La Ferrari

Nuccia Pessina

Il bambino era andato con la mamma dal meccanico a ritirare l’auto. La mamma era entrata negli uffici e stava facendo la fila per pagare. Il bambino si annoiava molto, voleva andare a casa prima possibile, i suoi amici lo aspettavano per una partitella al pallone. Poi vide una magnifica collezione di auto da corsa. Erano tutte ben allineate in un armadio di vetro, c’erano più ripiani dove auto di grossa cilindrata di tutte le marche e i colori erano disposte secondo l’epoca. In particolare fu una Ferrari rosso fiamma che lo colpì. Era un appassionato d’auto e, come la mamma uscì, subito le chiese se non potevano comprarla. La mamma gli disse sei matto, è un’auto da collezione, chissà cosa costa.

Costava sì, qualcosa più di cento euro, ma se il papà ci fosse stato, avrebbe potuto permettersela. Ma il papà non c’era, non c’era mai stato. Gli montò dentro una grande rabbia, e anche una incontenibile voglia di aprire l’anta di vetro e prendere l’auto, senza dire niente a nessuno. La mamma gli disse di aspettarla un attimo, che aveva dimenticato i guanti nell’ufficio. A lui non parve vero. Come in un sogno, aspettò che l’uscio si richiudesse dietro di lei, aprì l’anta, arraffò l’auto, se la infilò in tasca, richiuse con calma l’anta.

La mamma e il bambino rientrarono. La mamma preparò la cena. Il bambino era stranamente silenzioso. Il silenzio ovattato, che nella sua testa aveva accompagnato il furto, continuava. Gli sembrava di essere in un acquario.

Quando la mamma lo chiamò, si presentò a tavola per la cena. Mangiò di buon appetito, perché aveva sempre una gran fame, ma nel profondo era turbato. Sapeva di aver fatto una cosa brutta. Si vergognava, ma era anche contento di avere un’auto da corsa tutta sua.

Quando fu a letto, dopo che la mamma gli diede la buona notte, prese la Ferrari in mano e se la rigirò con calma. Era lucente, era perfetta, era un capolavoro in miniatura, era sua. Stava per appoggiarla sul ripiano, quando si rese conto che non poteva. L’auto era sua ma doveva tenerla nascosta. I suoi occhi, che durante il furto avevano brillato di determinazione e di desiderio, ora erano di una tristezza infinita. Faticò ad addormentarsi, poi la stanchezza ebbe la meglio.

L’auto era lì, era rossa, fiammeggiante, perfetta, posteggiata di fronte al bar dove la sua compagnia si ritrovava ogni sera dopo aver fatto un giro. Quella sera erano andati al cinema. Avevano visto un film d’azione, dove le auto erano protagoniste, insieme agli uomini. C’era un attore che non aveva mai visto ma che gli era piaciuto molto: Ryan Gosling. Nel film era un pilota d’auto da corsa, molto bravo, vinceva spesso. Questo nella sua prima vita. Ma poi ne aveva una seconda: guidava per una gang che metteva a segno rapine importanti. Li accompagnava sul posto e poi guidava a tutta birra, spericolatamente ma in modo magistrale e seminava chiunque. Tutto filava liscio, sembrava potesse continuare così per sempre, ma poi la sua prima vita era entrata in rotta di collisione con la seconda ed era successo il disastro.

Guardò l’auto e si sentì come in quel giorno della sua infanzia. La voleva ma non poteva permettersela, non avrebbe potuto permettersela mai. E di nuovo la rabbia dilagò dentro di lui. E di nuovo si sentì in un acquario, di nuovo un silenzio innaturale ovattò la realtà intorno a lui.

Quando il silenzio cessò, si ritrovò a guidare l’auto che aveva rubato. Era stato semplice. Aveva forzato la serratura, era salito e aveva messo in moto coi cavi. L’aveva fatto da solo. Aveva aspettato che tutti se ne andassero a casa. Era ritornato sui suoi passi e aveva messo a segno il colpo.

