Una bussola nuova in famiglia

Il rancore è quel sentimento che ci logora e ci mangia dentro, è il fuoco che brucia l’anima per qualcosa che abbiamo subito, può essere un torto, una mancanza, un abbandono volontario o involontario da parte di una persona che per noi può essere cara.

Il rancore in me si è acceso quando ero ancora  piccolo e avevo capito che mio padre mi aveva abbandonato e mia madre non mi dava né una carezza né un abbraccio.

L’unica persona che, con tutto il bene che mi voleva, dandomi valori, principi, da mangiare e tutto ciò che mi serviva per crescere, venne arrestato ed io ho provato l’abbandono più grande.

Quella persona è mio fratello, che oltre ad essere mio fratello è stato anche il padre che non ho avuto, dandomi amore e  protezione. Quando venne arrestato, dentro di me ho provato rabbia e rancore fortissimi verso le istituzioni: colui che davvero mi voleva bene mi era stato tolto.

Crescendo, ogni giorno che passava, davo da mangiare e facevo ingrassare quel rancore e, quasi senza rendermene conto, ho iniziato a percorrere la strada che mi ha portato a commettere reati e, allo stesso tempo, a sentirmi orgoglioso di emulare quel fratello che sulla stessa strada si era fatto un nome.

Il tempo passa, cresco e con me cresce anche la portata dei reati, arrivando così ai primi fermi di polizia. Il rancore è sempre li, fermo come una fiamma accesa di una candela che brucia ma non si spegne e con la quale più e più volte mi sono scottato.

Sono sicuro che anche altri come me hanno dovuto mediare con i conflitti che abbiamo dentro di noi, per evitare di trasformare il rancore in voglia di  vendetta. Non è un compito facile, fa male perché dentro di te senti che vorresti esplodere, spaccare tutto, ma è l’unico modo per poter andare avanti.

Oggi ho 35 anni, sono padre di un ragazzo di 14 e su quel rancore sto lavorando, cercando di vedere tutto da prospettive diverse. Oggi cerco di rompere gli schemi e la corazza che mi ero creato per non mostrare le mie debolezze, di accettare giudizi e critiche, di far tesoro dei consigli, aprendomi e tirando fuori ciò che ho dentro senza vergogna, cosa che mi è sempre stata difficile. Ora so che la vergogna è la vita che facevo prima e non quella che ho deciso di intraprendere oggi.

Lavorare su me stesso è l’unica speranza che ho per spegnere la rabbia e il rancore che ho dentro e non c’è, secondo me, cura migliore se non quella di buttare fuori tutto per ricominciare da zero. Voglio che mio figlio sia orgoglioso del padre sano e pulito che sono oggi e non di quel padre che ha passato anni in galera, senza stargli vicino.

Non posso e non voglio più essere io il Sisifo che spinge il macigno pesante per tutta la vita, vivendo in un mondo duro, fatto di falsità, sofferenza e menefreghismo. Voglio essere un vero uomo, sincero, prima di tutto con me stesso, poi con gli altri. So benissimo che non si può cancellare il passato di una persona, ma penso che con buona volontà, costanza e con l’aiuto di persone sane, vere, che credono nel riscatto, la scalata verso la rinascita può essere molto meno faticosa.

Mirko Manna

Percorsi della devianza
Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Simboli per il dramma di Corinto

Le immagini, ottenute con l’aiuto dell’AI, sono elaborazioni dei simboli ideati dagli studenti del Pesenti di Bergamo per rappresentare il conflitto tra gli dei dell’olimpo e i cittadini di Corinto, i potenziali sviluppi e, non da ultimo, alcune delle possibili soluzioni ideali per superare il conflitto tra insegnanti e studenti, tra autorità e cittadini e, più in generale, tra adolescenti e adulti.

La siccità che ha messo a dura prova tutta la città ha anche indotto Sisifo, re di Corinto, a sviluppare verso il dio dell’acqua Asopo, verso Giove, capo tra tutte le divinità dell’Olimpo e, in generale, verso tutte le “divinità/autorità dell’Olimpo”, un rancore che ne ha condizionato fortemente le scelte e che lo ha portato a sviluppare l’arroganza cui Giove risponderà con la famosa punizione/vendetta del masso.

 


Bergamo: Giornata conclusiva dell’iniziativa su “Approcci utili per i conflitti tra insegnanti e studenti“. Sul palco la preside dell’istituto, prof.ssa Veronica Migani, Angelo Aparo, Matteo Manna del Gruppo Trsg, e gli studenti del Pesenti Kushal Bagha, Gabriel Billeci e Adam Haqhaqi.

