
Volevo farmi spiegare quali fossero i meccanismi, nella testa di una persona, che potevano consentirle di cogliere per davvero il senso di quanto avesse compiuto ed intraprendere così un percorso di cambiamento.
Ma, credetemi, ritenevo che non tanto per me (o, ancora peggio, per il buon esito della mia indagine) quella verità doveva essere raccontata.
Perché 13 colpi erano esplosi alle 9 del mattino in un parcheggio di una città dell’hinterland milanese, due persone erano morte e ad un’altra persona (allo stesso tempo sorella e figlia delle due vittime) durante tutto il processo non importava nulla del fatto che il pubblico ministero (che ero io) avesse chiesto l’ergastolo … lei voleva una cosa diversa: voleva parlare con il carnefice!
Ecco, gran parte di quello che posso dire di aver imparato dalla mia frequentazione con il Gruppo della Trasgressione può essere ben riassunto da una domanda di senso. Domanda alla quale io ho personalmente assistito, con una sofferenza per me lacerante (ma questa è un’altra storia che qui non interessa) mentre il dott. Aparo si rivolgeva ad un detenuto non del Gruppo che, sia pure condannato in nome del popolo italiano, aveva appena concluso un suo intervento pubblico affermando di “non sentirsi responsabile” per quello che era successo:
“se lei è un cristiano, come dice di essere, la vittima per definizione è suo parente… non le sembra quindi strano che lei non sappia come rivolgersi a quella persona che è morta, se non dirle che non si sente responsabile per quello che è successo? Perché è solo quando l’uomo cerca la sua responsabilità che diventa libero”.
Ecco, io credo che questa mappa di cui stiamo cercando di tracciare i contorni debba arrivare a concepire una modello di giustizia penale nella quale il reo non sia più responsabile solo “di qualcosa” (di un omicidio o di una truffa qui poco importa) ma anche responsabile “verso qualcuno”.
Una mappa che ci porta verso quella necessità di “punire bene”, per dirla con Duccio Scatolero le cui riflessioni mi hanno letteralmente folgorato durante la mia tesi di laurea.
Dove appunto il “punire bene” diventa un vero e proprio diritto per il reo e per l’attuare del quale è imprescindibile una punizione in cui il ruolo di colui che punisce non si esaurisca nell’atto di irrogare la pena. Perché appunto se ogni colpevole ha il diritto ad essere punito bene, questo significa – in altre parole – che proprio tramite l’atto del punire lo Stato deve prendersi idealmente carico del suo esito e, per esso, della sua piena efficacia. Solo in questo modo – continuava Scatolero – la punizione acquista allora anche il significato dell’essere presente per il reo, laddove altri – la famiglia, gli amici, la società – non ci sono stati.
“L’essere presente per il reo” allora, per il pubblico ministero e come accennavo prima, è essere dunque “qualcuno che ti cerca”. Qualcuno che cerca non solo di rendere verità e giustizia per le vittime ma che si pone, all’interno delle indagini che è chiamato a compiere per il compito che la Costituzione gli affida, tra gli obiettivi anche quello – se possibile – di cercare l’uomo dentro il criminale.
Il che è un compito difficilissimo, cari componenti del Gruppo della Trasgressione, perché l’esame di magistratura – al momento – non ci chiede neppure lontanamente di sapere fare anche questo…
Così come immagino sia stata una iniziativa personale ed estemporanea della Prof.ssa Mariella Tirelli (e non già del sistema universitario in sé) quella che ha portato Alessandra Cesario a frequentare il Gruppo, durante il suo percorso di studentessa di giurisprudenza che l’ha vista poi laurearsi nel 2008 con una tesi sul metodo APAC (carcere senza carcerieri, nelle quali “entra l’uomo” e “il reato resta fuori”).
Nella mia tesi di laurea, invece, nel 1997 avevo inserito anche questa citazione letteraria, quasi un omaggio alla mia importante esperienza educativa scout:
“C’è anche questo di bello nella legge della Jungla: che la punizione salda ogni conto e non lascia rancori. Mowgli appoggiò la testa sulla groppa di Bagheera e si addormentò così profondamente che non si risvegliò nemmeno quando fu deposto a fianco di mamma Lupa nella caverna”.
Nella mia continua ricerca di una terra dove il punito Mowgli possa addormentarsi, lui sì, sulla groppa di Bagheera (che lo ha ben sanzionato dopo averlo cercato e compreso), consentitemi però – giunto alla fine di questa mia testimonianza – una domanda retorica: “caro Juri, cosa succederà quando, come ragionevolmente te lo puoi concedere dopo tutti questi anni di fatiche, non avrai più piacere a continuare a camminare lungo questo percorso?”
In altre, e meno retoriche, parole: chi dovrà clonare il dott. Aparo? Chi dovrà saperne estrarre il DNA del suo metodo di lavoro? Chi dovrà continuare a tenere acceso quel “lume”, a cui Dante faceva riferimento, verso questa direzione già intrapresa e ben fino ad ora sperimentata?
Bene, anche a beneficio di tutti quei giovani che si vorranno avvicinare a questa così impegnativa professione che è quella del magistrato, credo che davvero sia arrivato il momento che le Istituzioni facciano la loro parte, a partire da domani mattina, perché questo “centro studi e laboratorio permanente” che viene proposto in questo incontro in Senato possa diventare presto una realtà feconda in tutta Italia e non solo nelle tre carceri milanesi dove il Gruppo attualmente opera.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
– F. MANTOVANI, “Diritto penale. Parte generale”, III edizione, Milano, 1992, pp. 741 ss
– F. STELLA, Prefazione in E. WIESNET, “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita”, Milano, 1987
– D. SCATOLERO, Atti delle Giornate nazionali di studio e di riflessione sull’applicazione del nuovo codice di procedura penale minorile, Milano 23-24 ottobre 1992, p. 136
– C. MAZZUCATO, La giustizia dell’incontro in G. BERTAGNA-A. CERETTI-C. MAZZUCATO (a cura di), “Il libro dell’incontro”, Milano, 2015
– F. OCCHETTA, “La giustizia capovolta”, Milano, 2016
Una mappa per la pena