Invito per Isabella Bossi Fedrigotti

Gentilissima Dottoressa Isabella Bossi Fedrigotti,

siamo i detenuti componenti del “Gruppo della trasgressione” attivo nel carcere di Milano Opera. Le scriviamo per ringraziarla per l’attenzione a noi dedicata attraverso il suo articolo sul Corriere della Sera del 18/9/2016 e, in particolare, per il suo commento sull’incontro che abbiamo avuto con la signora Marisa Fiorani, mamma di Marcella, assassinata dalla criminalità organizzata.

La sua riflessione contribuisce ulteriormente a favorire quei sentimenti di ravvedimento e autocritica con i quali ognuno di noi si confronta con il proprio passato distruttivo. La testimonianza e il dolore che la signora Marisa ha voluto consegnarci scuote e allarga le nostre coscienze. Il Cardinale Martini disse “se non si è capaci di percepire il dolore dell’altro, non si può uscire dalla spirale di odio e violenza”.

Noi detenuti, colpevoli di gravissimi reati contro il prossimo e contro la società, grazie anche all’insostituibile laboratorio di riflessione qual è il “Gruppo della trasgressione”, lo facciamo riconoscendo e condividendo il dolore dell’altro, riconoscendo e condannando la scelleratezza del nostro passato.

I mattoni di quella corazza di delirio e di indifferenza, che a suo tempo c’eravamo creati, oggi stiamo imparando a utilizzarli per costruire ponti di dialogo e di confronto con persone come la signora Fiorani e come lei.

Saremmo pertanto felici se Lei volesse essere nostra ospite al tavolo del “Gruppo della Trasgressione” a uno degli incontri che noi abbiamo tutti i mercoledì mattina qui nel carcere di Opera. Ascoltare le sue riflessioni e confrontarci con Lei sarebbe per noi una rinnovata possibilità di crescita culturale e morale.

Infine, in quella stessa circostanza, potremmo invitare la sig.ra Fiorani e il dott. Paolo Foschini, ai quali dobbiamo la fortuna di avere destato la Sua attenzione verso la nostra realtà.

Milano Opera 29/9/2016

Cordiali saluti
Il “Gruppo della trasgressione


 

Marisa, una breccia tra gli ergastolani

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Alto & Basso di Isabella Bossi Fedrigotti
MARISA, UNA BRECCIA TRA GLI ERGASTOLANI


Gli alti e i bassi secondo la prospettiva e la sensibilità di ciascuno. Si apre da oggi uno spazio domenicale dedicato a commentare il bello e brutto della città. E nelle pieghe della cronaca di questi giorni ci piace ripescare storia di Marisa Fiorani.

fedrigotti2Saranno a Milano più gli alti o i bassi, i chiari o gli scuri? Dipende probabilmente anche da come si guarda, da quale prospettiva e, forse, con quale stato d’animo. C’è infatti chi trova imperdonabile qualcosa che un altro nemmeno nota. E c’è chi per gli aspetti positivi della nostra città proprio non riesce ad avere né occhio né orecchio: sogna Barcellona, Parigi, Berlino, Vienna, Londra e a Milano gli sembra di vivere in un incivile, arretrato borgo selvaggio.

Questo spazio domenicale vorrebbe servire a segnalare e commentare il bello il brutto della città, le ragioni di ottimismo come quelle che giustificano disappunto, rabbia, frustrazione. Nel caso che prevalgano gli alti, resoconti, cioè, di situazioni e avvenimenti che lasciano ben sperare, ciò dipende dal carattere di chi scrive tendente all’ottimismo. Ma possono stare tranquilli pessimisti, perché non mancheranno purtroppo notizie in grado di nutrire ampiamente il loro catastrofismo. E avendo per cinque anni scambiato ogni giorno posta con i lettori, so bene che sono i migliori cronisti del brutto, dell’insensato, dello scandaloso; più raramente del bello e del buono, ma si sa che più della contentezza  e della soddisfazione sono delusione e collera che inducono a rivolgersi alla posta di un giornale.

