Ricordi di un’età

Ricordi di un’età
Tonino Scala

Sognerò di me
di quel passato che non c’è
e di quel tempo che verrà
che non sarà mai più com’era

Sognerò di te
di tutto quello che c’è stato
di tutto ciò che era sbagliato
e di quel “giusto”
che abbiamo buttato via.

Sognerò e so già
che non vorrò svegliarmi più
e non smetterò di cercarti
per parlarti e raccontarti
che son qui,
che non sono andato via
e non mi son lasciato andare
e non ho cercato niente
sono qui ad aspettare
che qualcosa cambierà
ma so già come sarà
come il vento dell’estate
che si porta via con sé …
i ricordi di una età

Sognerò una strada
che non ho tracciato mai
ma anche al buio la troverei
e una casa che non ho abitato mai

 

Parlerò a un amico
che non ho conosciuto mai
ma che sa tutto di me
e che mi perdonerà
tutte le volte che …

Sognerò e so già
che quando mi risveglierò
avrò poco tempo per spiegarti
che c’è stato un tempo per parlarti
e un tempo per ascoltarti
ma … ma è mancato quello
per capirci e sopportarci
e adesso non ci resta
che guardare avanti …
ma so già come sarà
come il vento dell’estate
che si porta via con sé …
i ricordi di una età

per parlarti e raccontarti
che son qui,
che non sono andato via
e non mi son lasciato andare
e non ho cercato niente

sono qui ad aspettare
che qualcosa cambierà
ma so già come sarà
come il vento dell’estate
che si porta via con sé …
i ricordi di una età

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Dentro ognuno di noi

Dentro ognuno di noi
Tonino Scala

Dentro ognuno di noi
c’è nascosta un’idea
servirebbe a cambiare una vita
inventarla a misura
ne varrebbe la pena
di provare a partire
si potrebbe tornare bambini
a cercare il domani

Dentro ognuno di noi
c’è nascosto qualcosa
e vorresti tenerla ed usarla
con molta pazienza
non la trovi nel banco dei pegni
nelle notti agitate
è la cosa più rara che hai
per non perderti mai

Ed io posso scoprire dov’è
nascosta dietro il mio cuore
che posso aprire e far crescere
fino a poterla sognare
proprio dentro di noi
c’è un bimbo
che ci difende e ci fa ripartire

La nicchia, la crosta e il rosmarino

tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea

Adesso immagina qui
una grande poesia
dove tutto è nascosto e proibito
dove niente è sicuro
a volte è sincera
ed inventa l’amore
nasconde i nostri cuori
dagli ostacoli

Ed io posso scoprire dov’è
nascosta dietro il mio cuore
che posso aprire e far crescere
fino a poterla sognare
proprio dentro di noi
c’è un bimbo
che ci difende e ci fa ripartire
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea
tenendo in piedi la vita
tenendo in piedi un’idea

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L’abuso e i suoi protagonisti

 

Pubblicato da Angelo Aparo su Domenica 15 ottobre 2017

 

Le domande di questi sabati alla bancarella di Frutta & Cultura in Piazza Sant’Agostino sono: Cosa prova chi commette un abuso ai danni di qualcuno e cosa prova la vittima? Come si evolve nel tempo ciò che sentono i due protagonisti dell’evento? Cosa ne favorisce l’evoluzione?

Ovviamente esistono molte risposte e tutte parziali, ma se espresse in modo curioso e collaborativo, tutte utili alla evoluzione di entrambi i personaggi. Gli interventi sul forum sono aperti…

In questa fase, preferiamo non parlare dell’abuso contro se stessi (alcol, droga, gioco d’azzardo) e dell’abuso sessuale. Chi avesse piacere di farlo può comunque segnalare sulle aree espressamente dedicate le proprie osservazioni.

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Il sapore delle ciliegie acerbe

Il sapore delle ciliegie acerbe
Carmelo Impusino

Quando ero bambino, vicino a casa mia, a un centinaio di metri dall’ortomercato, c’era un distributore di benzina all’interno di un’autorimessa con due entrate su due vie ad angolo. Per me e per alcuni miei amici era un punto di riferimento e un appuntamento quasi settimanale. Quello che ci attraeva di quel posto erano due alberi, un ciliegio e uno di fichi verdi, a ridosso del muro della rimessa, staccati alcuni metri l’uno dall’altro.

