L’altra giustizia possibile

Quanto coraggio ci vuole ad incontrare se stessi, quando tutto questo deve passare attraverso l’incontro con l’altro che ci ha ammazzato l’esistenza?

Credo di aver iniziato a pormi questa domanda solo 8 anni fa, accompagnando Marisa Fiorani, madre di Marcella di Levrano, uccisa dalla Sacra Corona Unita, ad un incontro al carcere di Opera con alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione, un tempo appartenenti alla criminalità mafiosa.

Prima, nella mia testa, abitava solo il ricordo di poche parole che un ragazzo mi confidò – in un campo profughi a Novo Mesto quando entrambi avevamo 22 anni – per cercare di spiegarmi cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile. Avevo del resto affrontato tutto il percorso universitario incentrando la mia attenzione esclusivamente sul reo. E anche durante la tesi di laurea quello che mi aveva più appassionato, nella mia indagine presso il Tribunale per i Minorenni, era il dilemma di optare tra una giustizia rigorosamente punitiva, e pertanto definita paternalistica, e una che – in quanto più remissiva – era più simile ai tratti materni. Con una sintesi sicuramente oggi discutibile ma ancora viva nell’immaginario comune, avevo scelto di arruolarmi tra i fautori della prima tesi, salvo iniziare a ricredermi grazie a due eventi che come una benedizione hanno segnato profondamente, e quasi contestualmente, la mia esperienza di vita: essere diventato padre ed aver iniziato a camminare a fianco dei familiari delle vittime della criminalità organizzata.

Sono giganti, quest’ultimi, ai quali la vita ha lasciato in pegno – dopo la morte, per mano di altro essere umano, degli affetti più cari – un macigno di dolore, grande come una montagna. C’è stato un tempo, diverso per ciascuno di loro, durante il quale l’incontro con frammenti illuminati della Chiesa e della società civile ha offerto l’occasione per ricevere in dono scarponi e corde. Ma loro, quei doni, li hanno utilizzati non tanto per arrivare in cima alla montagna quanto per calarsi, ancora più in profondità, in quello che Dostoevskij definirebbe il sottosuolo dentro ciascuno di noi.

Come Margherita Asta, che proprio in un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” identifica l’esatto momento in cui ha iniziato a dare un senso alla morte dei suoi due fratelli gemelli: alla prima udienza del processo ai mandanti della strage di Pizzolungo, quando decise di ritrovare i tratti dei loro volti, sia pure trasfigurati, dentro lo squallore di un album fotografico. E proprio quel momento l’ha portata poi a voler incrociare anche il volto di chi, quei fratelli insieme a sua madre, aveva annientato per sempre.

Il coraggio delle donne non è, dunque, quello di affrontare il nemico in un campo di battaglia. Come voleva fare Giorgio Bazzega nell’alimentare la lista delle persone, legate all’uccisione di suo padre, che avrebbe dovuto – allo stesso modo – ammazzare. Fino a cambiare idea nell’incontro con Manlio Milani che era andato fino in Giappone perché voleva, lui invece, parlare con chi poteva essere responsabile della morte di sua moglie.

Prende forma, quel coraggio, con Daniela Marcone quando supera gli orizzonti di un dolore strettamente personale, e per questo necessariamente unico, per indicare con forza la necessità di costruire una memoria collettiva delle vittime delle mafie pugliesi.

Il coraggio delle donne passa dal saper fare i conti prima di tutto con i colori più scuri delle proprie emozioni, con quella loro capacità di saper dare a ciascuna di esse un nome esatto e, così, iniziare a lasciarsele dietro il cammino. Come Agnese Moro, in una delle pagine più dense del Libro dell’incontro, quando rilegge il referto dell’autopsia eseguita sul corpo di suo padre per essere certa di non averne tradito la memoria andando ad incontrare chi aveva contribuito ad ucciderlo.

Porta dentro di sé come elemento imprescindibile, il coraggio delle donne, il dono dell’accoglienza, capace – per loro stessa natura – di generare altra vita. E’ interessante che Paolo Setti Carraro abbia paragonato la sua esperienza di familiare di vittima di reato, attivo nei percorsi trattamentali in carcere, come simile alla attività di una ostetrica che aiuta – al più – a far nascere l’uomo dentro un criminale. Prendendolo per mano.