Paradossalmente, il primo avvenimento positivo che vorrei commentare è legato a una vicenda di pesantissima criminalità. Se ne è scritto una settimana fa in queste pagine, ma vale la pena riscrivere perché ha qualcosa di straordinario, di irreale, di miracoloso, quasi.

Potevo forse succedere in qualsiasi altra città, ma è successo a Milano, segno che qui c’erano i presupposti necessari perché potesse avvenire. Marisa Fiorani, pugliese, mamma di Marcella, massacrata venticinque anni fa a colpi di pietra per mano di esponenti di clan malavitosi, ha incontrato nel carcere di Opera –  come ha riferito in queste pagine Paolo Foschini – un gruppo di una ventina di ergastolani mafiosi pluriomicidi.

Davanti a loro ha parlato del suo lungo, inconsolabile dolore e invece di incontrare, come ci si poteva aspettare, un muro di indifferente, corazzato silenzio, una breccia si è aperta. E’ come se da quel muro fosse caduto prima un mattone, poi, lentamente, un altro e poi ancora un terzo. Quegli uomini che hanno ammazzato anche in modo crudelissimo, alcuni così tante volte che nemmeno si ricordano quante, che per forza di cose immaginiamo del tutto privi di umanità, hanno parlato, hanno raccontato le loro tragiche storie di crimine e di morte; qualcuno ha chiesto scusa, qualcuno è andato ad abbracciare Marisa.

Miracolo della parola reso possibile in questo caso grazie all’iniziativa del Gruppo della trasgressione attivo nelle carceri milanesi e dell’associazione Libera contro le mafie.

18 settembre 2016


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Una serata nella quale i personaggi di Fabrizio De André incontrano quelli del dott. Gabriele Catania grazie al piano di Tonino Scala, la chitarra di Alessandro Radici e la voce di Juri Aparo.

Le canzoni di Fabrizio De André per la salute mentale

In occasione della giornata mondiale della salute mentale, l’associazione “Amici della mente onlus”, che opera nell’ambito del disagio psicologico presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano, propone un evento artistico che fa parte di un programma di lotta contro il pregiudizio e lo stigma nell’ambito del disagio mentale.

Lo spettacolo musicale prende le mosse da un suggerimento espresso da Fabrizio De André: quello di fare in modo che le canzoni, oltre a creare “realtà sognate” possano incidere concretamente a a favore del cambiamento sociale.

Metà dei testi delle canzoni della serata sono parafrasi di alcuni dei brani più noti di Fabrizio De André: riflessioni in forma di canzone dello psicoterapeuta Gabriele Catania, che restituiscono una lettura empatica delle storie di alcuni pazienti da lui trattati. Le canzoni saranno precedute da una breve presentazione dei relativi temi clinici presentati e dei collegamenti con i testi originali dei brani.

Alla serata, che comprende anche l’esecuzione di alcune canzoni del repertorio di Fabrizio De André, partecipano dando il loro contributo alcuni detenuti provenienti dal carcere di Milano-Bollate.

 

Marisa Fiorani al carcere di Opera

Marisa Fiorani al carcere di Opera: «Aiutiamoci parlando»

La terapia degli incontri, in collaborazione con Libera, per superare il passato. Faccia a faccia tra chi ha visto sua figlia uccisa (Marcella, rapita e ammazzata dai clan nel ‘90) e chi ha ucciso

di Paolo Foschini

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Marisa Fiorani e Pisapia agli Ambrogini 2013: ritirò il premio alla memoria di Lea Garofalo (Fotogramma)

Marisa Fiorani e Pisapia agli Ambrogini 2013: ritirò il premio alla memoria di Lea Garofalo (Fotogramma)