Durante la settimana non potevamo avvicinarci per via del benzinaio che lavorava a pieno regime, specie con i camion di transito per l’ortomercato; lui ci impediva di salire sugli alberi, non tanto perché non voleva che ne prendessimo i frutti, che alla fine nessuno coglieva, ma più che altro perché aveva timore che potessimo farci male cadendo giù. Ma la domenica le pompe di benzina erano chiuse e gli alberi erano incustoditi, tutti per noi. Sembrava fossero loro stessi a invitarci a coglierne i frutti, che altrimenti sarebbero andati persi a terra. E così, dopo pranzo, armati di sacchetti, dal basso dei nostri sguardi di bambini, ci ritrovavamo lì a scrutarli ancor prima di arrampicarci, alla ricerca dei punti più invitanti. Ricordo ancora come lo sguardo e il pensiero però andavano anche a tutti quei frutti sprecati che nessuno aveva potuto o voluto cogliere e che ormai giacevano a terra in via di decomposizione. E questo mi faceva arrabbiare.

Gli alberi erano alti entrambi una decina di metri e per noi diventava un vero piacere scalarli ramo dopo ramo fino ad arrivare nei punti alti e ai frutti più maturi. Quelli acerbi provavamo a lasciarli maturare rispettosamente…  a dire il vero, non sempre! A volte, presi dalla golosità o da chissà cosa, mangiavamo anche quelli. Non sapevamo aspettare… da un albero all’altro coglievamo fichi e ciliegie, e nonostante l’intesa di mangiarli a fine raccolta, spesso non riuscivamo a resistere alla tentazione di mangiarli ancora seduti sui rami.

Il nostro luogo per la pausa era il tetto della rimessa stessa, lungo e largo una cinquantina di metri, in catrame e metallo. Alto un po’ meno degli alberi, ci permetteva di mangiarne i frutti seduti comodamente, ma anche di correrci sopra, guardare le strade dall’alto e sentirci in contatto con una dimensione tutta nostra. Dopo qualche ora tornavamo a casa sporchi, stanchi e appagati. Mia madre, nonostante le macchie sui miei panni e il lavoro per lavarli, mi sorrideva… un po’ per quei frutti che avevo portato, un po’ perché quei frutti le davano la certezza che quel giorno non avevo fatto danni o creato problemi.

Oggi, pensando a quei giorni e a quegli alberi che abbracciavo e scalavo, che mi divertivano, sporcavano e nutrivano, non posso non pensare a loro come agli amici, genuini, silenziosi e accondiscendenti che hanno fatto parte della mia infanzia. Non avrei immaginato di poterli pensare un giorno con questa visione amichevole, ma la realtà è che, solo ora che li ho ritrovati nei miei ricordi, ne riconosco il loro valore. Mi auguro che ci siano ancora e che possano aver dato e diano tuttora anche ad altri le stesse emozioni che hanno dato a me. Anche quei frutti che giacevano a terra sono oggi per me spunti di riflessione; forse avrei voluto anch’io essere un buon frutto a beneficio di qualcuno, mentre invece un po’ mi accosto a quei frutti sprecati che giacevano a terra.

Nel profondo del mio cuore avrei voglia di scalarli e sporcarmi ancora con loro, abbracciandoli e salutandoli come accade con gli amici che non si incontrano da tanti anni. E proprio come si trattasse di vecchi amici, mi piacerebbe ringraziarli per avermi nutrito un po’ il cuore, per quei genuini sorrisi che assieme abbiamo regalato a mia madre, per quell’indimenticabile sapore delle ciliegie acerbe, pieno di significato, che nessun fruttivendolo potrà mai darmi.

Grazie alla Croce Rossa Italiana

Tre mesi fa il Rotary Club Milano Duomo mi ha invitato a scrivere una relazione sull’andamento del corso per “Operatore sociale generico” tenuto dalla Croce Rossa Italiana a beneficio di una ventina di volontari della Croce Rossa e di 8 detenuti, tutti selezionati (per scelta ragionata e strettamente connessa a come l’iniziativa è nata e si è sviluppata) fra i componenti del Gruppo della Trasgressione.