La giustizia riparativa ha bisogno delle mani di Marisa, Margherita, Daniela, Agnese e di tutte le altre donne che in tutti questi anni hanno tratto ispirazione dal loro coraggio. Ma ha bisogno anche delle mani di Manlio, Giorgio, Paolo e di tutti gli altri uomini che hanno deciso di scongelare il proprio dolore per provare a farne qualcosa di diverso.

Dentro di me e nella mia testa, ora, tutto torna: del resto Rembrandt regala alla sua più famosa immagine di accoglienza misericordiosa le mani di un uomo e di una donna.

Ma la giustizia riparativa ha bisogno che anche le nostre mani si uniscano alle loro: per accompagnare quella danza – come nel quadro di Matisse – affinché sia in grado di restituire un poco di senso a tutto questo sangue versato e, come in una trasfusione vitale, generare esperienze di pace.

[un estratto di questo contributo è stato pubblicato oggi su Avvenire, p. 4, a corredo di un intervista di Viviana Daloisio a Daniela Marcone dal titolo Fare pace con il dolore”. Daniela Marcone e le vittime di mafia]

Giustizia Riparativa

Materiali per I fratelli Karamazov

Abbiamo trovato 63 studenti/esse (di giurisprudenza, psicologia ed altre facoltà) per dare forma – dentro le mura del carcere di Bollate – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni.

Dopo la nostra lettera di invito, sono giunte ben 81 candidature anche grazie ad un articolo di Luigi Ferrarella pubblicato sul Corriere della Sera.

Siamo, allo stesso tempo, ugualmente soddisfatti per avere ricevuto il dono di alcune copie de I fratelli Karamazov necessarie al progetto e destinate alle persone detenute.

Giovedì 1 febbraio abbiamo iniziato …. ecco i materiali per seguire la nostra ricerca anche fuori dal carcere:

I ritratti dei quattro fratelli Karamazov sono stati realizzati, appositamente per questa nostra ricerca, da Luca Lischetti.

Grazie anche ad Andrea Spinelli, illustratore giudiziario in Tribunale e visual soul painter per i nostri progetti in carcere, per aver accettato di aiutarci nella realizzazione della serata di restituzione pubblica del 9 marzo.

Qui la intervista a RAI Radio2 Caterpillar (puntata del 25.2.2024 – grazie a Sara Zambotti, Massimo Cirri e a tutta la redazione):

Chi sono io? Esercizio di Martina Intano

 

Let it be, Karamazov! (by cescofrancobolli)

La serata di restituzione pubblica del 9 marzo 2024, al teatro del carcere di Bollate, è stata interamente ripresa da Radio Radicale ed è visibile qui

A coronamento del progetto di ricerca, RAI Radio2 Caterpillar vi ha dedicato l’intera puntata del 19 marzo 2024 con una diretta nazionale “un po’ dentro, un po’ fuori” visibile, anche in visual radio, qui

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Aula Dostoevskij. Delitto e castigo al carcere di Opera

Durante i cinque mercoledì di Novembre 2022 abbiamo dato forma – dentro le mura del carcere di Opera – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, invitando 43 studenti di giurisprudenza a dialogare insieme a chi ne ha già commessi parecchi e a chi ne ha subiti alcuni. Traendo beneficio anche dalle autorevoli sollecitazioni di Fausto Malcovati, docente di lingua e letteratura russa.

Magistrati e studenti universitari, familiari delle vittime della criminalità organizzata e detenuti di media e ad alta sicurezza appartenenti al Gruppo della Trasgressione: ad un anno di distanza, i protagonisti di questa significativa ri-lettura collettiva del romanzo di Dostoevskij sentono la necessità di rendere pubblici i risultati e le risposte che, a seguito della ricerca, pensano di avere ottenuto.

Con la partecipazione straordinaria di Paolo Noriscrittore.

Introducono i lavori:

Angelo Aparo – psicoterapeuta, fondatore del Gruppo della Trasgressione
Francesco Cajani – pubblico ministero, comitato scientifico de “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine

Silvio Di Gregorio – direttore casa di reclusione di Opera

Alcuni materiali della ricerca sono disponibili qui .

Ingresso gratuito fino ad esaurimento dei posti disponibili.

