Cammina lumachina

Luca Colajò

Lumachina, trascini la tua casa di prima mattina. Scivoli piano, andando lontano, incollata alla terra come un’intensa stretta di mano. Attraversi pianure, colline, ruscelli, accompagnata dal canto degli uccelli. Quando piove nella foresta ti racchiudi in te stessa aspettando la fine della tempesta. Nella sabbia danzi serena, immaginando la bellezza di una sirena. Immobile, la notte davanti al cielo stellato, aspetti l’amore tanto desiderato. Non hai tempo né doveri, giochi e ridi abbracciando gli alberi e i nidi.

E mentre, solitaria e silenziosa, ti nutri accarezando una foglia amaranto, una mano ombrosa ti strappa via come una rosa. La luce si è spenta, i colori svaniti, come fossero stati rapiti. Ciondola il sacco cucito da mano esperta e lì ti senti persa.

Attorno a te fuoco, fiamme, calore, hai paura e ti batte forte il cuore. Con un tuffo sprofondi nel pentolone come caduta dal ciglio di un burrone. Sul fondo della pentola trema la tua casa saccheggiata. Ora è tua la decisione se rimanere ferma o della vita riprendere la passeggiata.

Pian piano ti avvicini alla parete infuocata per tentare la scalata. Dolorante, risali il pentolone con la pelle bruciata e la testa in confusione. La cima è raggiunta, finalmente apri il coperchio con le tue antanne a punta. Con un balzo ti lanci verso la finestra, volando fuori come fossi una freccia di balestra. Poi, tremante, te ne vai, ancora impaurita e zoppiacante.

Adesso che l’esperienza ti ha forgiato, ascolta cosa ti ha comunicato. Lumachina, cammina, cammina, non importa la meta del viaggio, l’importante è che vivi ogni respiro con coraggio.

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Le pesche di mio padre

Nicola Petrillo

Nella mia famiglia mostrare i propri sentimenti era come vietato dalla legge. Soprattutto sentire pronunciare da mio padre “ti voglio bene” era una cosa difficilissima, come mettersi a nudo davanti a un’altra persona, un segno di debolezza che doveva essere nascosto, come il corpo dai vestiti.

Ecco, io sono cresciuto così. Questo non significava la mancanza d’amore da parte dei miei, ma un lavoro più attento per percepire i segnali e i gesti di chi ti ama. Sono arrivato a questa consapevolezza solo dopo aver perso tutti i capelli e passato metà della mia vita credendo di non essere amato.

Nonostante i conflitti avuti da giovane con mio padre, nonostante le mie continue ribellioni, fino a vanificare tutti i suoi sacrifici e a distruggere quello che lui costruiva, nonostante buttassi disonore sulla famiglia, lui mi amava lo stesso. Forse aveva un modo strano di dimostrarlo, ma sempre di amore si trattava.

Una cosa che ho notato solo quando è venuto a mancare erano le pesche che mi portava al colloquio e, anche quando a causa della sua malattia non poteva più venire personalmente, me le mandava tramite mia madre.

I frutti erano pesche, ma erano grandi come piccoli meloni, facevo fatica a mangiarne una intera, non so dove riusciva a trovarle ma per me comprava il meglio. A confronto le pesche di mia madre erano grandi solo come pesche. Adesso, ogni volta che ne mangio una, non riesco ad evitare di fare il confronto con quelle di mio padre.

Le mettevo sempre in bella vista, in modo che ognuno che entrava nella mia stanza potesse vederle ed invidiarmi. Con orgoglio raccontavo che me le portava mio padre, spiegando che era il suo modo di dirmi che mi voleva bene. lo stesso, ogni tanto, andavo a guardarle, le toccavo assaporandone la consistenza, il profumo che emanavano. Cercavo di farle durare il più a lungo possibile, la sola vista di quei frutti mi addolciva il cuore.

A qualcuno che ritenevo amico, ogni tanto ne regalavo una, ma non lo facevo molto volentieri, mi sembrava di regalargli un po’ dell’amore di mio padre, come se lo togliesse a me.