Avevo trovato l’invito, rivolto tanto a me quanto alla presidenza della Croce Rossa, del tutto naturale, visto che il Rotary Club Milano-Duomo e il Gruppo della Trasgressione erano stati gli ideatori dell’iniziativa e visto che il Rotary Club Milano-Duomo aveva versato alla Croce Rossa e all’associazione Trasgressione.net un contributo economico per le spese.

A seguito di un paio di riunioni nella sede milanese di Via Tucci della Croce Rossa fra il dott. Luigi Maraghini e la dott.ssa Raffaella Menini (presidente e vicepresidente della Croce Rossa Italiana), la dott.ssa Paola Granelli e la dott.ssa Antonietta Ferrigno (responsabili dell’iniziativa per il Rotary Club Milano Duomo) e il sottoscritto (coordinatore del Gruppo della Trasgressione), era stato infatti deciso che il corso, aperto in passato solo a volontari della Croce Rossa, quest’anno avrebbe accolto fra i suoi allievi alcuni detenuti del Gruppo della Trasgressione che negli anni precedenti avevano già ottenuto l’attestato relativo al corso di “Primo soccorso”, tenuto dal dott. Vittorio Fioravanti (a sua volta socio del Rotary, nonché volontario della Croce Rossa Italiana).

Conclusa la mia relazione sul corso, mi sono stupito quando, leggendo quella della Croce Rossa, non ho trovato alcun riferimento al Gruppo della Trasgressione né a come si era giunti al corso di quest’anno. Francamente dispiaciuto per l’omissione, mi sono chiesto a cosa potesse essere dovuta. Più in generale, mi sono chiesto come sia possibile che il mondo, a conti fatti, sia sempre più evoluto, nonostante si possa constatare ovunque una certa “disattenzione” nei confronti di chi contribuisce alla sua evoluzione.

L’omissione, a maggior ragione se vista dalla parte di chi ha avuto l’idea e si è speso, in esplicito accordo con gli altri partner, per accudirla nei suoi primi due anni di vita, lascia la bocca amara! Interrogarsi con i detenuti del Gruppo della Trasgressione sul valore della gratitudine per favorire l’emancipazione del condannato e assistere alle omissioni dei vertici che vigilano sul benessere dei liberi cittadini causa un certo turbamento.

Ma è così! A conti fatti, sembra che le idee di valore, una volta partite, acquistino una vita quasi autonoma. L’iniziativa che ha portato alla collaborazione fra il PRAP e la Croce Rossa è evidentemente buona, visto che da qui in avanti essa si rinnoverà a prescindere da chi l’ha concepita: i ponti ben progettati permettono agli uomini di incontrarsi e migliorare la realtà al di là di chi li ha progettati. In fondo, non è successo nulla di diverso da quello che accade di norma: gli uomini muoiono, ma le loro invenzioni, se sono valide, si servono dell’energia di altri uomini per proseguire la loro strada e migliorarsi.

Il concetto va perfettamente d’accordo con quel che Darwin insegna a proposito della evoluzione della specie e, simpaticamente, concorda con la constatazione che un bambino di pochi mesi ha il potere di motivare gli adulti che incontra ad accudirlo a prescindere da chi lo ha messo al mondo.

Se da un lato rimane l’amarezza del mancato riconoscimento, dall’altro sono grato a chi mi ha dato modo di seminare qualcosa che è anche mio e che, grazie alle istituzioni che sopravvivono agli uomini, andrà oltre il mio nome e quello del Gruppo della Trasgressione.

 


 

La mia relazione per il Rotary sul corso per “Operatore sociale generico”

Sul Corso della Croce Rossa

Milano, 8 giugno 2017

Al “Corso per operatore sociale generico” si giunge in base all’intesa formalizzata nel 2015 fra la Croce Rossa Italiana, il Rotary club Milano Duomo, il PRAP “Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria” e il “Gruppo della Trasgressione”. Nel 2015 e 2016 circa 36 componenti del “Gruppo Trsg” avevano frequentato il corso di primo soccorso e ottenuto il relativo attestato; in entrambe le occasioni tutte le lezioni si erano svolte in presenza degli agenti della scorta di polizia penitenziaria e, anche per questo, il corso era stato destinato solo ai componenti del gruppo (studenti universitari e detenuti delle carceri di Opera e di Bollate).