CONTRIBUTI VIDEO

o il servizio di Elena Scarrone per il TGR Lombardia:

o la registrazione integrale dell’incontro a cura di RadioRadicale:

I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate

“Cerchiamo 30 giovani studenti/studentesse di giurisprudenza e di psicologia per dare forma – dentro le mura del carcere di Bollate – ad una singolare ricerca sul delitto e le sue molteplici conseguenze, dialogando insieme a chi ne ha già commessi parecchi e chi ne ha subiti alcuni”.

Qui la lettera di invito.

Le candidature dovranno pervenire a info@lostrappo.net (oggetto: candidatura fratelli Karamazoventro e non oltre il 14 Gennaio 2024.

Gli incontri si svolgeranno all’interno del carcere di Bollate (ore 14.30-17.30) nei seguenti giorni:

giovedì 1, 8, 22 Febbraio 2024 / venerdì 1 e giovedì 7 Marzo 2024.

Maggiori informazioni anche sulla pagina Instagram de “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”.

PS: in ogni caso c’è anche un altro gesto utile per aiutarci in questa ricerca, considerato che tutti i protagonisti di questa rilettura collettiva parteciperanno a titolo gratuito: regalando una copia de “I fratelli Karamazov” alle persone detenute nel carcere di Bollate.

[anche con una dedica e/o un augurio di buona lettura, se ritieni. . Se non sai quale edizione scegliere ci permettiamo di consigliarti Einaudi, con la traduzione di Claudia Zonghetti. Indirizzo della spedizione/consegna a mani: Direzione Casa di reclusione di Bollate, via Belgioioso, 120, 20157 Milano. Ci faremo personalmente garanti della consegna dei libri alle persone detenute interessate]

PS2: abbiamo già in agenda una restituzione pubblica dei risultati della nostra ricerca sabato 9 marzo 2024, ore 20.00 – carcere di Bollate

I Conflitti della famiglia Karamazov

Noi, tra il rogo che brucia e la danza che ci chiama

And the Court will rise
while the pillars all fall

[Peter Gabriel, The Court]

 

Racconta Peter Gabriel che inizialmente, alla ricerca di una immagine artistica da abbinare al lancio della sua nuova canzone “The Court”, quello che lo attrasse in quell’ intenso bruciore fu la sensazione di un qualcosa che restituisse visivamente “the result of the jugdment” (“l’esito della sentenza”).

Solo dopo scoprì ciò che si celava dietro questo scatto fotografico: un frammento dell’ennesima straordinaria visione artistica dello scultore inglese Tim Shaw, creata in risposta a quanto accaduto all’interno della Royal Academy of Arts all’inizio del 2022. E precisamente in risposta alla lettera di dimissioni inviata dagli artisti Gilbert e George, avente il seguente tenore: “Con la presente restituiamo le nostre medaglie e i nostri certificati … Malediciamo la Royal Academy e tutti i suoi membri”.

Ecco dunque il commento dello stesso Tim Shaw:Che si tratti di parole irriverenti o di energia tossica mirata, è una cosa seria maledire qualcuno. Essendo uno dei maledetti, sento l’obbligo di affrontare questo atto con una risposta vigorosa”. E così quel fuoco assume in realtà un significato diverso da una esecuzione, costituendo invece un passaggio necessario in un processo che dà il titolo alla sua installazione artistica: “togliere la maledizione”.

Questo si realizza attraverso un vero e proprio rituale collettivo ideato dall’Artista, originatosi già prima dell’accensione del rogo e confluito – dopo che le fiamme si spensero – in una processione danzante che sfilò verso il fiume alla luce delle torce: “una foschia fumosa si mescolava all’inebriante odore di campanule e aglio, mentre le ceneri venivano gettate cerimoniosamente nell’aria, nell’acqua e nella terra”.

 

Sono rimasto anche io estremamente colpito da tale cerimonia e da questo aneddoto che non conoscevo, pur avendo già apprezzato in passato lo scultore in altre sue famose opere, fortemente influenzate dalle sue origini irlandesi. Testimone diretto – all’età di 8 anni – dell’esplosione di una bomba al piano inferiore di un ristorante di Belfast dove si trovava con sua mamma (durante le tensioni dei primi anni ’70 a me solamente note grazie ad una delle prime canzoni degli U2 che ho amato), Tim Shaw è stato capace di restituire forma artistica anche alla “alternative justice” denunciando quella espressione di umiliazione pubblica, utilizzata nell’Irlanda del Nord nel medesimo periodo storico ma anche in epoca più recente, tramite l’uso di catrame e piume cosparsi su corpi di donne e uomini presi a bersaglio.

