Era il 18 marzo del 1904, 120 anni fa tra qualche giorno, quando alla Camera dei deputati Filippo Turati pronunciava il suo discorso: ‘Il cimitero dei vivi’.
Il cimitero erano le carceri, i sepolti vivi, i detenuti. Sono passati molti anni e sono cambiate molte cose, ma la cortina di fumo non è ancora del tutto stata dissipata.
Quando mi chiedono: ‘che vai a fare in carcere?’ uso, di solito, rispondere con domande a mia volta. ‘Sai cosa succede in un carcere? Come vive un detenuto? Qual è la sua esperienza, il suo pensiero, le sue opinioni? Ma un carcere l’hai, in fondo, mai visto?’ a cui spesso non ricevo risposta.
L’indifferenza che aleggia intorno alla vita carceraria, soprattutto post condanna e pre-scarcerazione, è ancora fortemente palpabile.
Per abbatterla è necessario che l’interesse da fuori verso dentro, oltre che quello scontato da dentro verso fuori, cresca ed iniziative come questa sono fondamentali a questo proposito.
Da un punto di vista più tecnico, la risposta a cosa ci vengo a fare in carcere, è invece la seguente: ragionare sui temi, su lati, spigoli e vertici del crimine proposti dal capolavoro di Dostoevskij insieme a gran parte del sistema molecolare del crimine. Il sistema molecolare del crimine è uno schema che propone una visione grafica del crimine, con al centro appunto il crimine ed intorno ad esso, in orbite separate, gli atomi del reo, della vittima e delle agenzie di controllo sociale.
Ed è esattamente quello che abbiamo fatto qui, ragionando intorno ai concetti del credito (non nella sua accezione giuridica) e del controverso e sorprendete diritto al rancore, pensando alle diverse concezioni di movente e riflettendo sulla portata degli errori giudiziari. Con le vittime e gli autori di reato.
La questione diventa più spinosa e complessa, probabilmente, nell’interrogarmi su cosa farne dell’esperienza vissuta in questo progetto, delle conoscenze acquisite, dei concetti scoperti.
Nel parlare del credito, che abbiamo inteso come la condizione di un individuo che non ha ricevuto qualcosa che invece gli spettava come l’affetto di un genitore, il sostegno, un’infanzia normale, la presenza delle istituzione, la tragedia di un caro strappato via con la violenza; abbiamo riconosciuto che talvolta, in certe condizioni, nell’agire criminale una parte è giocata dalla corresponsabilità sociale. Tutta la società ha parte della responsabilità della genesi del crimine.
La domanda di un detenuto mi lascia riflettere, chiede:’ Noi abbiamo detto che c’è anche responsabilità sociale nel crimine, ma nel processo poi la responsabilità è solo la nostra.’ Certo, la responsabilità penale è personale. Responsabilità per il fatto commesso dal reo.
Ma l’impressione di star vivendo un paradosso, rimane. È paradossale la situazione di un diritto penale simbolico, che considera fatti, più che fatti commessi da persone, ma che poi ovviamente — come con sofferta ironia amava sottolineare a lezione il mio professore di diritto penale — infligge le pene alle persone e non alle loro condotte.
Ma se è vero che la corresponsabilità sociale esiste ed influenza le scelte ed i comportamenti di determinati soggetti, in che misura la possiamo effettivamente ritenere responsabile? Per capire come tenerne conto dovremmo riuscire in qualche modo a misurarne il livello, la quantità, la percentuale di influenza. Ma è possibile misurare una cosa del genere?
In che modo potremmo riuscire a dire che essa è stata determinante nella determinazione a delinquere in modo certo e condannarla oltre ogni ragionevole dubbio?
Mi viene in mente il paradosso del mucchio. Dato un mucchio di sabbia, se eliminiamo un granello dal mucchio avremo ancora un mucchio. Eliminiamo poi un altro granello: è ancora un mucchio. Eliminiamo ancora un granello, e poi ancora uno: il mucchio diventerà sempre più piccolo, finché rimarrà un solo granello di sabbia. Possiamo dire in quale momento quel mucchio iniziale non è più un mucchio? Per gli antichi il paradosso stava nel mettere sullo stesso piano due concetti diversi, di tipo qualitativo da un lato, il mucchio, e di tipo quantitativo dall’altro, numerico, il singolo granello.
Possiamo dire che la corresponsabilità sociale esiste ed è partecipe nel crimine, ma non possiamo dire in che misura essa diventi determinante, non possiamo dire quando diventi un mucchio. Ecco un altro paradosso. Il sistema penale sembra esserne pieno. L’unico modo per escludere con certezza la presenza del mucchio è ridurlo alla singola unità, così come l’unico modo per escludere l‘incidenza della corresponsabilità sociale sembra essere combatterla incessantemente, fino ad eliminarla.
Del resto anche la nostra Costituzione impegna la Repubblica a ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana[…]’ ed è nostro dovere civico impegnarci nello stesso senso.
Ed è qui che forse ho trovato la risposta ai miei interrogativi. Le consapevolezze acquisite in questo progetto devono essere liberate. Devono respirare e vivere. L’impegno è portare queste consapevolezze nel mio percorso, farle conoscere, darle uno scopo prima e dopo il crimine, durante il processo, durante l’esecuzione della pena. L’obiettivo è quello di riscoprirci uniti nella stessa comunità di destino, riflettere se stessi negli altri ed insieme fondare, non più solo la conosciuta responsabilità verso il fatto commesso, ma la responsabilità verso l’altro.
Il fine è quello di comporre una nuova modalità di risoluzione dei conflitti
Se mi chiedi cosa sono venuto a fare in carcere, la risposta è che sono venuto a risolvere il paradosso del mucchio.
Vincenzo Caragnano