È stato organizzato nell’ambito delle attività promosse dal Gruppo della Trasgressione che lo psicologo Angelo Aparo manda avanti in carcere da anni non solo a Opera ma anche a Bollate e San Vittore. A favorirlo un pm antimafia, Francesco Cajani, insieme con il lavoro congiunto di Libera — l’associazione contro la mafie fondata da don Ciotti — e del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano. Il cui obiettivo principale, come spiegano Federica Cantaluppi e Luana De Stasio che per questo Centro lavorano, è quello di favorire l’incontro tra vittime e autori dei reati. Non tanto alla ricerca di parole pur profondissime nella loro essenza ma qui banali e addirittura irritanti nei luoghi comuni che evocano, quali «perdono» o «scuse», ma in qualcosa che la signora Marisa sintetizza «a modo mio, perché non so parlare difficile: io mi porto il mio dolore da ventisei anni ma so che anche voi che state qui dentro avete il vostro, forse parlarci può aiutarci tutti».

Un impegno lungo e fatto di tanti avanti e indietro, sottolinea Federica, che richiede pazienza e delicatezza. Ma che alla fine ha prodotto, per esempio, un esito come quello di questa mattina a Opera. I detenuti non lo sapevano che oggi avrebbero incontrato Marisa. Per loro era la riunione settimanale solita. Ma anche per lei è stata la prima volta. Con tutto che aver trasformato la sua tragedia in impegno, nel suo caso, non è storia di adesso: da molto tempo la va raccontando nelle scuole e tre anni fa era stata lei a ritirare l’Ambrogino alla memoria di Lea Garofalo, altra uccisa per essersi ribellata alle cosche, a nome della figlia Denise.

E così adesso eccoli che le parlano, questi uomini. Come appunto Squillaci che dice «a fare i miei primi omicidi a Catania mi ci mandava mio padre». Che dice ancora «è terribile ma il problema del dolore altrui non me lo ponevo proprio, neppure quella volta che avevo ucciso e seppellito uno di cui conoscevo bene la madre e quando la incontravo e mi diceva “secondo te che fine ha fatto mio figlio?” le rispondevo “vedrai che tornerà” senza fare una piega e solo qui, dopo tanti anni, ho capito che anche uno come me può cambiare». O come Rosario Casciana, di Gela, che ora ha 45 anni e «sono in carcere da quando ne ho 19 per avere ammazzato più volte, anche io, e quando avevo una pistola in mano non pensavo a nulla, e dirlo ora mi fa impressione». O altri che il loro nome non lo dicono, come quest’altro killer che «ho 54 anni e ho chiesto tante volte di incontrare i parenti di quelli che ho ucciso, senza averlo mai ottenuto e li capisco… perché io appartenevo allo stesso tipo di mondo che ha ucciso sua figlia — dice a Marisa — e per questo anche se non sono stato io mi sento colpevole anche per lei, e le chiedo scusa». Così tanti altri ancora.

Marisa dice che «ai processi, dove ho fatto l’errore di non costituirmi parte civile, non ho mai chiesto una vendetta ma la verità». E si capisce che questo sarebbe un altro, lungo, discorso su quel che chi sta in carcere per mafia potrebbe raccontare dopo avere chiesto scusa. Ma non è questo il senso dell’incontro di oggi. Che finisce così: «Non finiamola qui».

10 settembre 2016

Noi, oggi, in cerca di senso

Alberto Marcheselli

Il Gruppo della Trasgressione è composto da detenuti e studenti (solitamente di psicologia) che si incontrano settimanalmente e che si confrontano su diversi temi: filosofia, arte, psicologia, tossicodipendenza, devianza, vita. Un gruppo solitamente attraversato dai malesseri e dai problemi di tutti i membri, che però di queste inquietudini e problematiche cerca di fare un punto di forza, un fulcro su cui azionare la leva della comprensione.