«Ragazzi, dopo il risultato ottenuto con la vostra rappresentazione del mito di Sisifo nel carcere di Opera, oggi vi propongo una cosa non facile. Cioè interrogarci su cosa può vivere un adolescente che non si sente aiutato o sostenuto nella sua crescita e nella ricerca del proprio futuro. È una sfida impegnativa. La mia proposta è quella di ideare un simbolo che rappresenti ciò di cui voi sentite di aver bisogno, quello che vi sembra necessario avere dal mondo degli adulti per fare la vostra strada.

Vorrei anche riuscire a concepire un simbolo che rappresenti l’idea di una comunità eterogenea, composta da persone provenienti da diverse parti del mondo (come siete già voi stessi), ma unite da un obiettivo comune: costruire il mondo di domani, cioè il mondo in cui vivrete da adulti. Come l’acqua che mancava a Corinto, questo simbolo deve indicare una risorsa essenziale, vitale. Abbiamo l’esigenza di costruire un mondo capace di tener conto della diversità e di un simbolo che rappresenti questo obiettivo. Vi invito a realizzarlo senza risparmiare mezzi, mettendo in campo tutta la vostra creatività e passione. Questo simbolo potrà diventare il segno distintivo della vostra scuola e una testimonianza concreta di ciò che siete in grado di fare»

Angelo Aparo

Mohamed Ounnas e Angelo Aparo lottano per avere il poco che resta dell’acqua a Corinto.

 

Adam Haqhaqi: Immagino un Giove sconfitto, che tenta invano di stringere tra le mani una bilancia simbolo del suo potere. Attorno a lui, un gruppo di adolescenti, provenienti da ogni angolo del mondo, unisce le forze per sfidare e abbattere un’autorità ormai priva di credibilità.

 

Marwan Toukami: Immagino una marionetta, strettamente controllata dall’autorità e dal potere, che si dimena con tutte le sue forze per spezzare i fili e liberarsi dal giogo del controllo.

 

Ranbir Singh: Vedo degli adolescenti, provenienti da culture e origini diverse, lavorano insieme per ridurre il peso del masso. Rappresentano il potere della diversità, dell’inclusione e della collaborazione. Simboleggiano l’importanza della comunità e del supporto reciproco. La loro unione dimostra che, affrontando le difficoltà insieme, il peso del masso diventa più gestibile.

 

Carlo Caroli: Immagino una bandiera italiana, simbolo di accoglienza e unità, su cui sono cucite le bandiere dei paesi d’origine degli adolescenti che studiano nella nostra scuola. Un mosaico di colori e identità che racconta storie di integrazione, diversità e speranza.

 

Massimo Rinaldi: Vedo una bilancia sollevata da molte mani, simbolo di unione e forza collettiva. Su uno dei piatti c’è il masso di Sisifo che, mano a mano, diventa leggero come iuna piuma, perché la coscienza condivisa e la forza del gruppo ne riduce il peso.

 

Omar Fouah: Un’aquila maestosa si lancia in picchiata dalla montagna, incarnando potenza e determinazione, mentre un masso, simbolo di oppressione e peso interiore, si trasforma lentamente in una piuma. È la rappresentazione di una coscienza che si alleggerisce, liberandosi dal fardello.

 

Mouhamed Khouma Seydina: Vedo molti studenti di diverse etnie unire le loro forze per spingere insieme un masso verso la cima della montagna. Ogni spinta rappresenta la condivisione della fatica e del sacrificio, uniti dalla determinazione di raggiungere l’obiettivo comune: trasformare quel masso in coscienza, un simbolo di crescita, consapevolezza e collaborazione.

 

Gabriel Billeci: Giovani adolescenti, provenienti da paesi e culture diverse, sostengono insieme un mondo. Sopra di esso si trova un anziano, simbolo di un’autorità credibile, con orecchie enormi, a rappresentare la sua capacità e competenza nell’ascoltare i giovani.

 

Massimo Zanchin, componente del gruppo del carcere di Opera: la moneta di Corinto è la sintesi di due dei tanti possibili percorsi ed esiti del rapporto tra adolescente e adulto, studente e insegnante, cittadino e autorità pubbliche, detenuto e figure istituzionali.

Il mito di Sisifo

I miei compagni di vita

Per circa trenta anni il rancore e la cocaina sono stati i miei compagni di vita, non mi hanno mai abbandonato, erano l’unica cosa sempre presente in una vita fatta di eccessi e abusi verso il prossimo e me stesso.

Lui, il rancore, è stato mio padre, mi ha educato a essere un uomo prepotente, sprezzante delle regole, dei valori civili, mi ha dato la forza e il coraggio di commettere cose di cui oggi mi vergogno e ne porto il peso sulla coscienza, quella stessa che, grazie al gruppo e all’incontro con Marisa Fiorani, ho ritrovato.

