Indagine sull’autorità

INDAGINE SULL’AUTORITÀ
Scuola media Via Aldo Moro di Buccinasco
Report di Alessandra Messa

Abbiamo programmato con questa scuola 3 incontri (16/2, 1/3, 17/3 ).
Nell’incontro con i professori abbiamo delineato come argomento principe: il concetto di Autorità, la sua fruibilità e credibilità.
Fra le domande centrali: A cosa serve l’autorità per il ragazzo?
Abbiamo pensato a un mini-percorso da seguire in questi 3 incontri:

  1. SISIFO: tutti gli aspetti problematici dell’autorità;
  2. AUTORITÀ: credibilità/fruibilità. Immagine attuale e quale può diventare (costruzione dell’identità);
  3. DA AUTORITÀ CHE CONTROLLA AD AUTORITÀ CHE SOSTIENE: autorità-guida.

 

PRIMO INCONTRO

Nel primo incontro abbiamo rappresentato il mito di Sisifo, facendo particolare attenzione ai rapporti di potere sottesi. A fine rappresentazione abbiamo iniziato il dibattito con gli studenti.

La domanda centrale posta dal dottor Aparo è stata: Come possiamo disegnare l’immagine dell’autorità di chi commette reati e quella che ne ha il ragazzino? E in che modo queste diverse immagini di autorità danno esito a vite diverse?

Ne è nato come sempre un dibattito sul tema, che ha visto interagire studenti e detenuti.

E’ stato chiesto agli studenti di fare un’analisi dei personaggi di Sisifo e del loro modo di relazionarsi al concetto di autorità.

Il personaggio rimasto più impresso fra i ragazzi è stato Asopo, considerato eccessivamente debole e sottomesso a Giove e quindi incapace di mostrare la sua autorità. Giove invece è stato riconosciuto come autoritario, ma egocentrico, incapace di ascoltare gli altri.

Ecco l’immagine che ne hanno ricavato i ragazzi:

  • Giove: folle, autoritario
  • Asopo: autorità debole e corrotta
  • Ade: autorità sottomessa
  • Thanatos: agli ordini di Giove

Dopo una breve disamina dei personaggi, è stato chiesto ai ragazzi se la loro immagine di autorità fosse sovrapponibile a quella del mito. Qual è la prima immagine dell’autorità che vi viene in mente?

Gli studenti hanno detto: vicepreside, preside, polizia e carabinieri, professori, i genitori, la forestale.

Un ragazzo: le persone che esercitano potere su qualcuno facendo rispettare le regole dalla comunità.

Anche i detenuti sono intervenuti sul tema esprimendo la loro opinione:

Rosario: I genitori dovrebbero essere la prima guida e autorità. Io però alla vostra età queste regole non le sapevo, le autorità erano solo dei nemici. A 14 anni ero già in mezzo alla strada e da lì mi sono costruito la mia gabbia per finire in carcere tutta una vita. Non avevo nessuno che mi indicasse cosa è giusto e cosa è sbagliato, avevo guide diverse.

Nicola: Ho avuto un pessimo rapporto con l’autorità; sono finito nel carcere minorile Beccaria poco dopo la vostra età. Ho squalificato fin da subito le autorità in casa, perchè con loro non c’era alcun dialogo. Senza una guida mi sono perso.

Roberto: Non ho avuto la possibilità di riconoscere una guida nei miei genitori, nemmeno da bambino e ragazzino. Se non hai in casa un punto di riferimento lo cerchi fuori, e se ti va bene sei fortunato, altrimenti può andare male come è successo a me.

Paolo: I miei genitori mi davano solo comandi. Cosi cercavo degli esempi esterni, nei film per esempio era qualche attore. Non ho mai preso in considerazione ciò che mi dicevano i miei genitori. Facevo cazzate in giro con gli amici e non riuscivo a capire l’importanza di vivere il percorso ancor più del traguardo.

Confrontando il diverso concetto di autorità espresso da detenuti e studenti, sono stati raccolti dei fogli scritti a mano. A grandi linee:

  • per i ragazzi l’autorità è: chi ti fa star bene, chi ti insegna qualcosa, chi può essere identificato come una guida;
  • per i detenuti l’autorità è: assente, impone regole, impedisce di essere se stessi

Il dottor Aparo chiede ai detenuti se ci sia stato uno spostamento nel modo di concepire l’autorità, negli ultimi 30 anni.

Mario: Non ho bei ricordi della mia infanzia, sono andato in collegio presto e non ho mai riconosciuto nessuno come autorità. Oggi invece la vedo diversamente.

Giuseppe: Tutti hanno parlato di Asopo come un di debole, ma lui è egoista. I miei genitori non parlavano con me; a 9 anni ho rubato in casa e mi hanno picchiato di santa ragione, senza però capire perché lo avessi fatto. Per me quel modello è diventato la normalità, ho fatto la stessa cosa con mia figlia, le davo soldi rubando. In carcere ho iniziato a riflettere. Ho iniziato a riconoscere la mia famiglia e ho capito di avere inconsciamente rancore verso l’autorità. Quando riconosci il rancore, riconosci i valori che avevi nascosto e inizi a ricercare il dialogo con la tua famiglia. Inizi anche a riconoscere le istituzioni.

Antonio: A 14 anni ero io la mia autorità, non credevo in nessuno. L’evoluzione c’è stata quando è nato mio figlio e l’ho lasciato a 15 mesi. Con il colloquio settimanale di due ore, in carcere, ho calcolato di averlo visto in totale 2 giorni e 8 ore in un anno. Ho iniziato ad avere il senso di colpa per aver perso tutto. L’autorità per me, oggi, significa credere in qualcuno; e ora io credo in me stesso e negli altri. L’autorità è anche crescere insieme e far crescere, come sto facendo con mio figlio.

