Violenza di gruppo

Provo a parlare della violenza operata in gruppo. Non ritengo che la violenza di genere meriti un capitolo a parte.

Comincio con l’affermare che il gruppo dà forza, fa sentire potenti, rende capaci di compiere azioni che individualmente non avremmo mai il coraggio, o la viltà, di compiere.

Nel gruppo ci si sente appoggiati, compresi, riconosciuti. Nel gruppo si ritrova un’appartenenza che fa sentire completi, che rimanda un’immagine di noi più forte e solida.

Il gruppo mette in atto una tecnica che in natura viene adottata dai predatori. I lupi cacciano in branco, i leoni pure. Circondano il gregge o la mandria, ne isolano un membro, lo inseguono, lo azzannano e poi lo sbranano.

Penso che tale comportamento apparteneva in origine a tutti gli esseri viventi, quando l’uomo si sentiva, ed era, parte della natura, guidato nelle sue azioni da pulsioni istintive, innate, considerate naturali, esenti da qualsiasi valenza morale.

Poi è subentrata la civiltà. Un po’ per volta la parte razionale dell’uomo si è affiancata alla parte istintuale e l’ha ridimensionata. La proporzione tra le due è andata man mano equilibrandosi, ma in qualche modo la parte istintuale è riuscita ad assicurarsi spazi di espressione socialmente accettati quando non elogiati. Per esempio in guerra quando la presenza di un nemico da sconfiggere e poi sconfitto autorizzava all’uso di atti efferati gratuiti al fine di raggiungere lo scopo, la vittoria. Prova ne è che dagli eventi più lontani di cui si ha memoria storica ai più recenti, lo stupro delle donne del nemico è stato perpetuato senza remore.

La civiltà si è man mano diffusa e ha dato luogo a culture diverse secondo le zone geografiche e le appartenenze religiose e linguistiche, ma non ha influito su questo modello di comportamento.

Anzi, spesso la cultura ha usato gli strumenti razionali in suo possesso per originare ideologie basate sulla violenza e propagandate come vitali.

Mi verrebbe da dire che la violenza di gruppo ha all’origine

  • la negazione di spazi dove l’uomo possa esprimere la sua appartenenza alla natura, negazione perpetrata dalla civiltà
  • il bisogno costante, più o meno consapevole, più o meno colpevole, di crearsi un nemico per andare avanti.

La domanda potrebbe essere: avanti dove?

Sulla violenza di genere

Al gruppo di Bollate, in conseguenza dei fatti recentemente accaduti, durante gli ultimi incontri si è parlato sulla violenza di genere e sugli stupri di gruppo.

Io penso sia una questione complessa in cui si intrecciano fattori diversi, alcuni individuali, alcuni sociali. Tre sono i presupposti che non vanno dimenticati, a mio avviso.

Il primo è che la violenza appartiene all’essere umano per natura; il secondo è che l’essere umano non vive come un anacoreta ma è immerso in un contesto sociale, di cui va cercando approvazione e da cui si aspetta riconoscimento; il terzo è che ogni azione viene compiuta alla ricerca del piacere.

È attraverso l’educazione che impariamo a controllare gli istinti, le pulsioni e i desideri e a dare loro un’espressione socialmente accettabile.

Secondo me, tale educazione al controllo manca, manca la condivisione di un modello umano e sociale consapevole che tale controllo è necessario.

Se parliamo di violenza di genere io credo che alla base ci sia la conquista da parte della donna di un ruolo sociale che le riconosce diritti sul piano giuridico e capacità apprezzabili in ogni ambito, magari diverse da quelle dell’uomo ma comunque preziose. L’uomo si sente sminuito, meno necessario, confuso e incerto su quale debba essere il suo nuovo contributo sociale. L’uomo ha perso potere, un potere che prima gli veniva riconosciuto a prescindere, per il fatto di essere un maschio, e che ora deve in un certo senso meritare. Dunque l’uomo ha paura.

A questo si aggiunge un cambiamento dei costumi sessuali, (qualcuno parla di liberazione io sarei più cauta nell’uso del vocabolo ) che non aiuta. La donna rivendica una parità di espressione sentimentale e sessuale paritaria e non è più disposta a sottostare all’egemonia dell’uomo. L’uomo si sente messo in discussione anche sul ruolo e sui comportamenti che attengono al rapporto di coppia. Dunque, di nuovo, l’uomo ha paura. E reagisce con la violenza.