Di questo rito, che fino all’anno scorso davo per scontato, ora sento la mancanza, mi manca quello che esprimevano le sue pesche.

Questo tipo di comportamento mi è stato tramandato, deve essere un’identità di famiglia. lo stesso, anche quando sento il desiderio di manifestare affetto, faccio molta fatica, come se qualcosa mi trattenesse da dietro.

A differenza di mio padre, io compenso questa carenza con i dolci. Chi vuole il mio affetto sappia che è soggetto ad ingrassare. Se la frutta fa bene, i dolci un po’ meno. Ma essere amati fa bene a tutti.

Ti voglio bene papà
Nicola

 

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Castelli di sabbia

Verbale da Bollate, 17/11/2016
Roberta Rizza

Alla riunione di oggi al carcere di Bollate è stato ripreso il discorso già affrontato il giorno prima al gruppo di Opera, in cui il dott. Aparo chiedeva una riflessione sulla storia di due bambini che giocano insieme e, una volta adulti, uno intraprende la vita criminale e l’altro, invece, diventa un adulto responsabile.

Quasi tutti i partecipanti si sono impegnati per dare una risposta. Ognuno di loro ha raccontato un pezzettino della propria vita, momenti dell’infanzia o dell’adolescenza che hanno spinto a intraprendere la vita criminale.

Personalmente, sono rimasta colpita dall’intervento di Ivan Puppo, il quale diceva che da bambino non aveva mai costruito castelli di sabbia e che, invece, si divertiva molto a distruggere quelli degli altri. Così da grande ha continuato a non costruire nulla, né castelli di sabbia né sogni e neanche progetti, continuando a distruggere tutto ciò che potesse avere una parvenza di sogno.

Il dott. Aparo, rispondeva soffermandosi sul concetto di identificazione con l’altro. Cosa fa sì che l’altro diventi nella testa del bambino nemico o amico? L’identificazione ha origine durante la prima infanzia nel rapporto con i modelli di riferimento. La presenza di un modello di autorità credibile, che funga da guida nella vita del bambino, è un passo necessario affinché egli, una volta adulto, possa richiamare alla memoria quel modello interiorizzato.

Il bambino che costruisce un castello di sabbia ha bisogno di un adulto che riconosca il suo lavoro, che lo valorizzi e che lo aiuti a costruirne una storia. Una figura di riferimento sufficientemente buona aiuterà il bambino a scoprire quali sono i suoi strumenti, le risorse che saranno utili nelle situazioni avverse; genitore e figlio coltiveranno insieme queste risorse fino a che il bambino non riuscirà a utilizzarle autonomamente.

Il bambino a cui viene distrutto il castello di sabbia dal genitore stesso, sarà un bambino che ricercherà continuamente un riconoscimento anche, e soprattutto, sbagliando, osando e abusando. Questo bambino si troverà sempre a doversi confrontare con una realtà di cui non si sente all’altezza, in cui deve dimostrare costantemente di essere più forte, di potercela fare con i pochi strumenti che ha a disposizione.

Nel caso di eventi frustranti, come quando l’onda spazzerà via il castello che ha costruito con i suoi sforzi, ricorrerà a quelle poche e scarne risorse che ha acquisito nella relazione con l’altro; il risultato sarà di fatto diverso da quello di un bambino che trova accanto a sé il papà che lo aiuta a rimettere su un altro castello e una nuova storia.

Inoltre chi, a causa della carenza di affidabilità delle figure di riferimento non ha interiorizzato un modello credibile, si ritroverà già in adolescenza a scontrarsi con tutte le forme di autorità che incontrerà, sviluppando comportamenti devianti e antisociali.

Accade spesso che il genitore detenuto, pur di non rendersi colpevole agli occhi del figlio, racconti al bambino/adolescente di essere in carcere a causa di un errore, di un’ingiustizia da parte delle istituzione. Il bambino ne ricaverà che il suo modello di autorità è stato vittima di un complotto di un’autorità vessatoria e carnefice; dunque il papà rappresenterà la forma di autorità buona e da seguire, mentre le istituzioni e la legge sarà l’autorità cattiva da cui distanziarsi.