Questa coscienza oggi mi fa male, ma allo stesso tempo bene, perché è la mia bussola e, se mi trovo in situazioni di sofferenza e frustrazione, mi permette di non prendere la strada oltre il confine delle regole, mi indica come un navigatore dove camminare per non ricadere là nell’abisso della dipendenza, dove la cocaina mi è stata mamma coccolandomi quando ero triste. Bastava un tiro e tutto passava come quando ti fa male un dente e prendi un antidolorifico che ti anestetizza; lei bianca e pura, ma nera come la morte che ti provoca nell’anima, lei che ti può far essere esaltato o calmo, lei che può farti vedere e sentire ciò che vuoi tu perché te lo immagini dentro di te, lei che ti fa incontrare con i tuoi mostri interiori e i tuoi angeli, lei che puoi usare per socializzare, ma anche per isolarti.

Lei c’è sempre ogni volta che la cerchi, non ti abbandona mai e, se da piccolo sei stato abbandonato, è un ottimo modo per non sentirti più così, fa tutto ciò che vuoi tu nel tuo io profondo comandato dal tuo papà che di nome fa rancore.

Ma poi, se riscopri la coscienza, non puoi più cadere nella loro seduzione perché vedi e capisci il dolore che hai fatto, ti guardi allo specchio della verità e scopri che tu non sei quello che hai fatto e non lo vuoi essere, rivedi tutti i morti che ti sei lasciato dietro, gli anni che hai perso, il tempo che è passato cosi veloce che ti ritrovi ad avere i capelli bianchi e le rughe sul viso, solchi di espressioni sofferenti…

Guardi le cicatrici che porti sul corpo, i buchi delle pallottole e ti accorgi quanto è immenso il buco che hai creato tra te e la società e quanto lavoro ci vorrà per risanarlo, ma anche che in realtà sei fortunato ad essere ancora qui a raccontarlo…

Nelle giornate difficili ti viene una gran voglia di dire: “vaffanculo era più facile prima!” Allora guardi il telefono e dici a te stesso che basta chiamare un numero, ma è li che ti accorgi dove sta il più grande successo della vita, quando sputi su quel telefono, ascolti la tua coscienza e dopo aver fumato una sigaretta… il numero che chiami è quello della donna che ami per dirle quanto è difficile e quanto stai male e trovi lei che ti ascolta e ti accompagna con la sua voce alla pace e alla positività che nessuna droga può darti.

Ti fa vedere il mondo con gli occhi di chi ti ama e riesce a vedere un bicchiere mezzo pieno anche nella siccità più arida; adesso ciò che brilla ai tuoi occhi non sono i cristalli di cocaina ma, gli occhi profondi di chi ti ha fatto conoscere lo sballo più bello del mondo: essere innamorato! Ed esserlo per la prima volta a 43 anni vuol dire volare sopra le nuvole dove non ci sono limiti alla felicità, quella felicità che non hai mai vissuto e nessuno può toglierti perché è nel tuo cuore, nella tua coscienza e nell’anima, guerriere contro chi ti ha accompagnato verso l’abisso nero per una vita.

Oggi sono un uomo che ha incontrato una persona speciale, che non voglio mai smettere di amare; uso il cuore e la coscienza, sono ancora fragile ma onesto con gli altri e con me stesso.

Matteo Manna

Percorsi della devianza

Cosa mi porto da “Il diritto al rancore”

Penso che più che altro, questo convegno mi abbia lasciato tanta umanità, tanta voglia di cambiamento e, nonostante tutto, tanto amore per la vita.

Il gruppo della trasgressione ha portato i detenuti a riflettere su alcuni aspetti del loro passato, in particolare sul rancore che essi nutrivano nei confronti dell’autorità, un’autorità detestata, ma detestata per dei motivi ben precisi: perché sentita distante e passiva.

L’immagine dell’autorità però può cambiare, può cambiare se si accoglie l’autorità e non la si attacca; essa però deve potersi far accogliere.

Si fa accogliere attraverso persone speciali, come il magistrato  Cossia o il direttore Di Gregorio, si fa accogliere se cerca di capire e comprendere il detenuto, anziché punirlo senza educarlo.

Ed è da questo rapporto che il rancore può sfumare, per lasciare spazio al buono, un buono non buonista, ma educativo e riabilitativo, un buono che, oltre ad abbracci, è capace di dare schiaffi, ma amando e costruendo il futuro dei detenuti insieme a loro.