Se a questo quadro aggiungiamo l’uso fuori controllo dei social media:

  • che danno anche ai bambini libertà di accesso a siti e contenuti pornografici (che farebbero arrossire i frequentatori di case di piacere di una volta);
  • che sono comunque basati su una rappresentazione dei ruoli sociali e sentimentali appartenenti a una cultura patriarcale, per usare un aggettivo gentile;
  • che sono anche caratterizzati da un generico ribellismo che fa credere ogni protesta legittima, giustificata e giustificabile,

otterremo a mio parere una parte della risposta.

Manca l’educazione sessuale, manca l’educazione sentimentale, ma soprattutto manca l’educazione in senso lato, un’educazione che insegni a raccogliere dati, informazioni che consentano di comprendere ciò che si legge, ciò che si vede, ciò che si ascolta, ciò che si vive, ciò che si desidera.

Uomini e donne

Il potere di generare

Chi è la donna nella mente di chi l’ammazza, da figlio o da compagno? Anche di questo si parlava nell’incontro del 30 marzo.

Io credo che all’origine della violenza contro la donna ci sia una questione di potere. Quale potere nel caso specifico? Quello di generare una vita.

Per millenni la donna ha partorito figli generati da un congiungimento carnale con l’uomo. Per millenni il controllo della fertilità è stato volto a massimizzare la fecondità del corpo femminile.

L’aumento demografico nel XVII secolo divenne addirittura un requisito politico auspicabile per aumentare o sostenere la potenza di uno stato (popolazionismo). Solo dalla seconda metà dell’ ‘800 il controllo delle nascite ha assunto un carattere limitativo, esercitato con l’interruzione del rapporto sessuale, socialmente diffusa e culturalmente riconosciuta tanto da essere indicata da Freud come portatrice di nevrosi.

Si è passati dal figlio come possibile conseguenza del desiderio sessuale dell’uomo per una donna, e della donna per un uomo, al figlio come oggetto della volontà cosciente.

Poi sono arrivati gli anticoncezionali. Operando la parziale disgiunzione tra atto sessuale e procreazione, la tecnica medica ha consegnato alle donne il potere di decidere quando e se fare un figlio, rendendo potenzialmente ininfluente la volontà dell’uomo.

Poi è arrivata la fecondazione in vitro, con la quale il testimone del potere di generare è passato nelle mani della tecnica medica. Si è così consumata pienamente la divaricazione tra atto sessuale e procreazione, consegnando alla donna la possibilità di procreare oltre ogni limite.

Tutto questo non può non avere inciso e tuttora incidere sulla cultura della maternità e della genitorialità, dell’amore e del rapporto di coppia e delle relazioni tra genitori e figli.

Io non ho le competenze per spiegare come tali cambiamenti culturali incidano sulla psicologia individuale degli esseri umani contemporanei, ma so per certo che non possono non incidere.

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Il mondo della devianza

Viaggio di andata e ritorno
nel mondo della devianza

Traccia per un incontro con un gruppo di studenti
alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio cui prendono parte detenuti, studenti universitari, familiari di vittime di reato e comuni cittadini per

  • chiedersi insieme quali sono gli ingredienti che favoriscono l’ingresso nel mondo della devianza, con i comportamenti e i sentimenti che lo caratterizzano;
  • sperimentare attraverso il lavoro e dei progetti comuni le strade più utili per diventare membri attivi e riconosciuti della collettività.

A tale scopo,  i diversi componenti del gruppo, danno spazio ai sentimenti e alle loro eterogenee esperienze per chiedersi in collaborazione:

 

come si acquista il biglietto di andata:

  • Le condizioni familiari e ambientali, i conflitti, le turbolenze dei primi anni di vita;
  • le fragilità, il bisogno di conferme, la rabbia, il senso di rivalsa dell’adolescenza;
  • La brama di diventare grandi e l’urgenza di accorciare i tempi per sentirsi indipendenti dalle prime figure di riferimento;
  • la seduzione, gli attori, le forme, i meccanismi;
  • I modelli di riferimento e l’ambiente nel quale si ottengono i primi riconoscimenti dal boss, dalla banda;
  • L’iniziazione, la sfida, i gradini dell’ascesa all’interno del gruppo dei pari;
  • I meccanismi di assuefazione all’abuso con “la banalità e la complessità del male”;

 

come si lavora per quello di ritorno:

  • le attività, le aree di interesse e di intervento, i progetti;
  • le collaborazioni all’interno del gruppo e con le istituzioni;
  • le risorse interne e le alleanze possibili.