Il mondo di Sisifo

Verbale da Bollate, 01/12/2016
Il mondo di Sisifo, Vittoria Canova

La giornata di giovedì è iniziata con l’incontro del Gruppo della Trasgressione al reparto femminile. Il professor Aparo ha spiegato a studenti e detenute che si cercherà di aggiornare lo spettacolo teatrale del Sisifo, prendendo ispirazione da un testo prodotto da un detenuto.

Francesco Leotta, poco dopo aver saputo di avere ottenuto l’affidamento sociale, ha scritto un dialogo tra Sisifo e il masso introducendo nuovi concetti. Da questi si è pensato di dipingere Giove in parte come un personaggio reale e in parte come una proiezione di Sisifo. Questo perché si vuole rendere l’idea che ciascuno di noi cerca all’esterno persone con le quali rivivere esperienze del proprio passato e relazioni rispondono ai modelli più o meno problematici che si hanno dentro.

In questo dialogo si fornisce una visione del personaggio di Giove che recupera una delle idee iniziali del lavoro su Sisifo. Il capo dell’Olimpo viene delineato come una sorta di capo mafioso. Inoltre, si allude a una vecchia alleanza tra Sisifo e Giove… quando Sisifo era una pedina dei giochi di Giove che cercava di salire nella gerarchia del potere. Giove seduce Sisifo con la promessa del potere ottenendo in cambio dei servizi, ma quando non ha più bisogno di lui se ne libera attraverso la famosa condanna del masso (analogia con le organizzazioni criminali).

Emerge sempre in modo più chiaro che il vero peccato di Sisifo è l’arroganza, la smania di salire al vertice del potere. La condanna (in realtà la vendetta) di Giove, pertanto, diventa l’esito che Sisifo cerca già di suo come risposta alle sue fantasie di onnipotenza.

masso

A questo punto Ilaria interviene chiedendo cosa succederebbe se Sisifo decidesse di non spingere il masso. Ne nasce un dibattito, Ilaria e Angela, un’altra detenuta, sostengono che loro non avrebbero spinto il masso.

Il prof. Aparo interviene dicendo che la pena del masso va considerata come la parte finale del dipanamento di una matassa che, anche prima di essere svolta, contiene al suo interno, come per un genoma non ancora attualizzato, l’intero percorso di quello che per i Greci è la übris, cioè la sfida alla divinità e il fallimento del tentativo di cambiare il proprio status di essere mortale.

lumacasfondo

 

 

Sisifo, di Sofia Lorefice
Ci fu ‘na vota u suvranu ri Corintu,
ca nunn’avia acqua pa so’ ggenti
appi a pinzata ‘i futtilla a nu diu
l’acqua a ttruvau ma iddu si piddiu
In altre parole – continua il prof. Aparo – chi fantastica di poter porre fine alla condanna del masso cerca un’impossibile via di fuga dal loop già integralmente scritto sul ciclo dell’arroganza dell’uomo (vedi ad es. il mito di Icaro).

Gli interventi successivi si sono sviluppati in risposta a una domanda di Ilaria sul confine fra “Libertà e Schiavitù”. Ilaria chiedeva se fosse possibile fare qualcosa prima con un senso di costrizione e poi per libera scelta. Ilaria, per spiegarsi in modo più efficace, propone un esempio: lei si sente quasi costretta a lavarsi e pettinarsi i capelli prima di partecipare al gruppo. Ma è possibile prepararsi con la stessa cura, per libera scelta?

Ognuno dei presenti è intervenuto cercando una risposta. Ad esempio una detenuta, Natalie, ha raccontato che lavarsi i capelli, pettinarli e truccarsi sono gesti che lei fa per se stessa e per stare bene in mezzo ad altre persone; in precedenza tendeva a trascurarsi, ora questi gesti la fanno sentire bene.