Considerati gli ottimi risultati delle due occasioni precedenti, si è deciso questa volta di aprire il “corso per operatore sociale generico”, destinato tradizionalmente a volontari della Croce Rossa, anche ad alcuni dei detenuti provenienti dalle esperienze di cui sopra. Tutte le lezioni si sono svolte in un’aula dove non si distingueva fra comuni volontari e detenuti e, cosa non trascurabile, anche i risultati dell’esame finale non hanno evidenziato differenze di rilievo fra gli uni e gli altri. Fra tutti gli allievi è cresciuta infatti una eccellente sintonia e sembra che la presenza dei detenuti abbia contribuito a dare vivacità al corso e utili stimoli agli altri studenti.

Degli otto detenuti che avevano iniziato il corso ne sono arrivati in fondo sei, gli stessi che nei mesi successivi hanno anche partecipato all’attività di tirocinio con eccellenti risultati, pur se le necessarie procedure istituzionali hanno richiesto tempi per cui tre dei tirocinanti non hanno ancora completato tutte le ore previste.

Gli obiettivi del corso sono stati ampiamente raggiunti! Fra questi, il principale era accostare l’immagine della Croce Rossa Italiana a quello dell’istituzione penitenzia per rendere più facile per i detenuti del corso (e, in prospettiva, per i detenuti in genere) rinnovare la propria immagine dell’autorità, cioè passare dall’immagine di un’autorità che proibisce e punisce a quella di un’autorità che insegna; passare gradualmente dall’immagine di autorità che marca confini e distanze a quella che accorre dove c’è bisogno. Ovviamente si tratta di un percorso lungo decenni ma è significativo che proprio dai detenuti che hanno frequentato il corso siano state formulate sintesi come “Le sirene di Ulisse per perdersi, quelle della Croce Rossa per ritrovarsi”.

In conseguenza dell’ora tarda in cui di solito veniva concluso il giro di servizio effettuato insieme da detenuti e comuni volontari della Croce Rossa, mi sono trovato più volte, oltre la mezzanotte, ad accompagnare i detenuti in carcere, a raccogliere le impressioni a caldo sulle esperienze della sera e a sentirmi dire frasi come ”In una giungla di incertezze chiamata civiltà, la Croce Rossa Italiana è un bene che si nutre di umiltà, un bene prezioso per la collettività”.

Tutte le riunioni di programmazione si sono svolte nella sede di via Tucci in presenza della vicepresidente della C. R. I., della dott.ssa Paola Granelli, della dott.ssa Antonietta Ferrigno e del sottoscritto.

Associazione Trasgressione.net
Angelo Aparo

Cella parlante

Cella parlante
Gabriele Tricomi

In ogni tempo, quando di tempo pareva non ne avessi, mi rinchiudevano nel mio spazio. Mio l’avevo fatto, insieme ai miei pensieri.

Il bagno mi aspettava per liberarlo da ogni sgradevole odore. il letto mi voleva solo poche ore, la notte, poiché il mio peso infastidiva il suo riposare. Quel pezzo di ferro m’addrizzava la schiena; se provavo a spostarlo qualcuno da sotto mi bussava: non volevano sentire il lamento acuto di quel ferro inumidito.

Eravamo io, il cesso e il letto, a comunicarci disappunto per la nostra solitudine. Di questo trio volevano far parte anche il lavandino e gli armadietti, il loro contributo non volevano fosse taciuto.

L’armadio più grande lamentava la pochezza di indumenti nel suo spazio, si sentiva sprecato; il più piccolo, poggiato su bombolette di gas vuote, non trovava giusto sopportare tutto quel peso di pasta, pelati e altre “ciberie”, appeso come un disabile su stampelle coperte di polvere e martoriate dai colpi di scopa che disturbavano il suo sonno.

Il lavandino soffriva, costretto in ogni stagione al freddo gelido dell’acqua. Tutti in disappunto comunicavano tra di loro e infine con me. Volevano che io trovassi soluzioni a quella solitudine e malinconica compagnia.