 

L’incontro con alcuni studenti della cattedra del prof. Francesco Scopelliti è stato registrato su Zoom ed è conservato negli archivi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianza

Te chiedo scusa a Ma’

A Ma’ stasera nun torno
va a letto nun m’aspetta’
faccio ‘n sarto all’artro monno…
Te chiedo scusa a Ma’
c’era n’amico ‘n difficoltà
nun me la sentivo de scappa’…
Erano tutti grossi e muscolosi
c’avevo na paura
se vedeva che erano pericolosi…
M’hanno ammazzato come n’animale
ma che ho fatto de male ?!?!?
A Ma’ hai visto come so piccolo
però so dovuti veni ‘n tanti
co sto sorriso li sdrajavo tutti quanti …
Mortacci loro come menavano
io ar massimo je sorridevo…
Te chiedo scusa Ma’
ma quarcuno li doveva affronta’ …
Quarcuno je doveva fa capì che sbajaveno
c’avevano troppo veleno…
Quello che nun capisco de sta gente
invece de divertisse e ride
vanno in giro a cerca’ e sfide…
Se sentono forti e onnipotenti
ma a strigne so na massa de deficienti…
A Ma’ io volevo solo mette pace
de litiga’ nun me piace…
Aho’ mo non voglio passa’ da eroe
l’ho affrontati
ma c’avevo na paura de sti tatuati…
Poi a Ma’ non ho più sorriso
Ma che se fa così
senza neppure n’avviso
Me so spento
lento lento…
Ancora adesso me sto a chiede er perché
de tutta sta cattiveria e rabbia verso de me…
Ora te saluto a Ma’
Che c’ho da fa’…
Sto a sali e scale
Me devi promette che nun starai male…
Ammazza quante so che fatica
ricorda che la vita nun è finita…
Ogni vorta che te manco pensa a sto sorriso
Che er fjo tuo te sta vicino dar paradiso

Er Poeta Romantico Fastidioso

In ricordo di Willy Monteiro Duarte

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Per quanto voi vi crediate assolti…

“Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti “
Fabrizio de André

Mi aggancio alla citazione finale di De André nello scritto di Manuela per proporre una riflessione ulteriore sul film “L’insulto” di Ziad Doueiri.

Riparto dalle parole finali del giudice del film che prima di emettere la sentenza assolutoria dice:”Qui ci sono due persone che sostengono di essere vittime e ci chiedono di decidere chi ha più torto”.

In questa premessa ci sono a mio avviso due concetti utili per nutrire la riflessione sulla banalità e complessità del male.

Concetto numero uno: “ La dialettica dei pugni”. Ovvero stabilire chi ha più torto ha senso solo se si suppone che esista una sola ragione.

Nel film vengono presentate ragioni opposte, entrambe valide, che determinano un conflitto insanabile finché le posizioni restano orientate l’una contro l’altra.

Nel caso del film le posizioni conflittuali vengono sintetizzate dai due avvocati difensori e sono le seguenti:

  1. Anche se Yasser fosse l’uomo più oppresso de mondo, nessuno gli dà il diritto di farsi giustizia da solo.
  2. Yasser Salem reagisce a parole che hanno offeso la sua identità e quella del suo popolo. Quando si oltrepassa il limite, ci si deve aspettare una reazione. È normale, inevitabile, umano.

Gli avvocati argomentano dialetticamente a favore dell’una e dell’altra tesi: ciascuno segue una traiettoria riconoscibile, sensata, condivisibile a seconda dell’orientamento personale di chi ascolta. Tuttavia ciascuna posizione corre parallela all’altra: è impossibile che si incontrino e si accordino.

La prima affermazione sta alla base dello Stato di diritto.

La seconda ha a che fare con il conflitto tragico da Antigone in poi: ovvero la legge naturale che esiste ed ha valore anche quando entra in conflitto con la legge stabilita.

Mi vengono in mente le parole di papa Francesco che fecero grande scalpore nel mondo cattolico all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo in Francia: “Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. È vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri, che è un amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno”.

Nel film è proprio un pugno ad aprire il conflitto e poi è un altro pugno a fargli cambiare rotta.