Nel pomeriggio è seguito l’incontro del gruppo maschile. Nuovamente il prof. Aparo ha esposto l’ipotesi di modificare alcuni dialoghi di Sisifo e di introdurre una scena con un antefatto per descrivere la vecchia alleanza tra Sisifo e Giove.

In seguito un detenuto ha preso parola, ha raccontato brevemente la sua storia e ha ringraziato il dott. Aparo sostenendo di sentirsi più consapevole di se stesso e più sereno. Inoltre ha raccontato due sogni molto lunghi e ricchi di immagini, personaggi e scenari.

Un’immagine significativa è quella in cui egli dialoga con bambino prevedendone il futuro. Un tentativo di tornare in un momento precedente al trauma (in questo caso la separazione dei genitori) e di incontrare nuovamente il bambino che era pieno di potenzialità, che però lui ha ignorato. In questo senso il sogno si collega anche alla storia di Sisifo e Giove, ognuno di noi nella propria vita tende conflittualmente ad ascoltare e a zittire le proprie istanze di libertà e di crescita e, tante volte, a tornare al tempo in cui le proprie spinte vitali e i propri conflitti sono stati accantonati.

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Una storia violenta

La prima volta avevo cinque anni. Stavo giocando con mio fratello, che ne aveva due. Un vicino di casa lo chiamò con la scusa di dargli una caramella. Io non me ne accorsi. Poi venne da me e mi disse che se non gli facevo un pompino mi ammazzava. Però non gli bastò solo un pompino. Mi violentò…

Ero terrorizzata di lui. Avevo paura di raccontare cosa era successo. Mia mamma poi mi mandò a scuola. Io non volevo andare e lei mi sgridava e mi dava delle sberle. Non capiva che quell’uomo era l’autista dello scuola bus e lui aiutava i bambini a salire e scendere dal pulmino. Era per quello che non volevo andare, vivevo nella paura che potesse farmi ancora male.  Mi minacciava – “se dici qualcosa, tutti si vergogneranno di te!” usava violenza psicologica e io avevo il terrore di parlare.

Provavo schifo, vergogna, rabbia: il mio cuore si è chiuso e anche la mia mente. A scuola andavo malissimo perché non riuscivo a concentrarmi. Ho ripetuto più volte la prima elementare. La paura causata dalle minacce teneva occupata la mia mente e non riuscivo ad imparare nulla. Io avrei voluto studiare ad essere brava ma non ci riuscivo. È cambiato il mio carattere, sono diventata ribelle. Non parlavo.

Vivevamo da mia nonna. Mio padre era alcolizzato. Era gelosissimo di mia madre, controllava come si vestiva. Non mi voleva bene. Avrebbe voluto un maschio. Era violentissimo e picchiava spesso mia madre. Io mi mettevo spesso in mezzo. Arrivava la famiglia di mio padre per picchiare la famiglia di mia madre. Arrivavano con coltelli e pistole. Era terribile. Mi ricordo che gli gridavo ‘no papà ti prego non usare il coltello!’ È così che sono cresciuta…

Mio papà non mi comprava niente…ho cominciato a rubare a 8 anni, dolci e caramelle. A 13 anni rubavo già le auto. Portavo con me un coltello. Bigiavo la scuola per andare a rubare. Ma non ero felice. Infatti ho cominciato a drogarmi – cocaina, pastiglie. Per dimenticare le cose brutte. Picchiavo tutti quelli che incontravo, sia uomini che donne, che mi guardavano male. Avevo tanta rabbia dentro. Nell’ambiente della droga tutti volevano violentarmi ma io li picchiavo e non mi facevo mettere le mani addosso se non volevo io…

A 15 anni mio padre mi ha accusata di drogarmi con una sostanza che invece non usavo perché era merda. Abbiamo litigato. Mi ha picchiato con una grossa sbarra di ferro. Lui era forte. Lo odiavo perché ci picchiava sempre. Lui non mi voleva: mi lasciava da mia nonna e loro invece stavano a casa, mangiavano insieme… per tutta la vita l’unica cosa che ho desiderato è di avere una famiglia, una carezza da mia madre. Invece non volevano stare con me e questo è stato sempre un enorme dolore e lo è tutt’ora

E mia madre! Solo quando a 15 anni ho picchiato io mio padre e l’ho buttato fuori –  solo allora mia mamma si è ribellata, dopo che lui se n’è andato.

