La nostra palestra

E’ un divertente paradosso che l’uomo, mentre insegue l’infinito, diventa se stesso nella realtà finita.

A me non è chiaro se punta all’infinito allo scopo di dialogare meglio con la realtà o se, nell’incapacità di rassegnarsi all’irritante esclusione dall’infinito, cerchi di costruire con la realtà una scala che gli permetta di accedervi.

Al momento ho capito solo che, molto facilmente, quando ci si dimentica di una delle due spinte (inseguire l’Infinito e dialogare con la Realtà) cominciano i guai! A smarrire la strada, siamo in tanti; e qualche volta questa dimenticanza porta in carcere.

Visto che a San Vittore ci lavoravo già, 23 anni fa (settembre 1997) mi è venuto in mente di aprire una palestra, tuttora in continua evoluzione. La disciplina che vi si pratica consiste nell’Addomesticare l’Arroganza. Le sedute di allenamento sono effettuate quasi sempre in squadra, i cui componenti sono persone che hanno commesso reati, persone che li hanno subiti, studenti universitari in tirocinio, comuni cittadini e, da qualche tempo, figure istituzionali che si interrogano, insieme con detenuti e vittime, su come si giunge al reato e sugli strumenti per emanciparsene.

In questa palestra, gli attrezzi che vanno per la maggiore sono il confronto, la scrittura, l’invenzione creativa. Uno dei nostri risultati è la rappresentazione teatrale del Mito di Sisifo, un gioco sul palcoscenico, mai uguale alla volta precedente, dove gli attori cercano, ogni volta con parole scelte al momento, le origini, i percorsi e gli esiti dell’arroganza.

Nella stessa direzione vanno la recente iniziativa del cineforum su La banalità e la complessità del male e i nostri giochi musicali, dove alcuni amici musicisti e i componenti del Gruppo della Trasgressione uniscono aspirazioni, riflessioni e competenze nei concerti della Trsg.band.

Obiettivo principale delle iniziative che portiamo avanti con la nostra cooperativa, con l’associazione Trasgressione.net e, in particolare, con la Squadra Anti-Degrado è far sì che chi aveva fatto in passato cattivo uso della propria libertà e contribuito al degrado sociale raggiunga, grazie al costante allenamento e alla varietà delle iniziative,  una consapevolezza di sé e motivazioni tali da poter collaborare efficacemente con comuni cittadini e con le istituzioni nella lotta al degrado, alle dipendenze e al bullismo.

Angelo Aparo

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Note sulle musiche e i testi:

  • File audio n.1: Canzone “San Vittore”, testo di Paolo Donati, musica di Paolo Donati e Alessandro Radici, arrangiamento della Trsg.band, canta Angelo Aparo
  • File audio n.2: Canzone “Malaika” Canzone tradizionale keniota, arrangiamento della Trsg.band, canta Angelo Aparo; all’interno della canzone il testo di “Sogni miei”, di Ernesto Bernardi e del Gruppo della Trasgressione, è letto da Cisky MCK
  • File audio n 3: Canzone “A Cimma”, musica di Mauro Pagani e Fabrizio De André, testo di Angelo Aparo, arrangiamento della Trsg.band, canta Angelo Aparo; il testo introduttivo, “Non era questo il primo sogno” è del Gruppo della Trasgressione, legge Cisky MCK
  • La Trsg.band: Angelo Aparo, Alessandro Radici, Ippolito Donati, Michele Montanaro, Paolo Donati, Silvia Casanova,

Nessuno può crescere da solo

Nessuno può crescere da solo
Manuela Re

Mi aggancio al finale del testo di Tiziana, “Nessuno può crescere da solo”, per tessere le lodi del Gruppo della Trasgressione dove ognuno è guidato ad esercitare la propria FUNZIONE -se ne parlava ieri a proposito di Toni che aggiusta l’auto a Yasser nel film (e, tra parentesi, la mia auto di terza mano è stata più volta riparata da Adriano Sannino senza il quale sarei rimasta N volte in mezzo alla strada e invece ora va come una lippa!)- e anche a diventare una guida per gli altri impegnati a combattere i fantasmi del passato. Penso per esempio al progetto Peer Support con i detenuti del Gruppo che entrano nel carcere di San Vittore per stimolare la riflessione e la crescita degli attuali reclusi, ma penso anche a chi è diventata psicologa come te Tiziana e anche Marta e al vs lavoro quotidiano con bambini/adolescenti l’una e adulti l’altra, incarnando in modo mirabile lo spirito del Gruppo.