Cominciai così a farmeli amici, a rendermi utile a loro. Il letto non lo spostavo più, mi sdraiavo sotto di lui per pulirlo dall’umidità. L’armadio più grande lo riempivo di libri e di lettere, così da farlo sentire finalmente realizzato. Il più piccolo lo usavo per farci il forno, e il lavandino iniziò a conoscere l’acqua calda, resa tale dall’amico mio prediletto, il fornello.

Tutto pareva funzionare bene, nessuno più lamentava solitudine, gli spazi e le cose li usavo senza disturbare nessuno. Ma a volte la prepotenza di qualche “garante del nulla” voleva farci un dispetto, ci separava. A suo dire, quelle suppellettili a me care potevano diventare armi e strumenti per inganni. I miei amici finivano in magazzino, me li portavano via. Rimanevo nuovamente solo, io le mura e i cancelli.

Miei cari compagni di solitudine, branda, fornello, armadi e lavandino, e anche tu, mio fetente cesso, oggi che posso stare in mezzo a tanta gente e a tante cose belle, vorrei portarvi nei miei pensieri per raccontare chi sono stato ieri.

La gratitudine

La gratitudine
Carmelo Impusino

Ai tempi in cui andavo a scuola cambiai più volte classe per motivi di logistica e per le bocciature, finché non abbandonai definitivamente la scuola in seconda media. Alle elementari ci fu una mia maestra di sostegno della quale non ricordo il nome, ma che mi avvicinò alla lettura esclusivamente con i fumetti. Poi ce ne fu un’altra, Prof.ssa Barbera, che mi fece conoscere il fascino del cosmo, e proprio come faceva la maestra di sostegno, anche lei mi portava libri illustrati che riuscivano letteralmente a rapire la mia attenzione, e oggi come oggi i miei tatuaggi la dicono lunga su come l’universo mi abbia affascinato. Ma ci anche fu quello che ritengo essere stato il mio maestro più significativo per quel che mi ha lasciato interiormente in positivo.

Ero in prima elementare nella classe N quando incontrai quello che fu il mio primo maestro di scuola, il Professore Amerigo Mungo, nella scuola Tommaso Grossi, in via Monte Velino, nel quartiere sudest di Milano. Era un uomo sui settant’anni, alto, magro e calvo, con dei sani principi e metodi educativi d’epoche passate; raramente lo si vedeva sorridere, e quando si arrabbiava lo si capiva inequivocabilmente poiché alzava notevolmente la voce. Ero l’unico che riusciva a dargli grattacapi e soddisfazioni nello stesso tempo; credo di essere stato il classico alunno che nessun maestro vorrebbe mai nella propria classe, credetemi sulla parola. Ai tempi però più che un maestro da ascoltare per me rappresentava un ostacolo che non mi permetteva di fare quello che volevo a scuola. Non si possono contare tutte le volte che finivo la lezione fuori dalla classe, in corridoio, seduto sul calorifero a guardare dalla finestra, dove giocavo a indovinare il colore delle macchine che passavano nel viale sottostante. Ogni tanto quando facevo davvero troppo casino mi arrivava un sonoro ceffone piuttosto che finivo in direzione al cospetto del preside, un brav’uomo simpatico, che al posto di sgridarmi mi faceva scrivere a macchina. C’erano però dei giorni in cui il maestro era contento di me, erano quelli dove si faceva il laboratorio di creta e lezioni di scacchi, ma soprattutto erano le lezioni sui temi e riassunti su eventi e personaggi storici, tanto che una volta, scherzosamente, mi soprannominò il poeta maledetto, in quanto trovava i miei concetti al di sopra delle righe, e quindi meritevoli dì voti alti e soddisfazione.

Il maestro un giorno ci portò in classe sua figlia di circa 3 anni, che tutti sapevamo essere adottiva. Non ricordo il suo nome, ma ricordo ancora limpidamente quella piccola bambina con gli occhi azzurro intenso e i capelli neri a caschetto, silenziosa e sorridente, sembrava davvero una graziosa bambola. Ricordo bene anche la tenerezza con la quale il maestro la trattava, una tenerezza che a uno come me, nato e vissuto nelle periferie degradate di Milano, in una famiglia disagiata, fratello di sei figli con un padre sempre in carcere e una madre sempre al lavoro per mantenerci, è sempre mancata; e così da quel momento di quel maestro ebbi una visione diversa, più umana e meno formale, e quel giorno per quanto mi riguarda rappresentò davvero una delle lezioni più significative della mia vita sotto l’aspetto interiore, solo che ancora non lo capivo.