Tutto questo mi ha fatto ritornare alla mente un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”, quando il Giudice Marco Maiga con una mirabile sintesi afferma:

Lo scopo del processo non è quello di risarcire la vittima, di assicurare un colpevole alla vittima. Lo scopo del processo è quello di esercitare la cosiddetta pretesa punitiva dello Stato, cioè la pretesa di sanzionare, l’esigenza di sanzionare quelli che hanno violato le regole della comunità.  Il processo va avanti anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata se è ritenuta responsabile anche se la vittima non vuole”.

Ne discende una domanda, apparentemente innocua: e dunque, se la pretesa punitiva non è appannaggio del singolo individuo ma deve essere esercitata (solamente) dallo Stato, che ne è invece della cosiddetta “esecuzione della pena”?

In altre parole: possiamo dunque tutti noi, quali componenti della società civile, ritenerci ugualmente esonerati dal fornire alcun contributo nella fase che necessariamente segue alla comminazione della condanna?

Le traiettorie di questi ultimi 6 anni, che hanno portato alcune vittime dei reati della criminalità organizzata all’incontro con le persone detenute del Gruppo della Trasgressione, forse potrebbe suggerire una risposta di senso. E riportarci tutti a quell’immagine del rogo che, con gli occhiali che ci ha regalato l’Artista, può assumere un significato ben diverso da quello tradizionale di dannazione eterna.

Per farmi meglio intendere ho bisogno qui, necessariamente, di chiedere aiuto a quella “capacità collettiva di costruire orizzonti sociali di speranza e di affermazione” alla quale questa estate la filosofa Rosi Braidotti ci ha nuovamente richiamati (dopo averne diffusamente trattato nel suo libro “Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte) attraverso le pagine del Corriere della Sera:

L’affermazione non è il rifiuto del dolore, ma una maniera consapevole e propositiva di trasformarlo in materia vivente e creativa. L’affermazione è gioia, qualità ontologica, derivata dalla capacità condivisa da tutti noi, di attivare una memoria incarnata, cioè legata all’esperienza vissuta, anche quella del dolore. Attivarla per meglio esprimere il nostro nucleo vitale, che altro non è che il desiderio fondamentale di continuare a esistere attraverso le relazioni”.

Ai miei occhi quindi l’etica affermativa sembra imporre ineludibilmente, a ciascuno di noi, di essere parte attiva in quello che, nei termini giuridici, viene definito il percorso trattamentale del condannato detenuto. Per cercare di dare un contributo nel trasformare il dolore, che necessariamente il reato commesso ha causato non solo alle vittime dirette ma all’intero tessuto sociale, in qualcosa di diverso: qualcosa che assuma sempre più i caratteri ontologici di una riparazione.

E in questo l’esperienza del Gruppo della Trasgressione – tramite il lavoro sulle coscienze delle persone detenute che in esso si riconoscono – si identifica proprio in quel lento procedere, verso il fiume della trasformazione (il famoso πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός di Eraclito).  Un movimento collettivo che potrebbe ben essere appena uscito dal famoso quadro di Matisse:

In una danza che anche l’intelligenza artificiale, nel videoclip di “The Court” capace di trarre ispirazione (e trasformazione) dal linguaggio scultoreo di Tim Shaw e dalla lirica di Peter Gabriel, ripropone in un frame ugualmente efficace:

Accompagnando per mano vittime e rei, la sfida che attende ciascuno di noi è dunque quella di contribuire ai percorsi riparativi dello strappo che il reato ha causato: perché, parafrasando il Poeta (Baudelaire), solo la danza può rivelare tutto il mistero che la vita tiene nascosto.

Monza – Teatro Binario7, 13.10.23

 

Cura o tradimento

Se potessi fare a meno di decidere
non sarei di certo così stanco

Ogni volta è una conquista riconoscere
quale sia la mia metà del campo

Guardo i fogli ancora bianchi sul mio tavolo
non ho idea di cosa farci e quindi sto

come un uomo che è davanti ad un citofono
e non ricorda più il cognome

[Nicolò Fabi, Tradizione e tradimento]

 

Il tratto di strada tra Malaga e Siviglia mi ha recentemente regalato due meravigliose sintesi visive in relazione alle tematiche con le quali ci stiamo confrontando durante gli incontri del Gruppo della Trasgressione, in questo ultimo anno così denso.