Stava decidendo come comportarsi, quando la polizia lo fermò, gli chiese patente e libretto e… lo arrestò. Ancora una volta il misfatto era stato scoperto, ma questa volta non dalla mamma.

Dopo qualche anno e qualche rapina, era il signore assoluto in una cella dove aveva tutto il tempo per pensare, studiare, capire, provare a spiegare, ricordare. Ripensava alla sua vita, ripensava a se stesso bambino e poi adolescente. Tutto era diverso ma, in un certo senso, tutto era uguale. Dentro di lui covava sempre quella rabbia sorda che gli aveva rovinato la vita. C’era un vuoto che nessuna auto, nessun bottino aveva saputo colmare.

Un giorno ebbe il permesso di ricevere la visita di suo figlio. Andò al colloquio senza sapere bene che cosa aspettarsi. Senza sapere bene nemmeno che cosa dire. O fare. Era totalmente impreparato ad affrontare suo figlio. Ci pensò il bambino a dirigere l’incontro. Raccontava e faceva domande. Era facile rispondergli e nello stesso tempo difficilissimo.

Si accorse che badava a quel che diceva, anche se non avrebbe saputo dire perché. Si accorse che nei racconti del bambino lui non c’era. Si accorse che nella vita del bambino lui non c’era. Si accorse che nella vita di tutti coloro che amava lui non c’era.

Quando il colloquio finì, il bambino lo abbracciò. Sentì la stretta e il calore del suo corpicino e dopo un attimo di esitazione si lasciò abbracciare e poi ricambiò la stretta. Capì che era da lì che doveva cominciare a lasciare dei segni giusti del suo passaggio. Capì che lui doveva cominciare ad esserci per suo figlio. Capì che desiderava che suo figlio gli volesse bene. E decise di provare a far sì che suo figlio non sentisse dentro di sé un vuoto che avrebbe cercato di riempire nel modo sbagliato.

Torna all’indice della sezione

Ricordi di schiena

Ivan Puppo

Frugo nella memoria con la cecità progressiva degli anni, estraggo un ricordo: mia madre ferma, dritta nella schiena, sguardo di madre lupa che m’avvolge e ammonisce il mondo. Allora inghiotto a secco, ho un tuffo al cuore.

L’infanzia poteva durare per sempre. Per un bambino che gioca, spazio e tempo non hanno confini. Da bambini il tempo ci corre addosso, più tardi siamo noi a corrergli incontro.

Il mondo ricominciava ad ogni risveglio, sembrava non scampare al sonno l’orma misera del giorno prima. A quell’età si possiede una specie di salvacondotto. Col tempo le notti non bastarono più!

Di occhi larghi e respiri mozzi è fatta la paura, di metallo è il suo sapore, di ghiaccio il suo abbraccio. Di desolazioni impronunciabili sono fatti i mutismi dei bambini.

Si cresce tacendo, mettendo una grande distanza fra sé e gli altri, si cresce bastando a se stessi. Si cresce sotto i colpi e lo spreco di un padre lontano, resistendo e non concedendo il disarmo del pianto.

Si cresce di bar fumosi e strade bagnate di scirocco, di puttane tristi come madonne dipinte, di silenzi custoditi e fitti di equivoci.

Si cresce solcando una città vecchia di vicoli e anni violenti, stretti come dita su una pistola, e di nuovo stretti di cemento e nostalgia fra uomini spazzati dal vento come foglie di cortile.

Ritorna nelle aule di tribunale il mutismo dell’infanzia come risposta al “vostro onore” di turno.

Che equivoco irrisolto è la vita: anziché rispetto ti regalano paura e tu la ridai in cambio di rispetto; predatore per correggere un destino da preda, creditore di giustizia pagato con la legge.

Qui, titolare di questa porzione miserabile di vita, testimonio il mio fallimento; qui, dove la rabbia muta in rimpianto, mi visita lo stesso ricordo di mia madre, che guarda il suo bambino muto e dice: “era solo un brutto sogno, ora è passato, dormi figlio”.

La guardo attraverso, intravedo qualcuno e mi chiedo: “è la mia questa figura di spalle che se ne va nella pioggia?”

 

Torna all’indice della sezione