Il primo giovedì di febbraio 2024, tra le 14:30 e le 17:30, fra le mura della Casa di reclusione di Bollate, durante il primo incontro del progetto “Essere oggi Ivan, Aleksej, Dmitrij e Smerdjakov. I conflitti della famiglia Karamazov al carcere di Bollate”, sotto lo sguardo artistico di Andrea Spinelli (primo illustratore giudiziario italiano), muovendo dalla descrizione di Dmitrij Fёdorovic e del suo rapporto col padre, alcuni detenuti, Marisa Fiorani e Paolo Setti Carraro (famigliari di vittime inno- centi della criminalità organizzata, rispettivamente, madre di Marcella di Levrano e fratello di Emanuela Setti Carraro), una sessantina di miei colleghi studenti universitari, altri membri della società civile ed io, guidati da Angelo Aparo (psicoterapeuta, fondatore del Gruppo della Trasgressione) e Francesco Cajani (Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano), abbiamo dato vita ad una discussione sul “sentirsi in credito”.
Le ore trascorse all’interno dell’istituto penitenziario sono state “animate” prevalentemente dalle narrazioni dei detenuti Fabio, Salvatore, Giuseppe e Stefano, che hanno condiviso col resto del gruppo verso chi e per quale motivo si sono “sentiti in credito” nel corso delle loro vite.
Il primo a prendere la parola è stato Fabio, che ha affermato di “essersi sentito in credito” verso la sua famiglia, in particolare verso il padre. Infatti, a partire da quando aveva all’incirca quattro anni, Fabio iniziò a sentirsi «accantonato» dai suoi genitori, poiché questi, dopo aver scoperto che il loro secondo figlio era affetto da Talassemia, iniziarono a riservare sempre meno attenzioni nei confronti di Fabio; dunque, questi iniziò a ricercare altrove qualcuno che fosse in grado di dargli il riconoscimento che pretendeva. Quel qualcuno Fabio lo ritrovò nel suo gruppo di amici, che, purtroppo, era formato da persone poco raccomandabili. Questo, unito al fatto che era «casinista dalla nascita», che voleva «fare un dispetto» al padre e desiderava affermarsi nell’ambito della sua nuova “famiglia”, composta da «idoli, perché rispettati e potenti», portò Fabio a commettere i primi crimini.
Successivamente è stato il turno di Salvatore, che, in breve, ha detto di aver iniziato a “sentirsi in credito” verso il padre dopo che quest’ultimo aveva deciso di abbandonare la famiglia, nonché di aver inflitto alle sue vittime il dolore che avrebbe voluto far patire al padre. Giuseppe, a sua volta, ha sostenuto di “essersi sentito in credito” per via della sua infanzia difficile, durante la quale la sua “famiglia naturale”, non in grado di soddisfare i suoi bisogni e desideri materiali, è stata surrogata da quella composta dai suoi amici criminali; il che lo ha portato a delinquere per prendersi ciò che non ha potuto avere da bambino.
Infine, Stefano, dubbioso tra “essersi sentito in credito” ed “essersi sentito in debito” nei confronti della vita, fra le altre cose, ha raccontato che il padre, gran lavoratore ma pessimo genitore in quanto assente e violento, gli mise la prima pistola in mano.
Dalle parole dei detenuti sembra emergere che, tra le possibili cause che hanno indotto gli stessi a perpetrare condotte criminose, vi siano la legittimazione derivante dal “sentirsi in credito” (in termini di assistenza sia morale che materiale) nei confronti dei propri genitori e la frequentazione di ambienti devianti.
Ora, come si può evitare che un soggetto arrivi a “sentirsi in credito”? Qualora non si raggiunga questo prima obiettivo, quali correttivi posson essere messi in campo?
Un ruolo fondamentale in dette questioni dovrebbe essere giocato dalle istituzioni, in particolare, da scuola e carcere, e, quindi, rispettivamente, da educazione e rieducazione, che, ahimè, non risultano essere temi di particolare tendenza. La stessa Costituzione, rispettivamente, al secondo comma dell’articolo 31 e al secondo comma dell’articolo 27, afferma che «[la Repubblica] protegge […] la gioventù» e «le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato». Quindi, lo Stato dovrebbe guidare ogni consociato, libero o condannato in via definitiva, in quello che Angelo Aparo, durante l’esperienza “Essere Raskol’nikov oggi. Delitto e castigo al carcere di Opera”, ha definito “viaggio alla ricerca della coscienza”, offrendo sempre delle valide alternative alla devianza. In particolare, gli istituti scolastici e penitenziari, ossia i luoghi dove, rispettivamente, giovani e detenuti trascorrono gran parte del loro tempo, dovrebbero, per mezzo di collaboratori credibili e realtà come il Gruppo della Trasgressione, ricordare quotidianamente ai menzionati soggetti che la strada della criminalità, oltre ad essere un vicolo cieco, non è la sola percorribile.
Inoltre, è vero che (il richiamo va al primo comma dell’articolo 27 della Costituzione, il quale afferma che «la responsabilità penale è personale» e alle finalità della sanzione penale) la commissione di un reato deve far sorgere in capo a colui che lo commette l’obbligo, corrispondente al c.d. “debito con la giustizia”, di ripagare il torto subito dalla collettività, dalla persona offesa e dai famigliari di quest’ultima (senza dimenticare che anche le famiglie dei condannati possono patire sofferenze non indifferenti); ma è altrettanto vero che, in virtù di quanto sin qui detto, si possa concludere che la società, in quanto largamente disinteressata all’educazione e, soprattutto, alla rieducazione (elemento che mette in luce come il nostro paese sembri sostanzialmente ignorare il fatto che, ad un certo punto, i detenuti smettono di essere tali), oltreché verso quest’ultimi, è sicuramente debitrice verso sé stessa.
Credo che ognuno di noi dovrebbe pretendere qualcosa di meglio rispetto ad uno stato che, per dirlo con le parole di Fabrizio de André, «si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità».
G. R.