Nella ricerca del famoso dipinto di Goya nella Cappella dei Dolori della Cattedrale di Siviglia, mi sono imbattuto – quasi per caso – in questa raffigurazione della Negazione di San Pietro davvero significativa.

La négation de San Pedro, sec. XVII

Balza subito agli occhi, da un lato, la “citazione” ai movimenti dei personaggi che ritroviamo nella Vocazione di San Matteo di Caravaggio. Dall’altro, singolare è il distacco che l’anonimo autore francese vuole farne rispetto alla Negazione di San Pietro che lo stesso Caravaggio dipinse negli ultimi anni della sua vita: tanto “privata” la dinamica di quest’ultimo quadro (in quanto ristretta a tre attori: San Pietro che nega, la donna che lo accusa del contrario avendolo visto insieme a Gesù, il soldato alla quale la donna si rivolge per farlo catturare), quanto “pubblica” invece quella che il pittore francese, seguace di Caravaggio, ha inteso raffigurare.

Qui infatti, almeno da una mia prima impressione, sembra proprio che il soldato non si accontenti del racconto della donna e, per questo, “chieda conto” ad altre persone, sia pure in altre faccende affaccendate.

Ecco dunque l’immagine complessiva che questo dipinto, in maniera plastica, mi restituisce:  non solo “la chiamata a trarre il meglio da sé” ma anche il suo contrario, ossia il “tradimento di sé attraverso la negazione di quello che siamo (stati)”, è questione che non può essere circoscritta ad una dimensione strettamente personale.

Durante il nostro ultimo inverno nel sottosuolo di San Vittore lo abbiamo ripetuto molte volte: è la funzione che noi attribuiamo all’altro ciò che può fare la differenza nel diventare nutrimento profondo per la sua evoluzione.

Però rimaneva sempre nascosta, in questa nostra dialettica volta a far (ri)nascere il sole nelle esistenze di giovani adulti, l’altra faccia della medaglia. E precisamente: che dire invece di chi non vuole rispondere alla chiamata? Di chi non vuole dissotterrare il talento? Di chi non vuole togliere il bavaglio nel quale ha imprigionato la sua coscienza?

Nel pensare pertanto a questo lato oscuro della luna, un altro quadro mi è venuto in soccorso: anche qui sempre grazie ad una “rivoluzione copernicana” rispetto alle nostre corde emozionali che un mese fa avevano vibrato al suono dei violini del mare.

Ed infatti, se le barche che hanno trovato infine approdo al carcere di Opera avevano necessariamente richiamato a ciascuno di noi – per non rimanere indifferenti al male – l’azione riprovevole dei carnefici, questo dipinto di Picasso mi suggerisce l’esatto contrario.

Barque de naïades et faune blessé, 1937

E’ risaputo come il pittore spagnolo avesse tratto anche dalla cultura greca fonte di ispirazione per la sua Arte visiva, ma qui non è tanto il tema della potenza distruttiva del Minotauro (a lui così caro) ad essere presente quanto quello della cura rigeneratrice, incarnata nell’azione delle Ninfe dell’acqua che soccorrono il Fauno ferito.

In altre parole è il mito rovesciato, dove le Ninfe non hanno più motivo di temere chi – fino a quel momento – le aveva fatte oggetto della sua riprovevole caccia.

E non vi ormai più ombra di dubbio che le “nostre” Naiadi siano proprio i Familiari delle vittime: ad iniziare da Marisa Fiorani con quell’incontro nel carcere di Opera del 6 settembre 2016, fino ad arrivare a Paolo Setti Carraro con la sua lettera (quasi un bilancio interiore) dello scorso giugno.

Ma penso anche a Manlio Milani e Agnese Moro, Giorgio Bazzega e alle tante altre donne e uomini che in tutti questi anni hanno fatto una scelta precisa quanto alla propria metà del campo. Perché questo quadro di Picasso ha, per me, la stessa forza evocativa di quel racconto che mi aveva fatto sobbalzare lo stomaco, una sera al cinema:

Di questo racconto, con il passare degli anni, apprezzo non solo la conclusione (quella che più di quindici anni fa mi aveva folgorato) ma anche l’inizio: questi Familiari hanno fatto un percorso interiore strettamente personale, ma in questa loro immensa fatica non sono stati mai lasciati soli.