Ancora adesso sento odio per chi mi ha violentata. E rabbia per mia madre che non si ribellava. Non capivo perché non lo facesse. Lei non si è resa conto che ci ha fatto tanto male così. Assistere a tutta quella violenza è stato devastante. A 15 anni andavo in giro con la pistola. Se vedevo mio padre lo sfidavo, non avevo più paura di lui. È allora che ho conosciuto il padre di mia figlia. Studiava anche se era un po’ dell’ambiente e anche mammone. Sono stata fidanzata con lui per 3 anni. Ho fatto una figlia con lui, lo amavo tanto. Ho lasciato la vita che facevo perché lo amavo e volevo una famiglia, però continuavo a drogarmi, anche se ero incinta perché sentivo che lui non era felice con me. Anche lui si drogava.

Vivevamo nella casa di mia suocera che si metteva spesso in mezzo.  Abbiamo cominciato a picchiarci già da fidanzati e le cose sono andate peggiorando. Mi mentiva e questo mi faceva arrabbiare. Avevo tanto sperato di avere una famiglia. Il dolore mi portò a tagliarmi, a farmi male. Ero incinta, ma mi veniva in mente tutto quello che mi aveva fatto mio padre.

Quando la bimba aveva due mesi me ne andai, ma poi ritornai dopo tre mesi. Speravo ancora che le cose potessero funzionare. Sono rimasta incinta di nuovo. Lui non era felice all’idea di un altro figlio. Continuavamo a litigare. Mi vietò di raccontare a mia madre, a mia suocera a chiunque che aspettavo un bimbo. Mi picchiava anche se ero incinta. Una volta mi fece davvero male, sentì qualcosa spezzarsi nella schiena. Cominciai a perdere sangue e capì che era successo qualcosa di grave.

Gli chiesi aiuto, di portarmi in ospedale. Si rifiutò anche se aveva l’auto. Dovetti aspettare che arrivasse l’ambulanza. Mi ha mandata sola come un cane. Mi hanno ricoverata subito perché avevo una forte emorragia. Non ho perso subito il bambino…ci volle una settimana. Non ho mai superato questo dolore. Non ha solo ucciso il mio bimbo quel giorno, ha ucciso me. Non si può spiegare cosa significa perdere un figlio.. lo odiavo, ma dopo sono tornata da lui.

Guardando indietro non capisco perché. Forse perché era quello che avevo visto fare a mia madre, la stessa violenza, la stessa incapacità di andarsene.

Lui mi accusava di tradirlo, era fissato. Io lo tradivo sì, ma non con gli uomini, con la droga. Al 1° compleanno di mia figlia avevo ormai perso la voglia di vivere. Prendevo pastiglie per tutto: per dormire, per stare sveglia… fu proprio alla festa di compleanni di mia figlia che decisi di lasciarlo definitivamente. Andai a vivere da mia nonna e lui partì per l’Europa. Però mi chiamava, ma mi minacciava, diceva: se ti trovo con un altro uomo ti ammazzo. Mi torturava tutti i giorni con le sue minacce. Mi ha anche denunciato perché non volevo fargli vedere la bambina.

Lo odiavo con tutte le mie forze…odiavo tutti gli uomini. Li odiavo così tanto che andavo con tutti…è illogico ma è così. Continuavo a pensare al figlio che avevo perso – io non ho mai pensato all’aborto, non mi ha mai sfiorato l’idea. Avrei voluto uccidere quell’uomo, forse è per quello che è partito. Quel figlio lo porto ancora nel cuore.

Ho ricominciato a rubare. Chi mi dava da mangiare? Mi drogavo e dovevo pagare la droga, vestirmi, vestire mia figlia… C’è stato uno che diceva di volermi aiutare, un ragazzo, ma io non lo amavo quindi non ho accettato. Io non uso le persone.