Giunto in terza elementare cambiai classe e maestri, ma con il maestro Mungo rimasi sempre in buoni rapporti a tal punto che quando a scuola mi vedeva mi chiedeva sempre come stavo e come andavo, specie con le partite a scacchi. Non essendo più il mio maestro, per me non rappresentava più quella figura che si frapponeva tra me e la baldoria che facevo in classe, quindi era diventata una persona amichevole che trattavo con stima e rispetto.

Gli anni passarono e arrivai alle scuole medie portando inconsciamente con me quel piccolo bagaglio di apprendimenti che col passare del tempo andava via via migliorando. Un bel giorno, durante le mie bigiate e le scorribande metropolitane verso il centro di Milano, seguendo il tragitto più veloce e scorrevole dal centro città al mio quartiere e viceversa, io e qualche amico aspettavamo il bus 84 alla fermata davanti a un portone di via Fratelli Campi, tra via Spartaco e viale Monte Nero, quando a un tratto vedemmo uscire dal portone il maestro Mungo, che ci vide e subito ci sorrise salutandoci e mettendosi a parlare con noi. Ad una finestra al terzo piano una donna chiamò il maestro per nome, quasi a volersi sincerare che non ci fosse qualche problema. Il maestro ci disse che quella era sua moglie e quella la finestra di casa sua, e così la salutammo facendo le presentazioni; subito dopo arrivò il bus e così dovemmo salutarli.

Gli anni passarono, e lasciai le scuole per continuare la carriera nell’illegalità cominciata ormai già da tempo, e che mi portò in carcere minorile qualche settimana dopo aver compiuto quattordici anni, ancor prima di abbandonare le scuole. Ogni tanto casualmente mi ritrovavo ad aspettare il bus sempre alla fermata dove abitava il maestro, e puntualmente buttavo lo sguardo al suo cognome sul citofono e alla sua finestra, che trovavo quasi sempre o tutta chiusa o tutta aperta ma con le tapparelle sempre tutte alzate, come a voler sfruttare appieno la luce solare; speravo sempre di incrociarlo e salutarlo, ma non ebbi occasione.

A sedici anni, a causa del forte attrito con mio padre andai in una sorta di comunità collegio dove quantomeno riuscii a prendere la licenza media alle 150 ore, e così per qualche tempo non ebbi più modo di passare sotto casa del maestro; in collegio ci rimasi fino alla maggiore età, poi tornai nel mio quartiere, dove grazie al mio sguazzare nell’illegalità, che continuò pure in collegio, ormai vivevo in piena autonomia. Parlando con qualcuno venni a conoscenza che il maestro Mungo era morto, questo mi rattristò ma non spense il pensiero verso lui, e così passando spesso in tram o in auto davanti al portone del maestro gettavo sempre uno sguardo alla sua finestra, e quando ero in scooter a volte mi fermavo apposta per vedere se ancora c’era il suo cognome sul citofono, che sì, trovai sempre lì. Il mio agire e il pensiero ormai si accontentavano della malinconica emozione che mi suscitava il ricordo che avevo di lui e di sua figlia.

Passarono altri anni e nel 1999 venni arrestato e condannato pesantemente. Nel 2005 mi ritrovai nel carcere di Fossombrone in una situazione punitiva, e il vivere in cella chiusa e singola, per istinto di sopravvivenza interiore, mi fece rispolverare quelle basi che il maestro mi aveva insegnato e così, oltre che a ritrovarmi a giocare spesso a scacchi con qualcuno nelle ore d’aria, mi ritrovai nelle restanti ore della giornata, chiuso in cella con una penna e un’agenda in mano. Dal basso della mia cultura e forte della mia presunzione, giocai a mettermi alla prova nella scrittura, scrivendo poesie, fiabe, racconti, canzoni e anche un romanzo. Per un paio di anni dovetti scrivere esclusivamente a penna, poi grazie ad una direttrice di vedute costruttive, che subito riuscirono a far scappare, potei acquistare un computer da tenere in cella, e con quello mi addentrai in una forma più approfondita della scrittura e la cultura. Partecipai a vari concorsi, a volte classificandomi e vincendo pure un premio in denaro, e venni anche inserito in alcune antologie. Il piacere della scrittura ormai era entrato nel mio metabolismo, e mi accompagnò anche quando tornai in Lombardia nel carcere di Bollate e, sebbene fossi preso da molte altre cose, non persi l’entusiasmo e la voglia di mettermi alla prova anche come redattore per le riviste del carcere, scrivendo articoli di vario genere.