Perché un altro proverbio africano dice che “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”. Allo stesso modo per curare un essere umano – vittima o carnefice che sia – affinché possa ritrovare sé stesso, senza più tradire la sua più vera natura: orgoglioso di fare parte di questo villaggio, insieme a tutti voi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianzaReparto LA CHIAMATA

Due fratelli

Penso alla domanda posta da Aparo giovedì scorso al reparto La Chiamata: Quando qualcuno si interessa del detenuto, sta tradendo i famigliari della vittima? La cura nei confronti di chi ha abusato sminuisce o tradisce la cura verso vittima o i suoi famigliari?

Personalmente, ad oggi rispondo: assolutamente NO!

Mi rendo conto che è frutto di un cammino di conoscenza di me e di vita giocata grazie alle provocazioni, sfide, contrasti, reazioni -espresse bene o male, non importa- di tanti ragazzi che mi hanno indotto (e mi inducono tutt’ora) a scavare dentro me stessa per trovare risposte che non siano ‘frasi fatte’, frasi scontate, ma la verità di me.

Mi fa riflettere sulla mia vita: Non ho passato una bella infanzia e adolescenza tranne che a scuola o con gli amici fuori casa. Sono nata rifiutata e non potevo capire -come tutti i bambini- i problemi degli adulti (i miei genitori). Incassavo e cercavo di proteggere la mia sorella gemella e un’altra sorella, ero molto molto timida e certamente insicura. Nella pre-adolescenza e adolescenza mi sentivo e credevo ‘un nulla’. Ci facevamo forza -come non so- io e la mia sorella gemella.

A 21 anni ho iniziato il cammino per diventare suora, Qualcuno inaspettatamente mi ha scelta: un nulla graziato.

A 34 (2001) anni ho perso mia sorella gemella, sposata da 5 anni, con tre figli piccolissimi (un mese e mezzo; due anni e mezzo e tre anni e mezzo) per un Tir pirata che le ha stretto la strada a senso unico e l’ha trascinata.

Ha salvato i tre figlioletti che erano in macchina e ha lottato tra la morte e la vita senza farcela. I becchini quando sono venuti ad aprire la camera mortuaria, trovandomi dentro da sola con lei, mi hanno detto: ma quell’autista del Tir riuscirà a dormire sapendo della morte prematura di una mamma che ha lasciato tre figli e il marito?

E io risposi loro spontaneamente: quell’uomo chissà quali problemi aveva per non essere lucido nella guida, avrà la sua responsabilità ma ne rimarrà segnato per tutta la vita, purtroppo. Invece il questore che, oltre ai 17 giorni di indagini, ha voluto attendere troppi giorni dopo la morte con la scusa di cercare ‘il colpevole’ che non ha mai cercato… lo sarà forse meno (la corruzione, abbiamo saputo poi, aveva avuto il sopravvento).

Ne ho viste e sentite tante sulla mia pelle e ho imparato tanto a forza di sbattere ‘la testa contro il muro’ e -come già accennavo- ho imparato a farmi domande e a cercare il confronto anche attraverso un percorso di conoscenza intrapreso a 24 anni. Questo mi ha aiutato a mettere in campo risorse che non sapevo di avere e ad acquisire qualche strumento per rileggermi … un percorso bellissimo! Mi ha dato le basi per la scelta di vita sempre in movimento e per continuare a camminare dentro gli eventi e le situazioni in divenire e non prive di tempeste.

Dal 2010 frequento il carcere e da suora sono stata a tempo pieno in periferie di Pavia, Roma e Milano, e questa palestra di umanità ha trasformato il mio sguardo, che ha iniziato a vedere prima di tutto e sopra tutto la persona, l’uomo che mi sta davanti sia nell’autore del reato, sia in chi lo subisce; anche perché queste due dimensioni sono presenti anche dentro di me: grano e zizzania.

Ho imparato a ri-conoscere i mostri e le miserie che sono in me assieme ai doni e a ri-conoscere quanto sia difficile metterli in dialogo perché dentro di me non facciano a pugni, ma possa prevalere la risorsa sul danno.