Il conflitto che per buona parte del film sembra essere insanabile comincia a cambiare direzione quando, dopo una buona dose di dolore e fatica, ciascuna delle parti in causa, Toni e Yasser, riconosce nella propria storia la presenza dei torti subiti dall’altro: solo quando ciò avviene diventa possibile chiedere scusa.

Yasser non era disposto a chiedere scusa a un arrogante che credeva di avere il diritto di insultare lui e il suo popolo: inizia a cambiare idea quando scopre che Toni gli assomiglia. Da parte sua Toni inizia a mostrare che la sua ferita ha qualcosa in comune con quella di Yasser quando decide di aiutarlo a far ripartire la macchina.

Ma non basta questo, Yasser non vuole essere perdonato o compatito.
Prima di chiedere scusa Yasser ha bisogno di sentire la reciprocità: ha bisogno di sapere che Toni è consapevole di non essere né meglio né peggio di lui ma pari, almeno nella sofferenza. Per questa ragione va per la seconda volta alla sua officina, lo provoca e si fa sferrare un pugno. Solo in quel momento, in cui è innegabile il torto di entrambi Yasser chiede scusa.

Personalmente questa scena del film mi ha colpita molto: i due protagonisti si riconoscono nelle spinte problematiche che li hanno reciprocamente portati a sferrare il pugno l’uno contro l’altro è non nelle loro legittime ragioni.

Per quanto prima si sentissero assolti ciascuno dalla propria ragione è a suon di pugni che scoprono di essere coinvolti in un torto comune che provoca dolore.

Concetto numero due: sentirsi vittime

Frequentando il Gruppo della Trasgressione credo di avere imparato che nella mente di chi commette un reato c’è quasi sempre, in qualche forma più o meno chiara, consapevole e sensata, la sensazione di essere vittima di qualcosa o qualcuno.

Questa sensazione di mancanza e/o di sopruso subito e non riconosciuto è una “fame” che autorizza la sedicente vittima a trasformarsi in carnefice che fa altre vittime, le vittime dei reati appunto.

Ma, a reato avvenuto questa “fame” del carnefice/vittima viene disconosciuta da tutti: dal giudice che non è chiamato a giudicarla, dalla vittima che fa i conti solo con il proprio dolore e dal reo stesso che spesso ha bisogno di convincersi di aver agito come ha reagito perché voleva farlo e non perché spinto da una “fame” sulla quale non ha nessun controllo.

Finché il reo non trova le condizioni per fare spazio all’ascolto della propria “fame”, riconoscerla e darle in pasto vissuti differenti, difficilmente riconoscerà la sua e le altre vittime e si muoverà nella direzione del reinserimento nella società.

Mentre il giudice in tribunale può, anzi deve, sulla base della legge decidere chi ha più torto tra le vittime più o meno manifeste, il Gruppo della Trasgressione cerca, in accordo con il dettato costituzionale, di promuovere il riconoscimento di tutte le ferite per permettere di ricucire “lo strappo” avvenuto nel tessuto sociale.

In questo senso, come diceva giustamente Manuela “per quanto noi ci sentiamo assolti siamo per sempre coinvolti”.

Infine, come sintesi dei due concetti di cui sopra, mi viene in mente l’intervento di Paolo in risposta alla domanda di Roberto che si chiedeva come facessero le persone che gli dimostrano stima e simpatia a fare i conti con il terribile passato che lui oggi disapprova ma comunque non rinnega.

Paolo gli ha risposto raccontando di quella volta in cui è arrivato sul punto di uccidere un uomo. Poi ha detto che, per certi versi, il dolore per la consapevolezza che avrebbe potuto uccidere è più pesante del dolore che ha subito per la morte violenta della sorella Emanuela.

È come se Paolo avesse voluto dire a Roberto che oggi loro due possono avere a che fare l’uno con l’altro in modo autentico, non perché Paolo sia disposto a sorvolare sul passato di Roberto o faccia uno sforzo magnanimo nei suoi confronti. Tutt’altro, Paolo può accettare di fare strada con Roberto perché non lascia che il dolore per la perdita di Emanuela gli impedisca di riconoscere le parti più problematiche del proprio sentire. Sono queste infatti che gli permettono di riconoscere Roberto, tutto Roberto, comprese la sua storia passata e la fatica della sua evoluzione.