Come accennavo ieri, credo che quando il conflitto tra le parti è molto aspro e si porta dietro un dolore atavico -come ne “L’insulto”- sia ancora più difficile uscirne da soli. La riconciliazione è possibile ci dice il film, ma occorre fare un percorso difficile di elaborazione e “scambio simbolico” come hai scritto tu Tiziana. Aggiungo che occorre anche che la società -alias tutti noi- svolga una funzione mediatrice e non si limiti a sperare che le parti avverse trovino da sé la strada per tornare a riconoscersi. Nel film le donne provano a svolgere questa funzione, con scarsi risultati d’accordo, ma fanno la loro parte. Anche il datore di lavoro di Yasser ci prova a modo suo, un po’ per motivi economici e un po’ per spinta compassionevole, ma è difficile con chi “a un certo punto inizia a vedere nemici dappertutto, anche in chi stava solo cercando di aggiustarti un tubo… (peraltro tubo abusivo!) …allora forse quel nemico non è lì sotto al tuo balcone, ma è dentro di te, indissolubilmente legato a ciò che sei diventato….” .

Interviene la legge, anche in questo caso con le proprie imperfezioni (è comunque fatta da uomini), ma mi sembra anche con il merito di aver sostituito la parola all’azione/al farsi giustizia da sé, il pensiero al tumulto di vissuti ed emozioni “non bonificate” (cit. Roberto).  E, in qualche modo, contribuisce a interrompere quel “paradosso della coazione a ripetere”.

Cosa voglio dire? Che non credo che i due protagonisti del film sarebbero arrivati ad una riconciliazione senza l’interesse della società civile -cui fanno parte- e la funzione mediatrice che ha svolto.

Ecco, il Gruppo della Trasgressione svolge egregiamente questa funzione, crede nella Legge e, contemporaneamente, ci ricorda con De André che “… Per quanto voi vi crediate assolti  Siete per sempre coinvolti …”

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L’insulto – male e realtà

L’INSULTO – male e realtà
Tiziana Pozzetti

Siamo a Beirut e due uomini, Toni, Libanese, e Yasser, rifugiato Palestinese, entrano in conflitto per un incidente apparentemente banale: un tubo che si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato. Il diverbio potrebbe risolversi velocemente, ma ad un certo punto arriva l’insulto. Yasser guarda Toni e, puntandogli il dito contro, con disprezzo dice: “Sei un cane”.

Ora, la mia domanda è: siamo sicuri che Yasser stia veramente insultando Toni? E quando Toni denuncia, sta denunciando Yasser?

Con lo scorrere del film diventa sempre più evidente la cecità dei personaggi: Toni e Yasser non vedono l’altro per ciò che egli è veramente, ma per ciò che l’altro rappresenta per loro. La realtà di oggi viene interpretata, quindi, non per quello che è, ma sulla base del male subito nel passato: un insulto ancora vivo, che ha il potere di cambiare il modo in cui i due uomini vedono le cose, di far scivolare progressivamente le loro azioni verso un’orizzonte sempre più ristretto.

Se all’inizio del film si tratta di un banale incidente, che tutto sommato lascia loro la libertà di scegliere quale direzione prendere, alla fine diventa una questione di stato talmente grande che sfugge dalle mani dei protagonisti, i quali non possono nemmeno più scegliere di tirarsi indietro.

A quel punto, infatti, ogni scelta è gravida di conseguenze: porti avanti il processo? Distruggerai una famiglia. Rinunci? Sarai uno sporco traditore della patria.