Per me è importante chiedermi quanto e come io sono capace -per es.- di riparare e ricucire una relazione fallita o rifiutata da me, come posso tenere ‘in equilibrio’ dei macigni ereditati o causati dalla mia storia personale assieme alle risorse e ai cambiamenti maturati in bene? Rimangono la lotta e l’impegno per farli interagire perché diventino ‘amici’. Impossibile? NO, frutto di un cammino che non finisce mai!

Se ogni persona è prima di tutto persona, conta la cura della vittima o dei familiari della vittima di reato tanto quanto la cura di chi lo ha commesso perché solo così si toglie potere al male che in ciascuno di noi abita assieme al bene.

Se non sono nessuno per ‘togliere’ la vita o anche solo la dignità ad una persona, sono forse qualcuno per toglierla a me stesso?

Più rivedo e riconosco le tempeste passate e presenti dentro di me assieme alla cura immeritata, gratuita, ricevuta e più credo che sia possibile, anzi necessaria, una cura per ogni persona sempre e comunque!

Inoltre penso ai due fratelli della parabola del Padre Misericordioso e proprio lì trovo la bellezza della giustizia riparativa che i due fratelli dovrebbero mettere in atto tra loro, uno apparentemente bravo e l’altro dissoluto, ma entrambi persi.

È il Padre che mette in atto e inizia la riparazione, aspettando a braccia aperte il figlio scappato di casa e facendo festa con lui, ma anche uscendo a supplicare l’altro che, sentendosi a posto, non vuole partecipare alla festa del fratello che non considera più tale e che definisce ‘tuo figlio’ rivolgendosi al Padre.

Questo mi dice che le nostre forze umane, se isolate, faticano tanto, ma Qualcuno non si stanca mai di raggiungerci perché guarda al cuore di ciascuno di noi -persi e ritrovati anche quando non lo riconosciamo- e non vuole che nessuno si perda. Da Padre, ci vuole figli e fratelli sempre!

Suor Anna Donelli

Reparto LA CHIAMATA – Incontri con i familiari delle vittime

In Italia, salvo qualche bella eccezione

“Perchè in Italia, salvo qualche bella eccezione, la prigione serve solo a punire il colpevole”

 

Parole importanti pronunciate all’indirizzo di 10 milioni 545 mila persone, più o meno attente in attesa del loro cantante preferito.

Parole da non dimenticare, praticandole ogni giorno: quale “bella eccezione“, direi che a questo punto il Gruppo della Trasgressione – dopo il Senato della Repubblica italiana – è pronto per andare il prossimo anno anche al Festival di Sanremo.

Sipario.

[credits: Raiplay, 73° Festival della canzone italiana, 8.2.2023. Monologo di Francesca Fagnani]

 

“Non devi trattenere il dolore per trattenere la memoria”

“You don’t have to hold onto the pain to hold onto the memory”
[Janet Jackson, Memory]

 

Il cammino con Marcella e Marisa, passato nel 2016 attraverso l’incontro con il Gruppo della Trasgressione al carcere di Opera, ci porterà il 21 Novembre 2022 a Pavia (ore 18, Collegio Santa Caterina da Siena).

Ci vediamo là! [qui la locandina completa]

Agosto con Paolo

Buongiorno a tutto il Gruppo della Trasgressione, sono Francesco. Mi fa piacere condividere con voi quello che mi succede ogni volta che termina l’incontro.

Quando vado via da qui, sento la necessità di andare al passeggio, e mentre cammino e ascolto la musica, rifletto sui discorsi che fa il Dottor Aparo e su tutte le domande e riflessioni che vengono poste al gruppo.

Ultimamente mi ha colpito moltissimo il fatto che Paolo Setti Carraro è entrato a far parte del gruppo interno. Provo a capire il dolore che ha dovuto sopportare in tutti questi anni assieme ai suoi famigliari. Inoltre, mi rendo conto che non ci possano essere scuse né giustificazioni per quell’ignobile atto; in quanto la signora Setti Carraro è stata una vittima innocente ed era estranea al lavoro che svolgeva il marito. Da quello che ho letto, il lavoro che svolgeva il Generale Della Chiesa non lo stava eseguendo per un suo scopo o tornaconto, ma perché il governo gli aveva concesso poteri speciali per combattere il terrorismo. Visto che il Generale, con grandi meriti, ha portato a termine il progetto di smantellare le brigate rosse, lo stato lo ha mandato in Sicilia per combattere la mafia.