Sofia Lorefice

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Uccido dunque sono!

In questi ultimi giorni ho visto diversi film legati in qualche modo al tema del male nelle sue differenti manifestazioni. Sono film molto diversi tra di loro per tanti aspetti, legati anche alle diverse personalità e nazionalità dei registi e non solo. Ma se prescindiamo da ciò ed escludiamo, tra le altre cose, la diversità delle storie raccontate, i differenti contesti ambientali, culturali, politici, c’è un elemento centrale che è presente in tutti e che sottostà al tema del male e delle sue manifestazioni: l’Identità.

I film visti: L’odio, film francese di Mathieu Kassovitz – 1995; L’insulto, film libanese di Ziad Duoueri – 2018; Hannah Arendt, film tedesco di Margarethe von Trotta – 2014; Fa la cosa giusta di Spike Lee -1989, Elephant di Gus Van Sant – 2033, Bowling for Columbine documentario di Michael Moore – 2002, tutti e tre film americani.

In tutti questi film il problema identitario si pone sempre come centrale, è la molla che fa scattare l’odio, la violenza, il male. Anche quando non è esplicitamente evidenziato nel film, l’agire dei protagonisti ha come sottostante la questione identitaria.

Nel film L’odio, la questione identitaria si pone nella continua disperata lotta che i tre ragazzi delle banlieu parigine, portano avanti con chi sta dall’altra parte, poliziotti e Parigi dei benestanti, che li condanna alla marginalità, all’invisibilità, all’indifferenza. Si comportano come fossero dei soldati armati dall’odio, in bilico tra la voglia di rispetto e di riconoscimento e la rassegnazione alla propria condizione. Tutto il film sembra il racconto di una inesorabile caduta, dove l’odio è uno degli impulsi che spinge a precipitare nel vuoto del male, che è il vuoto di ogni cosa annientata di senso in questo precipitare. Proprio come quel tizio che cade dal 50° piano in cui il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. E l’atterraggio finale è drammatico, devastante.

Nel film libanese L’insulto, il forte sentimento identitario di appartenenza ad un popolo, è il motivo di fondo del conflitto tra i due protagonisti che, scatenato da un banale insulto, si estenderà poi come un incendio, alle opposte fazioni appartenenti a due popoli, segnati entrambi da violenze e atrocità, tanto subite, quanto inferte: i palestinesi da una parte, i libanesi dall’altra.

In Hannah Arendt, la questione identitaria si pone in due momenti diversi. Nel conflitto che vede la Arendt stessa accusata di essere una traditrice dell’identità del popolo ebraico, a causa delle sue conclusioni sul processo, pubblicate sulla rivista ‘New Yorker’. Poi nel processo che si svolge all’interno del film, dove la Arendt fa emergere la controversa teoria per cui esseri spesso banali (non persone) si trasformino in autentici agenti del male. Il gerarca nazista Eichmann, si dichiara semplice esecutore di ordini odiosi, non è altro che un ingranaggio della macchina del male nazista, deresponsabilizzato e non colpevole dei crimini a cui ha partecipato. In questa prospettiva egli ci mostra l’aspetto di banalità che può avere il male quando si manifesta nella sconcertante mediocrità dell’agire quotidiano del semplice funzionario. Ma certo è che sul piano della sua piena adesione e identificazione con il nazismo egli è sicuramente colpevole. Eichmann tutto può negare tranne che la sua identità era tutt’uno con il nazismo.

Il problema identitario si pone fortemente anche nel film di Spike Lee Fa la cosa giusta. In una comunità multietnica del quartiere di Brookling convivono afroamericani, italiani, messicani, coreani. Apparentemente sembrano andare d’accordo, in realtà una vera integrazione non c’è, anzi. Ognuno rimane chiuso nel proprio senso di appartenenza identitaria che provoca continui conflitti che esploderanno in una devastante violenza in cui sono tutti colpevoli, anche le forze dell’ordine.

Elephant e Bowling for Columbine, trattano entrambi della strage compiuta il 20 aprile 1999 da due studenti nel liceo di Columbine negli Usa dove la morte per strage di 12 studenti, un insegnante e 24 feriti, si tinge di banale quotidianità.