Sono finita in carcere, però solo per dormire la notte: il giorno potevo uscire. Mia suocera mi aiutava con mia figlia. Anche se aveva fatto tanto male al mio rapporto con lui, mi ha davvero aiutata con mia figlia e non serbo nessun rancore. Abbiamo fatto pace dopo che lui è partito per l’Europa.

Quando aveva 4 anni la bimba stava con me la settimana e il fine settimana con mia suocera. Poi ho incontrato un ragazzo a una festa di battesimo. Lo conoscevo già dal passato. A quel tempo non mi drogavo più, però bevevo. L’ho frequentato per un po’ e ci sono andata a letto: sono rimasta subito incinta. Eravamo entrambi felici. Un’amica mi consigliò di abortire ma io non l’ascoltai – non esiste abortire, è una vita. Questo ragazzo aveva una situazione familiare molto difficile. Sua madre, sessantenne, si drogava con lui. Iniziammo presto a litigare e a picchiarci a vicenda. Volevo che lui fosse migliore del primo e invece era peggio, molto peggio. Due mesi dopo il parto ricominciai a drogarmi. Durante la gravidanza avevo ripreso a rubare. Lui era sempre drogato e non provvedeva a me: dovevo comprare la culla, il passeggino…

Un giorno venne a trovarmi un’amica, una compagna di furto. Lui mi accusò di drogarmi con lei. Non era vero. Cominciò a picchiarmi forte. Mi ricordo che pioveva. Io mi difendevo ma lui era molto grande e grosso. Mi mise le mani al collo, voleva strangolarmi. Io lo mordevo  per cercare di liberarmi. Era malato, era gelosissimo, era geloso di mia madre, di mio fratello, di tutti. Non so ancora oggi come io non sia morta. Lui voleva uccidermi. Mi ricordo le mani al collo, mi ricordo che non respiravo, le mani che mi stringevano sempre di più. Ricordo ancora la sensazione.

Avevo il terrore di lui, era pazzo, ero convinta che volesse uccidere me e mia figlia. Lei mi aveva ridato la vita. Andai all’ospedale con un attacco di panico. Non so se lui si rese conto di quello che aveva fatto e si spaventò, comunque se ne andò via. Dopo, voleva fare la pace ma io non ho accettato. Mi cercava, e un giorno mentre ero fuori mi ha trovata e ha cercato nuovamente di uccidermi. C’era gente che vedeva e lui è scappato.

A quel punto sono andata dalla mia famiglia per raccontare che mi aveva picchiata, che aveva tentato di ammazzarmi. Sono andati tutti da lui per picchiarlo e lui ha ferito mio papà con un coltello.

Continuava a seguirmi, era orribile. Mio padre e mio cognato andarono ancora da lui per picchiarlo. Non riesco ancora a capire come un uomo, il padre di mia figlia, potesse volere uccidermi. Era malato di mente… era malato di gelosia. Mi chiamava in continuazione. Alla fine ho accettato di vederlo e di andare a letto con lui un ultima volta. Mi aveva minacciata con un fucile puntato alla testa. Non so come, ma da quella volta mi lasciò in pace.

Poi sono venuta in Europa. Un’amica mi portò a vivere a casa di un vecchio che era in galera ma veniva a casa i weekend con dei permessi. Si è innamorato di me e mi disse che mi avrebbe dato un’opportunità di lavorare con lui. Io non conoscevo nessuno. Gli ho voluto bene, ma era il più pazzo di tutti. Mi comprò un’auto per lavorare ma era gelosissimo. Cominciò a picchiarmi. Teneva l’acido in casa e diceva che mi avrebbe sfigurata. Ho conosciuto un altro ragazzo ad una festa e cominciai a frequentarlo perché non ce la facevo più. Ma avevo anche bisogno di una casa, lo ammetto, e non avevo soldi quindi tornavo dal vecchio. Lui disse che avrebbe ucciso questo ragazzo. Mi seguiva, ma io non lo sapevo. Mi trattava come una puttana. Per gli uomini tutte le donne sono puttane…

Non capisco, sembrava così buono all’inizio e poi invece è diventato un mostro. Mi piaceva tanto, mi minacciava, quando cercavo di andarmene mi picchiava ancora di più. Un giorno non ce l’ho più fatta e mi sono tagliata con un coltello. Sanguinavo tanto. Ho ancora le cicatrici…volevo andare in ospedale ma lui non voleva. Aveva paura che lo arrestassero perché era ai domiciliari.