Ma mentre le piccole scelte che i personaggi compiono ogni giorno li portano piano piano, e quasi senza rendersene conto, attraverso un imbuto sempre più stretto che si incunea progressivamente nell’oscurità del loro rancore, Toni improvvisamente sceglie di fermarsi. Scende dalla propria macchina e aiuta Yasser a rimettere in funzione la sua. Una piccola scelta, apparentemente banale, ma che in qualche modo orienterà il futuro di entrambi.

Il film sembra dirci qualcosa: al timone delle piccole scelte di ogni giorno, ci siamo noi. Dunque possiamo scegliere se usare le nostre competenze da meccanico per manomettere la macchina dell’avversario, oppure per aiutarlo a restare in gioco. Toni sceglie, e si percepisce che in quel momento del film accade qualcosa di diverso, di importante. Quel gesto all’improvviso squarcia l’oscurità che progressivamente stava avvolgendo i personaggi e riporta la luce, permettendo a Toni, forse per la prima volta, di vedere Yasser per ciò che realmente è: un uomo, non un nemico.

Perché è questa la verità: per tutta la parte iniziale del film Toni guardando Yasser vede il persecutore della sua famiglia. E quando Yasser di notte va fuori dalla sua officina e lo provoca fino a farsi dare un pugno, gli sta facendo un importante regalo: la possibilità di chiudere i conti con il passato.

Infatti, a chi ha dato quel pugno Toni? A Yasser veramente? O al nemico che tanti anni prima ha perseguitato la sua famiglia? O ancora a quella parte di sé che oggi rappresenta quel nemico? Perché se ad un certo punto inizi a vedere nemici dappertutto, anche in chi stava solo cercando di aggiustarti un tubo, allora forse quel nemico non è lì sotto al tuo balcone, ma è dentro di te, indissolubilmente legato a ciò che sei diventato, tanto da determinare le tue scelte e azioni.

Se questo è vero, Toni sferrando un pugno a Yasser non colpisce solo un uomo o un palestinese, ma sferra finalmente un pugno al passato che lo perseguita. Un passato che lo ha maltrattato, umiliato, privato dei suoi affetti, cacciandolo dalla propria casa come un “cane”. È quel passato che lo ha insultato, e non gli ha mai chiesto scusa.

Yasser però, dopo aver incassato il pugno, non risponde nello stesso modo in cui il passato di Toni ha sempre risposto. Risponde in un modo nuovo: gli chiede scusa. Chi guarda il film, in questo frangente ha la netta percezione che un conto in sospeso sia stato finalmente regolato. Tra i due personaggi certo ma, ancora più importante, tra ciascun uomo e il proprio passato.

Questo è il paradosso della coazione a ripetere: facciamo di tutto per rivivere esattamente quel passato che ci ha umiliato, eppur tuttavia speriamo che la storia abbia un epilogo differente questa volta. In pratica torniamo al male nella speranza di poterne estrarre il bene. Raramente però le persone a cui abbiamo dato un pugno hanno voglia di invitarci a cena, o di chiederci scusa.

Eppure Yasser nel film lo fa: viene insultato e denunciato ma torna per restituirgli la possibilità di ricevere finalmente quelle scuse che Toni da tanto, e ormai irragionevolmente, pretendeva di diritto. Perché Yasser si comporta così? È tutto merito delle micro-scelte!

Torniamo un attimo alla scena precedente, alla macchina in panne ferma nel parcheggio, con Yasser fermo lì impotente e chino sopra il cofano, non sapendo dove mettere le mani. L’impotenza è qualcosa che da sempre fa parte della sua vita. Scappato dalla propria casa, rifugiato in un paese dove viene declassato ad un ruolo lavorativo inferiore a quello per cui si era formato e che gli spetta, impossibilitato a trovare un lavoro ufficiale e costretto a dipendere dai favori altrui. Lui la frustrazione e l’impotenza le conosce bene, perché per tutta la vita si è sentito dire “ti lascio a casa perché è troppo rischioso assumerti”.