Questo infatti sembra essere il terreno su cui esplode la violenza del male. La banalità del quotidiano come perdita di significato di ogni cosa. E dove il significato si perde, non c’è sentire. Se l’identità è avere la certezza di sentire di esistere come soggetto che afferma se stesso nel mondo, in un contesto ambientale in cui ogni cosa del mondo appare come indifferentemente fruibile sugli scaffali del supermercato della vita, in cui tutto è appiattito nella vacuità valoriale di ciò che è stato ridotto a nient’altro che prodotto da consumare, la domanda identitaria di questi adolescenti dove mai potrà trovare risposta?

Allora si può forse concepire che al bisogno di qualcosa nel cui significato (non importa quale) possa trovare risposta la domanda identitaria, questa risposta, alla fine, può anche essere il far saltare tutto in aria. Se poi, in un contesto già così nientificante, la forma identitaria socialmente promossa risponde all’imperativo “se non sei qualcuno, non sei niente, non esisti”, se è questo l’unico modo per essere riconosciuti e sentire di esistere, allora, non importa come, la risposta per orribile che sia, può ben tradursi in un atto umanamente inammissibile. Basta prendere dallo scaffale del market, piuttosto che da internet ciò che è lì, disponibile come qualsiasi altra cosa, e trasformare la banale e piatta quotidianità dell’esistere in un divertente gioco al bersaglio.

“Ma soprattutto ci dobbiamo divertire”, è una delle frasi che nel film i due ragazzi dicono prima della strage. Si divertiranno ad uccidere, come in un videogioco. Uccidere per divertimento è il loro modo di sentire? Sentire di essere vivi? Parafrasando crudamente una nota formula filosofica che esprime la certezza indubitabile che l’uomo ha di se stesso come esistente, si potrebbe forse dire: “uccido dunque sono”.

I due ragazzi si dissero di essere sicuri che dall’attentato sarebbe stato tratto un film. Due giorni prima della strage girarono un ultimo video nel quale si scusavano con le famiglie e si vantavano di come sarebbero stati ricordati con infamia dopo la loro impresa. “Sarà un giorno che sarà ricordato per sempre”.

In conclusione
Il bisogno identitario sembra essere la radice di un conflitto profondo che può trovare nel male, nelle sue differenti manifestazioni, una risposta, una funzione identitaria. Questo conflitto sembra esistere in partenza, sin dal momento in cui l’individuo, qualsiasi individuo, si pone l’imperativo di essere qualcosa, di riconoscersi, di affermare una propria identità.

Il bisogno di affermazione dell’identità è un atto conflittuale e divisivo di per sé? L’identità come sentimento di appartenenza a qualcosa, ad un clan, ad un gruppo sociale, alla famiglia, ad un popolo, nazione, idea, religione; ma anche alle proprie ferite, paure, desideri, è un atto di separazione da ciò che è altro da me?

Io appartengo alle banlieu, sono un soldato armato d’odio per chi sta dall’altra parte, e questo fa parte di quello che sono; io sono nazista, tu ebreo e ti uccido perché questa è la legge in cui mi riconosco; io appartengo a questo popolo e tu ad un altro, siamo in conflitto, siamo nemici. L’appartenenza è tutt’uno con l’avere un nemico da cui sentirsi separato, diverso, anche da quella parte di sé che non è ciò che dovrebbe o vorrebbe essere. E se poi la domanda non trova risposta dentro i confini socialmente accettati, la risposta può diventare devastante e trovare nel male la funzione che assolve a questo bisogno identitario, anche nelle forme più orribili.

Banalità e complessità del male, probabilmente questi due attributi sono indivisibili. Il male si presenta sempre sotto queste due forme. Ma non è il male ad essere banale o complesso. Il male di per sé è un concetto astratto. La banalità non è del male, il male che si fa non può essere mai banale. La banalità o mediocrità del male si innesta nel terreno della nostra quotidianità, quella che può essere vissuta e sentita come banale, mediocre, insignificante o semplicemente abitudinaria. Lo stesso vale per la complessità, che non appartiene al male in sé, ma a noi stessi, alle ragioni sottostanti le scelte che possono spingere a precipitare nel vuoto adrenalinico di un colpo di pistola.