Sono svenuta. Mi ha medicato lui. Poi, quando sono guarita, ha iniziato a picchiarmi ancora. Avevo paura che mi uccidesse, non si controllava, non riuscivo a farlo stare calmo. Diceva a tutti che ero sua moglie. Sono andata a rubare perché volevo staccarmi dal pazzo. Vivevo con il terrore che mi buttasse acido in viso. A volte mi dava dei soldi, altre volte non mi apriva la porta di casa e dormivo in un albergo.. me ne sono liberata creandomi un’indipendenza lavorativa con quel ragazzo, fino al mio arresto.

Gioie corte

Angeli ribelli
di Andrea Mammana

Cavalcano fulmini
Dalla vita breve
L’oblio non li spaventa
Si nutrono d’eccitazione

Con luci colorate
Addobbano i ricordi
Sul viale della morte

bullo_allia

Un mondo distratto
di Fabio Ravasio

Destinato non so se dalla sorte
Ad esser di me stesso la rovina
La mia vita l’ho giocata con la morte

La libertà l’ho persa una mattina
Ascolto il cuore che mi batte forte
E cedo il passo al tempo che cammina

Orizzonti vari e vie contorte
Illusioni antiche e mai risolte
Ho vissuto solo gioie corte

E ora, essendo carcerato
il mondo distratto mi confina
in una solitudine assassina

 

Il virus delle gioie corte
Il bullo di Sebastiano Allia

 

 

Sisifo e il masso

Sisifo e il masso
Francesco Leotta e Angelo Aparo

Che cosa succede dentro di me?
Chi dice il mio nome senza chiedere udienza?
E se anche fosse la mia coscienza
Ha forse ha scordato che io sono il Re!

Aspetta, rifletti, non fare l’ignaro
Per le tue tragedie non c’è riparo
Qui sei agli Inferi, ti devi educare
Altrimenti in eterno ci devi restare

Ma io sono il re, non mi devi toccare
Nessuno, nessuno mi può giudicare
Io sono il vertice nel mio reame
Ora chiamo le guardie e ti faccio arrestare

Ma guarda sei agli Inferi, dovrai rassegnarti
Le conseguenze ti erano chiare
Nessuno qui sotto riesce a imbrogliare

Chiamatemi Zeus, è mio amico in affare
Con lui ho praticato festini e puttane
Noi due siamo amici, guardati attorno
Mi ha promesso l’eterno, mi ha reso immortale

Sei proprio cocciuto| La brama ti ubriaca.
Era quel vizio che ti faceva immortale
Tu deliri, svegliati!
Tutti promettono nel malaffare
Ma sol fino a che servi, ti fanno campare!

Ma senti, Coscienza, mi assilli, mi stufi
Dimmi in sostanza cosa ho fatto di male

Vedrai che capisci, se riguardi al passato,
i tuoi intrallazzi col capo qui ti hanno portato
La città di Corinto hai portato alla fame
Hai fatto festini, hai sperperato 
Le tasse dei poveri hai aumentato
Per il sottobanco e le corruzioni
Chi poteva è fuggito verso altre nazioni

Adesso che guardo un po’ meglio al passato
Rintraccio le volte in cui in effetti ho abusato
Per me era un piacere ribaltare la sorte
Negare l’uomo e gabbare la morte

Ma le mie prime volte avevo solo giocato
Pur se dall’alto qualcuno mi ha usato
Forse adesso capisco…
Mi ha illuso che in cima sarei volato
E invece sul fondo oggi sono arrivato

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Verbale collegato

Vascello

C’è chi lo chiama zattera, chi nave. A me il Gruppo piace immaginarlo come un vascello che solca i mari della vita. Il vascello della Trasgressione ha un equipaggio composito. Studenti e detenuti, laureandi ed ex detenuti, liberi cittadini diversi per sesso, formazione, età, caratteri somatici e culturali. Lo definirei un vascello perfetto per un mondo globalizzato qual è il nostro. Questo vascello ha anche un capitano gagliardo, attento a cogliere la minima turbolenza del mare e del vento, ad avvertire le inquietudini e le aspettative della ciurma e ad impartire gli ordini appropriati.