Quindi, all’inizio del film, quando Yasser dà del “cane” a Toni, cosa vede veramente in lui? Un uomo o un nemico che continua a distruggere i tubi che lui costruisce con sudore e fatica? In verità Toni rappresenta per lui un paese che non riconosce il suo valore e la sua identità. Quindi, quando Toni torna indietro per aiutarlo a far ripartire la sua macchina, sembra che stia facendo un piccolo gesto apparentemente banale, ma ha l’effetto potente di far sentir Yasser visto, riconosciuto, accolto da quel paese da cui aspirava da sempre di essere accettato.

Così, alla fine, scopriamo che i personaggi non stavano combattendo l’uno contro l’altro, ma ciascuno lottava contro i proprie demoni e, dietro ai gesti e alle parole, in un luogo più intimo e profondo, stava avvenendo qualcosa di importante per entrambi: uno scambio simbolico, che ha consentito a ciascuno di chiudere i conti con la propria storia e ricominciare a vedere l’altro per ciò che è realmente e non più come il “nemico” del passato, il cui insulto ci ha procurato una ferita talmente traboccante di rancore da avere il potere di tenere in ostaggio il nostro presente e di tenere in un’incubatrice, in sospeso tra la vita e la morte, il nostro futuro.

Ora, cosa c’entra il film con me, te e tutti noi?
Lo “scambio simbolico” ci riguarda tutti perché nessuno può crescere da solo. Per crescere abbiamo bisogno di qualcuno che ci guidi in modo accogliente e progressivo verso le nostre mete.

Facciamo alcuni esempi. Prendiamo un uomo che ha commesso un reato e mettiamolo in una cella. Potrà crescere? Potrà evolvere stando lì alla sola presenza dei muri, delle sbarre e dei propri fantasmi? Facciamo un altro esempio. Prendiamo un bambino e mettiamolo in una stanza piena di giochi, potrà crescere se lasciato da solo? Per quanto quei giochi siano stati creati per potenziare le sue capacità, non serviranno a niente al nostro bambino se nessun adulto si siederà accanto a lui per fargli vedere come si usano quegli strumenti.

Tutti, a tutte le età, siamo quell’adulto e quel bambino.
Abbiamo il compito di riconoscere le spinte problematiche che si agitano dentro di noi e con cui abbiamo bisogno di imparare a comunicare, per diventare a nostra volta adulti e una guida per gli altri. Un po’ come fanno i detenuti quando portano l’elaborazione dei loro vissuti e delle loro esperienze nelle scuole, nell’ottica della prevenzione al bullismo.
Ma non dobbiamo neanche dimenticarci che tutti noi abbiamo dentro un’identità che ha costantemente bisogno di crescere, di nutrirsi, di arricchirsi, di affinare le proprie capacità, di trovare risposta alle nuove sfide, di accettare i nuovi ruoli che ci chiedono ogni giorno di essere diversi, senza però perdere la nostra essenza, di combattere contro i fantasmi del passato che a volte ci mettono i bastoni tra le ruote. Nessuno può fare tutto questo da solo. Nessuno può crescere da solo.

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PS: Ringrazio davvero per tutti gli spunti e i contributi di ieri. Adriano in particolare per il riassunto iniziale e Roberto perché, non solo non si tira mai indietro quando viene provocato, ma ha fatto davvero un discorso profondo senza perdere di vista i temi centrali che stiamo trattando.  Comunque Roberto, tutto il discorso sul doppio lavoro che stai facendo, devi scriverlo!! non può andare perduto…

Il Covid 19

Covid 19, che sgomento!
Un vero sfacelo,
l’unica nota positiva
è che c’è meno inquinamento
e che forse è più pulito il cielo

Quanta gente contagiata
tanta gente spaventata
tanta gente ci ha lasciato

Momenti difficili da superare
qualcuno solo in casa si è dovuto fermare
altri chiusi in convivenze forzate

Tante donne maltrattate
uomini impotenti davanti alle difficoltà
che pensano alla morte
per mantenere la loro dignità