Gli incontri procedono secondo uno stile singolare, dovuto all’ideatore del gruppo, che da circa 35 anni lavora in carcere e che da circa 20 lo conduce. Egli si presenta all’inizio di ogni incontro parlando in maniera libera e, apparentemente, senza un collegamento con i temi del gruppo, ma ogni volta il discorso centra concetti e problematiche tali e raggiunge toni così profondi da diventare filosofia (gratis).

Il resto viene da sé, le persone iniziano a parlare, qualcuno interviene con l’umanità e la fisicità di quello che dice, con la ricchezza che arriva dall’esperienza e dalla tragicità di certe vite; qualcun altro è più amico delle parole e si esprime in modo chiaro e corretto, gli studenti si uniscono ai detenuti, i detenuti agli altri detenuti, ognuno in mostra con le sue debolezze e fragilità, ma anche con il carattere e la rabbia che ne fanno ciò che è.

Di sicuro non è il posto dove passare qualche ora di svago: ci vuole pazienza, costa fatica, ci si innervosisce, qualche volta aiuta a stare bene, spesso a stare male. Perché? Perché è un posto in cui si crea pensiero e il pensiero, si sa, non sempre regala l’immagine di sé che si desidera.

Il confronto con se stessi genera conflitto e il conflitto malessere, eppure non conosciamo miglior metodo per emanciparsi dal passato, per emergere dal proprio background, crediamo che al Gruppo della Trasgressione si vivano dei rapporti autenticamente orientati verso l’evoluzione della persona e si raggiungano livelli di consapevolezza veramente unici.

La nota dolente è che il gruppo è troppo subordinato al suo ideatore, tanto che è difficile immaginarlo senza la sua guida, almeno non nella forma attuale e che tanto ci piace. Se il dott. Aparo non trova il modo di farsi clonare, speriamo che qualcuno abbia voglia e modo di imparare come seguirne la traccia.

 

Lo schiavo

Anonimo

La schiavitù ha origini antichissime, credo si possa dire nasca con l’uomo, da sempre desideroso di dominare sui suoi simili, detenere il potere di vita o di morte sui più deboli.

Oggigiorno le cose non sono poi cambiate di molto, esiste lo schiavismo post-moderno, forse ancor più cruento di allora. L’immagine dello schiavo usata dal dott. Aparo quindi appare del tutto appropriata e bene rappresenta il detenuto, o alcuni di essi, che annaspano per liberarsi da quelle catene. Altri lo restano per sempre.

Liberarsi da tale fardello non è per niente semplice, significa, a mio modesto parere, iniziare a liberarsi dagli atteggiamenti e pensieri da detenuto, dagli stereotipi che ci si è creati, dalle abitudini… Tutto ciò, rappresenta delle serie difficoltà da superare, la vera prigione di cui liberarsi: quella che ci siamo costruiti addosso. Ecco perché la definizione di “schiavo” è adeguata, così come possiamo credere al desiderio in ognuno di noi di rivoluzionare la propria vita, di migliorarla.

La rivoluzione parte da qui! Sono memore della mia personale esperienza, ove con grandi sacrifici, ero riuscito a liberarmi del mio passato, attuando queste semplici regole. Mi sono messo in gioco inventandomi un mestiere; ho progettato e messo in opera il mio primo locale e poi un altro ancora. Ho messo su famiglia, dei figli, una casa… frutto di un duro lavoro, non più di ricavati illeciti. Nessuno mai, me compreso, avrebbe potuto immaginare tale successo, perché di questo si trattava. Ero fiero di mostrare al mondo ciò che mi apparteneva e che mi ero guadagnato senza mediocri espedienti. E così sono riuscito a rivoluzionare la mia vita e di conseguenza quella di chi mi stava vicino.

Qualcuno dirà: “ma oggi sei ancora qui!” Purtroppo è vero, è accaduto qualcosa che non potevo prevedere: inciampare nel buio della depressione e giungere al declino, anche fisico, oltre a quello mentale, cercando rimedio nelle sostanze, nell’alcol e infine, nuovamente, nella più temuta e la più amata, la cocaina, ritrovandomi, un’altra volta, catapultato tra queste mura che con tanta fatica avevo dimenticato.