Dopo un paio di anni di Bollate finalmente ottenni il lavoro esterno e i permessi premio, e fu così che in un modo o nell’altro ero nuovamente in giro per Milano dopo 13 anni circa dal mio arresto. Presto mi trovai a ripassare casualmente anche davanti al portone del maestro. Ormai avevo più di quarant’anni ma era come se fossi rimasto quel ragazzino di allora, curioso, attratto da quel portone, quella finestra al terzo piano, e quell’immagine nostalgica del maestro che puntualmente mi balenava ogni volta che passavo di là; e così mi fermai nuovamente per vedere se era cambiato qualcosa, e scoprii che il cognome sul citofono era ancora lì, fermo nel tempo, proprio come quella finestra a volte aperta e a volte chiusa, proprio come il mio pensiero e il mio rituale.

Passarono ancora un paio di anni circa e venni scarcerato in affidamento sul territorio. Transitando in scooter davanti a quel portone avevo scoperto un buon panettiere, e se avevo un po’ di fame ero solito fermarmi per mangiare un pezzo di pizza, parcheggiando lo scooter proprio accanto al citofono del maestro. Ora che il maestro non c’era più pensavo a sua moglie, che sicuramente era anche lei deceduta vista l’avanzata età, ma soprattutto pensavo a sua figlia, calcolando l’età di quest’ultima, ricordando ancora limpidamente la sua immagine da bambina, cercando di immaginarmela ora e fantasticando di incontrarla per salutarla e scambiare qualche parola in ricordo di quei tempi che tanto mi erano rimasti nel cuore e nella mente.

Un giorno di metà primavera del 2014 mi ritrovai puntualmente ancora davanti a quel portone a mangiare pizza guardando citofono e finestra, manco fosse un appuntamento dovuto, quando ad un tratto vidi avvicinarsi al citofono una donna con i capelli lunghi neri che subito suonò il citofono del maestro. La cosa mi colse di sorpresa, e tra masticazione e stupore rimasi di sasso. I secondi passavano, mentre la donna, con il volto girato verso il lato opposto al mio, aspettava che qualcuno rispondesse al citofono. Dopo una decina di secondi qualcuno rispose e la donna disse un semplice: sono io! Questo bastò per aprire il portone. Allo scattare della serratura del portone finalmente la donna nell’azione dell’aprirlo si voltò verso di me mostrandomi il volto; i suoi occhi erano di un azzurro intenso, proprio come quelli della figlia del maestro, e in cuor mio non ebbi alcun dubbio sul fatto che fosse lei.

Avrei voluto fermarla per sincerarmene, salutarla e raccontargli chi ero, e di quanto quell’immagine di suo padre con lei a scuola mi fosse rimasta in mente come immagine simbolo di qualcosa di buono, bello e genuino nei valori della mia vita. Ma soprattutto avrei voluto parlarle di suo padre, della forza e dell’importanza di quello che mi aveva insegnato in quei due anni di scuola elementare, e di quanto quelle basi del gioco degli scacchi e della scrittura che mi aveva insegnato mi avessero aiutato a vivere serenamente e al meglio i lunghi anni di detenzione, ma non ebbi il coraggio o la prontezza di farlo, e lei entrò dentro al portone che si richiuse velocemente alle sue spalle, lasciandomi pensieroso ma felice di aver dato delle risposte quantomeno ipotetiche ma soddisfacenti alle mille volte che fra me e me mi ero chiesto di loro.