Qualcuno, riuscendoci, si è dovuto reinventare
altri hanno smesso di credere e di amare

Io vivo in un’altra realtà, sono chiuso da un’eternità
altro che quarantena, sto scontando la mia pena
ma tra meno di due anni sarò fuori
e, se il vaccino non verrà trovato,
per non essere contagiato o contagiare,
i miei amici non potrò più riabbracciare

Che dolore, che sfacelo!
Mai una gioia, tanta noia
in carcere a morire di monotonia
e tutto trasformato in paranoia

Ma per uscire da questa agonia
basta avere fiducia e un po’ di fantasia

Se ti guardi attorno puoi osservare
che sono proprio tanti quelli
che non hanno mai smesso di aiutare

Medici e infermieri, guerrieri determinati
a rischiare la vita per il loro ammalati
e persino noi, nel nostro piccolo,
a portare frutta con la Squadra Anti-Degrado
a chi rischia di far sera senza aver mangiato

Ma se vogliamo andare avanti
è chiaro cosa c’è da fare
guardare in faccia la realtà
e camminarci dentro
ciascuno con la propria responsabilità

                                   Pino Amato e Angelo Aparo

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Sul Corona Virus in carcere

Buongiorno, sono Rosario Roberto Romeo e saluto tutto il gruppo. Lunedì scorso, durante l’incontro on line, una ragazza ha chiesto qualche testimonianza sulle conseguenze del corona virus all’ interno delle carceri per un eventuale progetto.

Sono stato scarcerato da  Bollate il venti aprile e quindi la mia testimonianza può essere utile perché vissuta in prima persona.

Fino a quando ero ristretto non ci sono stati casi di contagio tra i detenuti, circolava la voce che alcuni agenti della polizia penitenziaria fossero stati colpiti dal virus.

Per noi gli effetti sono stati la fine di tutte le varie attività, sia quelle lavorative presso l’aria industriale sia quelle sociali presso l’aria trattamentale. Quindi un senso di grande solitudine, la mancanza di incontri a partire dalla scuola, ai vari gruppi terapeutici e alle varie religioni, anche l’accesso alla biblioteca era sospeso.

Praticamente, tutto quello che fa la differenza tra Bollate e altri istituti è stato azzerato con grande rammarico di noi detenuti, presi dall’aumento della noia e della tristezza.

Per quanto riguarda gli effetti di questa pandemia, credo che per tutti i miei compagni la mancanza dei colloqui settimanali sia il peso maggiore da sopportare. Per me è stata la più grande sofferenza, ho due figli molto piccoli e non abbracciarli per quasi due mesi è stato molto triste. Poi, ognuno di noi aspetta i propri familiari, l’unico vero legame con la vita esterna; il cibo portato ogni settimana è una grande gratificazione, ti fa sentire meno solo e ti aiuta per altri sette giorni.

Certo ascoltavamo i telegiornali, sentivamo il crescente numero dei decessi ma non potevamo capire la gravità della situazione. Può sembrare un paradosso ma il carcere è diventato quasi un’isola felice contro questo terribile contagio. Poi sono uscito, ho visto la città deserta, tutte quelle mascherine e ho capito quanto era grave la situazione.

Sono tornato libero dopo tre anni di detenzione ma non potevo portare i bambini al parco giochi o mangiare un bel gelato, per fortuna c’è stata una apertura e la vita è migliorata.

Tanti saluti, Rosario Romeo

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Il Liceo Modigliani su F&C

  • Anna Bassignani 1

I lavori degli studenti di 5G del Liceo Amedeo Modigliani di Giussano sulla Bancarella di Frutta & Cultura sono il risultato del progetto condiviso di alternanza Scuola-Lavorola e della collaborazione avviata già da qualche anno fra il Liceo Modigliani e il Guuppo della Trasgressione.

Poiché è nostro piacere selezionarne alcuni per le nostre prossime presentazioni e per la prossima apertura della sede di Via Sant’Abbondio, ci è gradito che i visitatori del sito, se ne hanno piacere, esprimano le loro preferenze e i loro commenti.