Che cosa voglio dimostrare con questo? Che l’inciampo evidentemente non è solo relegato all’illegalità ma riguarda a 360 gradi l’intera persona. Qualora sorgessero delle difficoltà, anche le più banali, bisognerebbe avere il coraggio di chiedere aiuto e non pensare di poter risolvere da soli e attendere ciò che facilmente diventa il principio della fine.

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Una giornata particolare

Pasquale Fraietta

Oggi, in questo giorno particolare, ho finalmente l’opportunità di parlare con voi, in modo nuovo, mie care Maria Sole, Marianna e Serena. Vi ho lasciate così piccole che forse non avete ricordo di quel tempo: tu Serena non parlavi neanche, e tu Marianna lo facevi appena. Mentre tu, Maria Sole, hai un ricordo che mi fa pesare la mia inadeguatezza come papà, in quanto è legato a uno schiaffo ricevuto quando non avevi ancora 5 anni, perché in una giornata distratta vi avevo perse e non riuscivo più a trovarvi. La reazione istintiva al mio spavento è stata quella di darti uno schiaffo, forse quell’istinto acquisito nella mia infanzia, forse quello stesso che ha contribuito a farmi divenire quel che sono stato e che in parte sono ancora adesso. Non lo so! So solo che oramai, il fatto che Papà si trova in carcere, lo sapete da quando avete cominciato a sapere che dopo la notte arriva il giorno.

La Mamma ed io, abbiamo cercato di proteggervi dalla verità, pensando comunque di fare il vostro bene, forse in realtà quel che ci spaventava maggiormente è la responsabilità di gestire e amministrare questa verità. Tuttavia non possiamo impedire il naturale scorrere del tempo, per cui avete saputo anche il motivo per quale Papà si trova in carcere. Perché in una giornata maledetta ha tolto la vita ad una persona, e con essa, i suoi sogni, la sua esistenza e la gioia dei suoi cari. Ma quel che irrimediabilmente è successo, mie care bambine, è stata, purtroppo, la conseguenza di una cultura e un’educazione deviata fatta di riferimenti e guide sbagliate, che hanno portato inevitabilmente a delle scelte, forse inconsapevoli, ma dannatamente brutte e sbagliate.

Ma oggi sono qui con tutti i miei compagni del Gruppo della Trasgressione, a vivere una giornata particolare e forse anche speciale, una giornata in cui posso dirvi che il vostro papà si sta sforzando di ritrovare le guide e i riferimenti che orientano al bene, per raccontarvi che qui nel carcere e nelle scuole ci confrontiamo con tantissimi studenti che hanno solo qualche anno più di voi, proprio su quelle culture, quella educazione e quelle guide sbagliate. In un certo senso, ho la sensazione di vedere voi, fra qualche anno, forse in scuole diverse, ma con la medesima espressione negli occhi, gli stessi sogni, le stesse fragilità e insicurezze di tutti gli adolescenti.

Infine, mie amatissime, voglio dirvi che, se attualmente non posso essere presente alla vostra crescita, e in generale alla vostra vita, il mio desiderio sarebbe quello di farvi partecipare il più possibile alla mia vita di detenuto che si sta rivedendo e che vuole diventare una persona consapevole, un Papà presente e responsabile, attraverso l’insostituibile laboratorio di riflessione del Gruppo della Trasgressione, che mi fornisce gli strumenti necessari per praticare il piacere della consapevolezza e della responsabilità a tutti i livelli.

Il mio desiderio è di accompagnare il più possibile la vostra crescita e di consegnare a voi la mia crescita affinché un giorno nelle aule scolastiche e in generale nella vostra vita non dobbiate solo vergognarvi del vostro papà, ma possiate, con orgoglio raccontare come il vostro Papà sia riemerso dall’abisso del male alla luce della responsabilità. Come dice De Andrè «dai diamanti non nasce nulla e dal letame invece, possono nascere i fiori».