Nel tempo mi rimase il rimorso di non averla fermata, chissà, forse un giorno avrò un’altra occasione, poiché è certo che in futuro mi fermerò ancora a quel portone che per me ormai rappresenta un esemplare e indelebile punto di riferimento emozionale che mi accompagnerà per tutta la mia esistenza, e nonostante tutti i miei errori nella vita, per quel che mi ha trasmesso mi sento di dovergli della gratitudine a quel mio maestro scolastico e di vita.

Purtroppo, dagli altri anni di scuola elementare e media, a parte la ginnastica, non ho saputo trarre vantaggio, e non mi sono rimasti ricordi significativi tali da reputarli importanti o validi anche solo per il mio lato emozionale. Oggi come oggi invece gli scacchi, la creta e la scrittura per me sono diventati veri e propri hobby che cerco di praticare quando trovo la possibilità di farlo, e il fatto che io stia concorrendo con questo scritto credo confermi la mia affermazione … grazie maestro Mungo.

La freccetta

Quell’ultimo sabato di agosto, Sara e Manuela avevano cercato la freccetta dai primi riflessi del tramonto fin quando non c’era stata più abbastanza luce. Si erano conosciute appena tre giorni prima in Toscana, in casa del nonno di Sara, dove Manuela e io, vecchio amico di Franco, avevamo deciso di fermarci qualche giorno prima del rientro a Milano.

Nella serenità di quei tre giorni, fra un salto a Vicopisano e qualche passeggiata fra gli ulivi ai quali Franco si dedica, quel sabato pomeriggio avevamo deciso di guadagnarci la cena giocando a freccette. Manuela si era unita alla sfida e tutti e tre avevamo trascorso l’ultima ora segnando con grande serietà i rispettivi punteggi.

Spesso le freccette andavano distanti dal bersaglio, ma si lasciavano sempre rintracciare sull’erba attorno. Quell’ultima freccia no! Aveva sfiorato la tavola sulla quale era appeso il bersaglio e, trasgressivamente, mentre le alette della freccia erano cadute proprio  ai piedi del nostro obiettivo, la sua punta era andata velleitariamente oltre, non si sa dove.

Le vane ricerche si erano concluse con una promessa di Sara: “Manuela, cercherò la freccetta per tutta la vita, fin quando non la troverò”.

Rientrati a Milano, Manuela e io ci eravamo dimenticati della freccetta; Sara no! E mercoledì mattina arriva la conferma della sua determinazione.

Forse nulla di strano, ma a colpirmi sono soprattutto gli occhi di Sara. A me la sua espressione richiama la felicità di chi mostra la medaglia d’oro sul podio alle Olimpiadi, ma forse per Sara la freccetta è ancora di più di un primo posto e di una medaglia.

Vorrei tanto capire cosa prova questa piccola atleta della ricerca per riuscire a comunicarlo a chi tutti i giorni smette di cercare, affidando all’eccitazione della droga e del potere il ruolo di condurlo dove, nella effimera, delirante grandiosità del momento, si conclude ogni ricerca.

Forse queste persone potrebbero poi andare da Sara e chiederle perché non ha smesso di cercare la punta della freccia che si era spinta così in là. Chissà, forse aveva solo desiderio di far contenta Manuela o forse voleva rimetterla con le altre per veder giocare ancora insieme il nonno Franco e gli altri adulti con tutte le freccette.

Ciao Sara, grazie.

Juri

 

All’ombra dell’ultimo sole

Fra il pescatore e un assassino
Le domande di un’umanità che non muore

MARTEDI’ 8 AGOSTO 2017

PARCO ARCHEOLOGICO DI CAUCANA

con le canzoni di

Fabrizio De André e Luigi Tenco.


Good morning, Italia

in memoria di 25 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio

 

Mi è mancato, da piccolo, un terreno profondo dove poter sotterrare una mia personale capsula del tempo.

Provo a farlo ora, in via digitale, lasciando qui – in custodia e a futura memoria – tre immagini circa quanto abbiamo iniziato a discutere ieri in corso Italia (civico 31 e, a seguire, 52):

  1. un razzo pronto per Marte
  2. del cibo per la mente
  3. il vero significato della “collaborazione”

 

Ma sarà davvero possibile una antimafia con i mafiosi?

Chi vivrà, vedrà…..