Tutto l’equipaggio è importante, perché è composto di esseri umani. Alcuni hanno avuto una vita fortunata, sono stati amati e apprezzati e hanno trovato naturale studiare e impegnarsi e amare a loro volta. Altri hanno avuto una vita dura, sono stati abbandonati o trascurati, sono ancora alla ricerca di sé e del proprio posto nel mondo e non sempre viene loro naturale studiare e impegnarsi e amare, proprio perché nessuno li ha amati o perché non ne avvertono il senso.

Per questo siamo insieme, per capire insieme che vale la pena studiare e impegnarsi e amare… non solo “anche se non siamo stati amati” ma soprattutto “per il fatto che non siamo stati amati”. Amare è l’unico modo per non avvitarsi su se stessi. Nessun membro dell’equipaggio è inutile, perché ogni essere umano ha una sua individualità, preziosissima proprio perché unica.

L’effetto che ogni componente del gruppo produce sugli altri va oltre quello che la persona pensa o si prefigge. Qualche mese fa abbiamo letto lo scritto di un componente detenuto del gruppo. Mi aveva colpito l’incipit: “Mi affaccio al gruppo“.

Ne avevo sorriso e mi era subito venuto alla mente l’oculo della camera degli sposi nel Palazzo Ducale di Mantova. L’oculo è un disegno ovale al centro di una cupola che simula un’apertura sul cielo azzurro, (in realtà inesistente) a cui si affacciano dall’esterno alcuni amorini ricciuti e sorridenti che sporgono la testa e guardano in giù, con espressione maliziosa e dolce.

Quegli angeli somigliano all’autore dello scritto e non solo perché si affacciano, non solo perché sono ricciuti e sorridenti e dallo sguardo un po’ malizioso, ma soprattutto perché la dolcezza dei loro volti assomiglia alla dolcezza dell’espressione che talvolta lui ha e che non aveva appena arrivato.

Egli talvolta è dolce e contento, vorrei quasi dire appagato, come se approdare al gruppo per qualche ora gli permettesse di sentirsi al suo posto. Lo sguardo che prima era un po’ bellicoso ora è solo fiero, ma di una fierezza non tracotante. E’ un bello sguardo.

Gli ho sentito dire un’altra frase mi aveva colpito: “mi sento preso a braccetto”. E’ una bella frase, esprime una bella sensazione e trasmette un’emozione positiva. Riesce a smussare un po’ l’altra, quella in cui dice che… l’impotenza per la sofferenza subita, cui è stato ingiustamente sottoposto, l’ha indotto a una ribellione pervicace e insensata che gli ha rovinato la vita.

Questo scrivevo mesi fa. Ma i flutti della vita sono tempestosi e le vele che prima si gonfiavano al vento si sono afflosciate e ora non potrei più scriverlo. La sofferenza ha ripreso il sopravvento, l’autore sembra essersi arenato, pare non riuscire più a prendere il largo, trattenuto dalla risacca della rabbia, non vede più l’orizzonte e non sente più la vicinanza degli altri.

Ma si sbaglia. Con lo studio e l’impegno le vele torneranno a gonfiarsi e la navigazione potrà riprendere. Posso promettergli che non ci saranno altre derive o tempeste? Purtroppo no. Posso però ricordargli che ci sarà il vascello a tenerlo, motivarlo, orientarne le energie, se lui sarà parte dell’equipaggio.

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Ci provo anch’io

  • Francesco Capizzi

Si dice che chi crede nelle proprie aspirazioni e ci mette dentro il fiato può arrivare molto in alto.