Educare significa soprattutto responsabilizzare, e sentirsi responsabili fa crescere. I detenuti hanno il desiderio di sentirsi responsabili per dare un segnale al mondo, per ripicca nei confronti della loro vita passata, per sentirsi di nuovo vivi.

Per fare tutto ciò e per mettere in piedi una straordinaria macchina come quella che abbiamo visto ieri ci vuole umanità, e avere umanità significa avere empatia, e avere empatia, in queste cose, significa avere coraggio, ma tanto coraggio, dimostrando che ogni singolo detenuto ha il diritto di avere rancore, e l’autorità ha il dovere di riconoscerlo e il dovere di offrire una nuova strada di vita.

Giole Tofuri

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Il mio rancore, guardando il soffitto

Ogni tanto, durante la giornata, mi fisso a guardare il soffitto disteso sulla branda, e spesso ripercorro le fasi della mia vita, partendo da quando ero piccolo e dal mio rancore, un sentimento acceso da situazioni che hanno spiazzato tutte le mie aspettative. Come per tutti i figli, anche per me i veri idoli e punti di riferimento erano i miei genitori, ed io, come tutti, cercavo la loro attenzione. Eravamo papà, mamma, io e Massimiliano, il mio fratellino.

Durante la settimana, da lunedì a venerdì, mio padre, stando a quello che ci diceva mamma, lavorava in trasferta, mentre mamma Angelina faceva 2 o 3 lavori per non farci mancare nulla. Noi, dopo una mattinata, chi all’asilo chi a scuola, facevamo il nostro piccolo dovere; di pomeriggio ci appoggiavamo un po’ a destra e un po’ a manca, da zii o da vicini di casa. Tutto questo fino all’età di 9 anni io e 5 anni Massi.

Col passare del tempo, piano piano ho iniziato a vedere mio padre sotto un altro aspetto, questo dovuto ai loro primi litigi (in presenza mia), anche cercati da mamma, perché aveva scoperto, e lo dichiarava davanti a noi, che aveva un’altra donna.

A un certo punto, ci siamo trovati catapultati in collegio dalle suore a Vigevano. E qui il mio malanimo si è aggravato ancora di più e mi ha portato a chiudermi con gli altri. A rafforzare il mio disagio vanno anche aggiunti i sabati e le domeniche, passati alla finestra ad aspettare: un weekend veniva a trovarci mamma, sempre puntuale, mentre dell’altro weekend non dimentico ad oggi le scuse che  dovevo inventare per cercare di sdrammatizzare con mio fratello piccolo: gli dovevo fare da padre, irrequieto com’era, mentre vedeva gli altri collegiali andare via uno alla volta.

Così potete anche immaginare come lievitavano i miei rancori, erano sempre più forti, anche se poi non li manifestavo. Era cresciuto un risentimento nascosto, che mi ha seguito molto durante il percorso della vita; forse anche per la mia impotenza di non poter sistemare le cose.

Dopo due anni, siamo tornati anche a vedere i miei adorati nonni, sia paterni che materni, e lì filava tutto liscio, ma poi sono riapparse le crepe in casa. E da lì, quando sono diventato un po’ più grande, per sentirmi bene, dovevo scappare fino alla fine della tempesta. E così, andando in strada, mi sono trovato con dei miei coetanei che avevano disagi simili ai miei.

In effetti, c’era chi aveva i genitori come me, chi il padre o i fratelli in galera, le stesse problematiche che hanno reso facile mischiarmi con i miei simili e prendere strade sbagliate.

Qui il rancore si è fuso con un improvviso delirio, che a quell’età mi ha portato ad esplodere in azioni incontrollate. Volevo fare il medico, curarmi da solo senza una laurea.

Oggi però, mi sento meno ansioso, anche perché alla lunga ho capito che è inutile fare la guerra contro chi doveva essere il mio supereroe (mio padre), perché ciò porterà solo distruzione.

Anche vero che portare rancore a volte non è solo utile ma addirittura necessario, con un dosaggio controllato, perché ad oggi questo mi ha spinto a ragionare, pensare, migliorare, come sto facendo ora. L’importante è capire quando è utile e quando può essere dannoso.

Tocco questi argomenti con il gruppo perché mi rivedo nei ragazzi di oggi. Tanti di questi rimangono senza che nessuno li ascolta, o si ritrovano a interpretare ruoli non propri, prendono decisioni affrettate, senza esperienza e senza consultarsi con nessuno. In fondo, se non hai una guida, è difficile orientarsi per la strada giusta.

Ora è meglio che mi stacchi dal soffitto, altrimenti, non finisco più con questo scritto.

Percorsi della devianza
Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Nunzio Galeotta