Adriano Avanzini

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Contributi dal carcere per i cittadini di domani

Alle pagine su Genitori e Figli e su Area verde alcuni testi sul tema

Per le prenotazioni occorre inviare i propri dati alla mail cittadinidomani@gmail.com

  • specificando nominativo, luogo e data di nascita, residenza, numero del documento di identità e data di rilascio;
  • se, dopo avere ricevuto conferma dell’accreditamento, si decidesse di non partecipare, vi chiediamo di avvertire con mail di rinuncia, specificando nell’oggetto della mail la giornata

Istruzioni per presentarsi al carcere di Opera:

  • Martedì 19/11, presentarsi entro le ore 9:00 all’ingresso del carcere di Milano Opera (Via Camporgnago, 40 – Milano)

Le donazioni all’associazione Trasgressione.net non sono necessarie, ma ci sono bene accette, purché non eccessive :). Ci è invece gradito conoscere nella causale del bonifico chi condivide i nostri intenti.

 

La complessità del male

Un intervento al liceo Modigliani di Giussano su “La complessità del male”, tema che nei prossimi mesi sarà centrale nell’indagine e nelle iniziative del Gruppo della Trasgressione.

Fra queste quella relativa al rapporto fra genitori detenuti e figli (che vedrà la collaborazione fra i detenuti del Gruppo Trsg di Bollate e i detenuti  dei due gruppi di Opera); quella che fa capo al Cineforum nel carcere di Bollate; La partita a bordo campo, del prossimo novembre.

Tutte le indagini e le iniziative nascono dalla collaborazione fra detenuti,  studenti universitari, persone la cui vita è stata dolorosamente segnata dalla follia criminale, insegnanti e comuni cittadini, figure istituzionali,  artisti (vedi il progetto con Domenico Fiumanò), esperti di settore come i partner de LO STRAPPO .

Dentro il carcere, ma non fuori dal mondo

Mi chiamo Rosario Romeo, sono detenuto e faccio parte del Gruppo della Trasgressione di Bollate. Desidero dare un mio contributo riguardo alla lettera che Vito Cosco ha scritto e poi letto all’incontro collettivo fra i detenuti del gruppo di Opera e i loro familiari.

La lettera, resa pubblica dal dott. Aparo, è stata ripresa da alcuni organi di informazione, che hanno però proposto ai lettori o ai telespettatori una visione, a mio giudizio, errata delle cose. Io non credo che con quella lettera Vito Cosco punti a benefici o a sconti di pena; se avesse voluto dissociarsi dai coimputati, avrebbe dovuto farlo durante i tre gradi di giudizio. Adesso, un pentimento allo scopo di ottenere benefici sarebbe inutile.

Vorrei anche commentare quanto ci è stato riferito sull’incontro con i familiari. Abbiamo saputo dal dott. Aparo che all’incontro erano presenti anche la moglie e i figli di Vito Cosco. Da quanto ho capito, Vito Cosco ha ammesso per la prima volta, e dopo quasi 10 anni di carcere, le proprie responsabilità davanti ai propri figli e ha criticato senza mezzi termini il proprio operato.

Io credo che questa lettera sia un punto di partenza per potersi avvicinare soprattutto al figlio più piccolo, che (è stato detto) non era a conoscenza dei veri motivi per cui il padre è stato condannato all’ergastolo. Adesso il figlio di Vito è un adolescente e il padre capisce che non può continuare a mentire sulle proprie responsabilità; anzi, Vito Cosco sa, come qualsiasi detenuto con un po’ di cervello, che, per potersi riprendere la propria pericolante funzione di padre, deve avviare col figlio una comunicazione sincera e non più superficiale ed elusiva, come peraltro gran parte dei detenuti fa con i propri figli.

Se anche può essere vero che tante volte i detenuti cominciano a frequentare il gruppo con la speranza di ottenere qualche beneficio (uscite per eventi vari, una bella relazione o addirittura un posto di lavoro), bisogna riconoscere che chi frequenta il Gruppo della Trasgressione, sulla distanza, è costretto a confrontarsi (e finisce per essere contento di farlo) con situazioni che favoriscono riflessioni e autocritiche, che diventano nel tempo sempre più sincere e profonde e che coinvolgono anche detenuti giunti al gruppo per altri scopi.

Credo che ciò che è successo al Gruppo della Trasgressione di Opera debba essere inquadrato in relazione a quello di cui hanno bisogno i detenuti per non sentirsi definitivamente fuori dal mondo, oltre che lungodegenti chiusi dentro le mura del carcere. Le cose di cui parlano i telegiornali che ho visto sono buone solo a stuzzicare appetiti insani.

Rosario Romeo e Angelo Aparo

Romeo Rosario

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