Vi amo tantissimo mie care e grazie a tutti voi del Gruppo della Trasgressione per averci regalato questa insolita, giornata particolare che promuove l’inclusione nel nostro percorso con i nostri figli e familiari. Grazie!

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Non è mai troppo tardi

Pasquale Trubia

Comincio proprio con questa affermazione, non è mai troppo tardi per riappropriarsi della propria vita, della propria dignità di padre, di marito. Non è mai troppo tardi per quella mia rivoluzione umana che mi consente di godere della mia vera identità. Non è mai troppo tardi per sfatare quel luogo comune che vuole che il figlio necessariamente debba emulare il padre.

Questa giornata avrei voluto viverla con la presenza anche di mio figlio, per sentire insieme con lui parte di quelle emozioni che purtroppo, a causa di una mia condotta morale votata al male e al delirio d’onnipotenza, sono mancate per troppo tempo. La mia esistenza, fin da quando ero poco più che un ragazzo, è stata costellata di violenza e turbamenti, provocando dolore immane a tante persone e a tutta la mia famiglia e, in particolare, al mio unico figlio, privandolo fin dalla nascita di suo padre.

Conoscendo l’ambiente dove sono nato, ho cercato in tutti i modi di farlo allontanare da quel contesto che inquina le menti e distrugge i sogni dei giovani, rendendoli prigionieri dell’ignoranza. Ho cercato in tutti i modi (compatibilmente alle condizioni economiche familiari) di farlo allontanare da Gela il mio giovane e unico figlio, ma nonostante gli innumerevoli sforzi attraverso le lettere, considerata la lontananza delle varie carceri dove mi trovavo recluso, non sono riuscito ad esercitare minimamente la funzione paterna, e ora si trova poco più che ventenne in carcere.

Ricordo che mancavano pochi mesi affinché conseguisse la qualifica di metalmeccanico, quando lo convinsi di trasferirsi nella città di Parma. In quel periodo mi trovavo recluso nel carcere di Parma. Avevo conosciuto un volontario che si era adoperato per inserirlo come apprendista (ancora diciassettenne) in un’azienda. Alloggiava in una residenza gestita dalle suore salesiane. Ha lavorato lì per circa un anno, poi purtroppo la crisi economica che attraversa tutto il paese da diversi anni ha compromesso anche la sua assunzione a tempo indeterminato. Sicché, non potendo far fronte alle spese per l’alloggio e il vitto (se pur economico) è stato costretto a rientrare a Gela.

Come un segno di un destino avverso, mi ritrovo mio figlio in carcere, accusato di associazione mafiosa perché prestava la sua macchina allo zio (sorvegliato speciale) o perché lo accompagnava in qualche posto, essendo lo zio privo della patente di guida. Nonostante io abbia ormai la consapevolezza che si perde la libertà a causa delle proprie debolezze, non posso fare a meno di pensare che le sue responsabilità non sono tali da giustificare l’estrema ratio della custodia cautelare per un giovane ventenne, catapultandolo nel mare più profondo, in balia delle seduzioni e delle tentazioni. Forse era sufficiente un ammonimento o forse ancora un procedimento a piede libero.

Il mio rammarico più grande è quello di non essere stato nelle condizioni di trasmettere a mio figlio questa mia sorta di “rinascita”, questa sorta di rivoluzione che sto vivendo nell’acquisire valori morali nuovi, finora del tutto sconosciuti, che mi consentono di vivere il presente aspirando al domani per me, mio figlio e mia moglie, nonostante il mio fine pena mai.

Mi dispiace che oggi non ci sia anche lui ad ascoltare suo padre, a vederlo nella sua vera identità, e non per quella che, scelleratamente, si era costruito fin da giovanissimo, per arrivare poi al nulla. Concludo ringraziando tutti e, se oggi sono qui con voi tutti del Gruppo della Trasgressione, qualcosa mi dice che non è mai troppo tardi.