Da tempo mi domando cosa c’entrava la moglie del generale! E perché hanno usato tanta ferocia su una donna innocente? Da quando sono in carcere sento dire che i mafiosi usano e rispettano dei codici, ma in tale situazione non si sa come mai non hanno tenuto in considerazione il codice tanto sbandierato.

Io non sono stato uno stinco di santo, non ho mai fatto parte di organizzazioni criminali ma ero vicino a dei miei parenti e a un mio fratello che hanno fatto parte di un’organizzazione mafiosa. Oggi mi sento di chiedergli umilmente scusa per il dolore che gli hanno arrecato tutti i mafiosi ed in particolare il dolore che ho prodotto anche io.

Apprezzo tantissimo che dal mese di agosto Paolo è entrato nel gruppo della trasgressione interno. Paolo è una persona che, nonostante il dolore e la tragedia che ha subito, è riuscito trovare la forza di confrontarsi con persone che gli hanno provocato il dolore che si porta dietro. Io trovo Paolo di un’umanità disarmante, la sua umiltà e i suoi discorsi mi portano a riflettere e a vergognarmi di quello che ero.

Inoltre, condivido pienamente quando sostiene che il dolore che uno subisce non deve essere rimosso, ma bisogna farselo attraversare addosso. Secondo il mio punto di vista, una persona può migliorare e cambiare solo attraverso l’avvicinamento delle istituzioni.

Per quanto riguarda la partecipazione all’omicidio della sorella di Paolo, io credo purtroppo che, sia Pasquale che tutti i detenuti presenti al tavolo, se all’epoca dei fatti avessimo fatto parte di quell’organizzazione mafiosa, sicuramente avremmo dovuto partecipare alla strage, sia perché venivamo istigati, esaltati dai capi e dai compagni, sia perché quando si è giovani non si  è coscienti e tantomeno avevamo gli strumenti per capire e sentire il dolore che avremmo provocato ai famigliari della vittima. Quelle sofferenze, quei sentimenti lasciano dentro ai famigliari della vittima delle cicatrici, in quanto si vive con quel ricordo.

Da quando partecipo al gruppo mi sono resoconto che quello che sostiene il Dottor Aparo è tutto vero. Ognuno di noi ha perso la propria umanità da giovanissimo, poi strada facendo si mette a tacere la coscienza ancora di più, arrivando a compiere gesti terribili. Secondo il mio pensiero l’umanità che c’è in ognuno di noi può essere ritrovata se le istituzioni non abbandonano le persone a sé stesse, ma iniziano a trattarli come esseri umani e non come fascicoli viventi.

L’umanità che c’è in  ognuno di noi può essere stimolata e alimentata se le persone vengono incoraggiate a mettersi in gioco e a crescere culturalmente. Sostengo che il cambiamento avviene attraverso il confronto e i laboratori come il Gruppo della Trasgressione, dove le persone vengono stimolate a prendere consapevolezza del loro passato. Inoltre, il rapporto che si viene a creare con le persone che aderiscono al Gruppo è importante. Queste persone durante il percorso diventano figure di riferimento. Gli incontri e le relazioni portano i detenuti a una rivisitazione profonda del loro passato e attraverso tali riflessioni iniziano a liberarsi dalle gabbie mentali.

Questo sta succedendo a me perché Lei, Paolo e il resto del Gruppo mi mettete in condizioni di liberarmi dei pregiudizi e di quei meccanismi che si vengono a creare tra il detenuto e l’educatore o lo psicologo. Nell’incontro della settimana scorsa si è parlato di psicoterapia. Nel mio caso il Gruppo funge da terapia, in quanto mi sta aiutando sia a relazionarmi che a mettermi in gioco e a superare le mie condizioni psicofisiche che mi trascino da quando è avvenuto il distacco con mio fratello gemello.

Lei, con i suoi discorsi conditi da bestemmie, e tutto il gruppo mi stimolate a venir fuori in modo naturale e sincero, senza aver paura di mostrare le mie fragilità, paure, emozioni.

Concludo facendovi sapere che se ho prodotto questo scritto è stato grazie a tutto il Gruppo.

Milano – Opera, 11/10/2022
Francesco Sergi

Incontri con le vittime