I lavori della galleria sopra sono di:

  • Anna Bassignani 1, 2
  • Bergamo e Favaretto
  • Noemi Bergamo 1, 2, 3
  • Giulia Colombo 1, 2
  • Dario Corti 1, 2, 3
  • Nicole Corti
  • Monica D’Andrea
  • Cristian D’Aprile 1, 2, 3
  • Monia Darwish
  • Giorgia Favaretto 1, 2, 3
  • Alessandra Grillo 1, 2, 3
  • Giada Labbozzetta
  • Clara Maran 1, 2, 3
  • Gianluca Mondolo 1, 2
  • Lorenzo Oliveri 1, 2, 3
  • Giulia Padovani
  • Mario Provasi 1, 2
  • Chiara Reolfi 1, 2
  • Eleonora Seveso 1, 2
  • Martina Ventura 1, 2, 3

 

La pagina con i lavori del Liceo Modigliani

 

La sede di Via Sant’Abbondio

Al Gruppo della Trasgressione

Da un lato, sono contento perché dopo decenni di sudore, paradossalmente, in un periodo terribile per tutti, il nostro gruppo raccoglie frutti sui quali avevamo quasi perso le speranze:

    • il bando di Rozzano già vinto e per il quale cominceremo a lavorare probabilmente a settembre;
    • quello per cui Adriano e Roberto distribuiscono attualmente cibo a famiglie disagiate di Rozzano e Peschiera e riescono ad avere uno stipendio nonostante il Covid 19 abbia messo in ginocchio tante aziende;
    • adesso anche la sede di Sant’Abbondio (sono almeno 15 anni che cerchiamo una sede e finalmente ce l’abbiamo).

Dall’altro, quando raggiungo qualcosa, è per me impossibile rallegrarmi del risultato senza desiderare di condividerlo con le persone grazie alle quali la meta è stata raggiunta: le primissime con le quali il gruppo è nato e le centinaia di detenuti, studenti e docenti con cui abbiamo mosso i primi passi. Ma i risultati che stiamo raggiungendo adesso sono legati soprattutto alle persone che hanno dato energia al gruppo negli ultimi 6/8 anni.

A tutte queste persone, grazie. E grazie anche alle persone che nel frattempo sono morte. La settimana scorsa è morta Luciana Invernizzi e prima di lei tanti detenuti e non detenuti che sono nella storia del gruppo.

In questo momento ho l’impressione che il Gruppo della Trasgressione, nonostante il Covid 19, sia all’inizio di una nuova epoca:

  • abbiamo la sede di Via Sant’Abbondio;
  • siamo partner ufficiali del comune di Rozzano, del Galdus e del carcere di Opera nella lotta alla marginalità, nel recupero e nella valorizzazione di funzioni sociali senza le quali si annega in una cancerogena marginalità;
  • abbiamo il titolo ufficiale per entrare a San Vittore con la qualifica di testimonial di civiltà invece che di delinquenti;
  • abbiamo un’associazione che dal 2002, in collaborazione con decine di scuole di Milano e delle vicine provincie, utilizza le storie e l’acquisita consapevolezza dei detenuti del gruppo per lottare contro il bullismo e le varie dipendenze;
  • abbiamo persino una cooperativa col conto corrente in blu… come il nostro furgone e come la lettura del mondo di chi decide di darci una mano.

Nati 22 anni fa come gruppo di delinquenti che cercava di non marcire in carcere, siamo cresciuti fino ad avere oggi fra i nostri alleati anche magistrati e direttori di carcere e ad avere in un gruppo come quello del Rotary club Milano Duomo il nostro più antico e generoso sostenitore.

Se chi si è preso una vacanza o chi si è dedicato ad altro in questi anni volesse tornare per brindare ai risultati raggiunti o addirittura per collaborare nella costruzione dei prossimi che probabilmente otterremo, questa sarebbe proprio l’ora di farlo.