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Il bivio

Marcello Cicconi

I bambini quando nascono sono tutti uguali, non hanno la consapevolezza di ciò che la vita futura potrà riservare. Ogni soggetto nasce in un determinato contesto famigliare, di conseguenza si forma acquisendo valori e improntandosi ad essi. Quando il contesto famigliare viene meno, l’ambiente in cui cresciamo è fondamentale, può formarci nel miglior dei modi o nel peggiore! Beh, io sono uno dei tanti che è cresciuto nel peggiore dei modi.

Oggi non sono più un bambino, bensì un uomo consapevole che quel bambino aveva mille difficoltà da combattere e la necessità di affrontarle. Mi sono indebitato col futuro nell’illusione di poter pagare i debiti del passato. Il mio comportamento mi ha portato ad avere tutto ma anche a perdere tutto. Ho perso molte battaglie lasciando quel bambino inerme sull’asfalto. Il tempo è passato lasciando sul mio corpo i segni dell’età e il ricordo di quel bambino abbandonato.

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Area verde, anno zero

Adriano Sannino

In occasione dell’incontro che il Gruppo della Trasgressione terrà, insieme ai nostri figli e familiari, il giorno 29 giugno 2016 presso l’area verde colloqui del carcere di Opera, mi farebbe piacere parlare della mia storia, o meglio, di cosa mi ha indotto a farmi perdere la libertà, cosa fa il gruppo nelle scuole e allo stesso tempo cosa ha dato a me.

Nell’ultimo incontro del “Mito di Sisifo”, il prof. Aparo, ha voluto che io provassi a recitare la parte di Thanatos (la morte). Thanatos nel mito è colei che procura la morte agli altri, o meglio Ade le dice di svolgere la sua funzione “uccidendo” le persone. Il personaggio di Thanatos mi ha portato indietro nel tempo quando svolgevo il ruolo del killer per un’organizzazione camorristica. Questo personaggio ha fatto sì che dentro di me si risvegliassero le emozioni di un tempo, per cui mi sono trovato in difficoltà a interpretare quel ruolo. Ho sentito il peso e il dolore che ho inflitto alle persone della mia famiglia, alla società e alle tante famiglie che per colpa mia non hanno più il loro congiunto.

Il nostro gruppo, come dicevo, va nelle scuole per fare prevenzione contro bullismo, tossicodipendenza, abuso e la devianza. Quando mi trovo davanti ai giovani, oltre a parlare a loro, parlo anche a me stesso, cioè al ragazzo che sta in me. Inoltre, nei volti dei ragazzi, vedo l’immagine dei miei nipoti, per cui parlo con gli studenti a cuore aperto e senza filtri. Sono felice se i ragazzi riflettono su quanto sia bello stare insieme con gli altri, su quanto sia bella la vita e quanto sia importante accettare le proprie fragilità, in quanto al mondo nessuno è perfetto.

Nelle scuole porto la mia testimonianza e ciò mi procura benessere, perché mi sento utile e apprezzato. Inoltre il pensiero che qualche ragazzo possa riflettere ascoltando la mia storia mi fa gioire, dà un senso alla mia vita e mi stimola a continuare nel percorso di miglioramento di me stesso.

Io ero un pezzo di legno imperfetto, poi mastro Geppetto con le sue competenze e con il suo modo di fare è riuscito a valorizzarmi fino al punto da farmi sentire importante. Questo ha fatto sì che, oltre a prendere sicurezza in me stesso, sono riuscito col tempo a esprimere le mie emozioni, invece di soffocarle come facevo prima. Imperfetto lo sono sempre ma, grazie al gruppo, ho capito che le imperfezioni non sono sempre negative, anzi, sono un valore aggiunto per chi le sa valorizzare.

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