In ogni caso, grazie! So per certo che anche chi non tornerà mai più al Gruppo della Trasgressione ha contribuito a farlo crescere e so altrettanto bene che anche coloro che non vedrò mai più ne hanno tratto stimolo e nutrimento per procedere verso le proprie mete personali.

Grazie a tutte queste persone il gruppo procede da oltre due decenni fra gioco e realtà.

La Squadra Anti-Degrado

Proveremo con la squadra di adesso ad andare ancora avanti, pur se credo che non arriverò mai a capire se… zappiamo la terra per sognare le stelle o viceversa.

Angelo Aparo

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Joker

Joker è un film che ho amato. L’escalation delle azioni del protagonista, accompagnate dalla risata impossibile da fermare, danno realmente il senso del solco che progressivamente si crea quando si comincia a camminare in una direzione, fino a sentirsi obbligati, ogni giorno di più, a camminare solo dentro quel solco e in quella direzione.

La risata non si può fermare. Mamma l’ha chiesto: ha detto che ha una missione, portare allegria e gioia. La prima maschera che Joker indossa è questa. Non può esimersi dal farlo, anche se questo significa non avere un contatto con le proprie emozioni, disconoscerle a tal punto da non poterle neanche contattare.

Una maschera, una gabbia. Un luogo in cui rimanere chiusi: da iniziale protezione a prigione invalicabile.

La seconda maschera è quella che vediamo dipinta, la seconda maschera è Joker. Talmente connaturata con chi la indossa da non vederne più un confine. Quella maschera diventa la sua identità. Quella maschera è il suo volto, non esiste altro oltre essa. Tutto ciò che può emergere, nascere, affiorare viene filtrato da quella maschera, l’unica certezza della sua esistenza. Al di fuori di essa lui è vulnerabile. Senza essa è stato picchiato e maltrattato. Perché dovrebbe lasciarla?

Lasciarla significherebbe tornare vulnerabile,  significherebbe soffrire per i rifiuti subiti. Con la maschera i rifiuti sono cercati. Con la maschera crea quella distanza che gli serve per mantenersi vivo. La maschera È la sua identità. Lui È Joker.

La scena più bella del film dura una decina di secondi e spiega il disagio meglio di mille pagine di psicologia. È la scena in cui assiste allo spettacolo comico: lui ride quando gli altri non ridono e non ride quando gli altri ridono. Avvertire di non essere MAI in sintonia col mondo, di non avere affinità, di essere “fuori”, un outsider. Questo è ciò che accade quando ci si avverte incompresi, quando ci si percepisce diversi. Questo è il primo passo verso quelle maschere che rischiamo di identificare con noi stessi. Maschere rigide, con regole precise al di là delle quali non si può andare, al di là delle quali c’è la disintegrazione del sé.

Tempi di crisi e di rilanci

In questo periodo di crisi dell’Italia e del mondo, il Gruppo della Trasgressione sta vivendo un momento di positiva e gratificante affermazione. Grazie alla sua lunga storia e alla prontezza e determinazione con cui alcuni di noi hanno saputo valorizzare le nostre risorse nel momento utile, siamo partiti a Peschiera e a Rozzano e, fra pochi mesi, ci immergeremo nell’importante progetto che, grazie alla Regione Lombardia, porteremo avanti con l’istituto scolastico Galdus nel comune di Rozzano.

Noi tutti soffriamo del cataclisma del Covid 19, ma in questo momento di crisi ognuno di noi ha la possibilità di battere il ferro caldo rintracciando occasioni e opportunità  grazie alle quali mettere a frutto le nostre risorse e alcuni dei nostri tratti distintivi (la “trasgressiva” collaborazione fra detenuti, vittime di reato, studenti, comuni cittadini, figure istituzionali).

Perché impegnarsi in tal senso? A voi il piacere di scoprirlo, di coltivarlo e, se vi fa piacere, di raccontarlo… senza dimenticare che i traguardi raggiunti e i progetti che potremo ancora realizzare sono il risultato dell’alleanza temporanea o duratura con centinaia di persone che sul gruppo hanno investito da quando è nato.

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