 

SECONDO INCONTRO

Nel secondo incontro si è parlato del concetto di limite. Il resoconto della giornata è nel testo Trasgressioni e conquiste (Il lavoro sul limite è stato continuato anche con il Villoresi di Monza).

 

TERZO INCONTRO

Nel terzo e ultimo incontro abbiamo ascoltato i lavori che gli studenti avevano elaborato in classe. Ogni classe ha analizzato il concetto di autorità attraverso un’opera letteraria o un film.

  • Rapporto padre-figlio, ”Lettera al padre” di Franz Kafka
  • La ricerca della guida, il rapporto tra ragazzi e adulti,
    “I quattrocento colpi” di François Truffault
  • Guide e adolescenti. I modelli e la realtà. ”Class enemy” di Rok Bicek
  • ”Nessun uomo è un’isola” di John Donne
  • Autorità e limiti

 

Finita l’esposizione dei lavori fatti in classe, il dottor Aparo ha posto qualche domanda: A voi (detenuti), rispetto a questi ragazzi che espongono i loro lavori, cosa manca per interagire con l’autorità? Quali caratteristiche deve avere un adolescente per essere guidato al meglio?

Ivano: Da adolescente non ascoltavo, ero ribelle, sordo e cieco. Quando sono desideroso di apprendere mi sento un buon adolescente. L’autorità deve essere equilibrata, propensa all’ascolto. Si può fare qualcosa di serio solo se la si fa insieme.

Mario: Per essere un buon allievo bisogna essere disposti a credere nell’autorità. Loro sanno ascoltare, vedere le cose; io mi sto nutrendo da voi ragazzi e spero di trasmetterlo a mio figlio, quindi vi ringrazio.

Rosario: Vorrei tornare bambino per essere un’anima pura. Avrei voluto guide come voi, ragazzi.

Roberto: Da giovane mi è stata fatta abortire la possibilità di interrogarmi. Io ho iniziato a interrogarmi a 30 anni. Non abbiate paura di porre domande, perché un dovere dell’autorità è rispondere, altrimenti andrete a cercare le risposte altrove.

Massimo: Bisogna avere coscienza del futuro; io non guardavo più in là di un anno dal mio naso.

Mohamed: Da quando avevo 6 anni ho interpretato la parte del più forte, e non mi sono più liberato da questa immagine. E’ per questo che ho fatto solo reati di violenza.

Concludiamo la giornata con una frase di uno studente: Ognuno ha un odio dentro di sé. Una buona guida ti aiuta a utilizzarlo meglio di quanto possa fare da solo.

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Chi ha rubato il mio quadro?

Chi ha rubato il mio quadro?
Gabriele Rossi

È come avere di fronte un quadro dipinto tutto di bianco. Un pittore direbbe che quello è l’inizio della sua opera d’arte, i colori risaltano meglio se come sfondo c’è il bianco, ma non siamo pittori e l’arte non è il nostro obiettivo.

L’autorità nella mia testa deve ancora essere dipinta, rappresentata, perché? Perché tutto quel bianco al posto di un’immagine anche poco definita? Perché riconosco possibile l’autorità nell’immagine che mi viene data da altri o dalla logica del comune sapere e non ne ho una nella mia testa, come ad esempio l’immagine del padre, di un vigile, del poliziotto di confine, del buon vecchio nonno in divisa da carabiniere? Perché io quell’immagine non ce l’ho? Chi ha rubato il mio quadro?

Sento che non mi basta riconoscerla senza davvero sentirla, in questo modo c’è, non c’è, insomma vacilla. Credo sia fondamentale avere (o riavere) il mio quadro, e a quel ladro che me l’ha portato via dico che se lo può tenere, purché a lui possa servire almeno quanto servirebbe a me ora.

Quell’immagine la voglio scolpita nelle pareti del mio cervello, accanto alla morale, ai desideri di far bene, alla voglia di riscatto e a quel sofferto e tardivo sapere che nella vita quel quadro è troppo importante.

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Il potere del sacro

L’uomo è da sempre e comunque alla ricerca del potere, anche se lo nega. La ricerca del potere si manifesta in molti modi, alcuni appariscenti, altri subdoli, alcuni consapevoli, altri inconsci.

Ma anche la costruzione dell’identità passa attraverso l’esercizio riconosciuto del potere e penso che la negazione di tale diritto sia una delle maggiori cause di destabilizzazione della personalità. Quando parlo di esercizio del potere naturalmente intendo esercizio di un potere legittimo.

La prima forma di potere legittimo spettante a ogni individuo è il diritto di esistere. Tralascio le più gravi limitazioni di tale diritto, come la mancanza di cibo, di spazio vitale, di cure parentali che garantiscano il passaggio dalla nascita alla prima infanzia, non perché risolte ma perché evidenti. Mi occupo delle altre.

Come e quando un uomo ha la prova di esistere? Quando può pensare, decidere, progettare, agire. Se non lo può fare (perché non ne ha la capacità o perché gli è impedito) o ha la percezione di non poterlo fare, reagisce. La reazione è tanto più violenta e animalesca quanto più forte è la sensazione d’impotenza, quanto più a lungo è stata subita senza che le venisse data una possibilità d’espressione.

E questo dell’espressione è un nodo cruciale. L’espressione è la manifestazione di ciò che un individuo pensa, sente, fa e avviene generalmente attraverso la comunicazione. Tanti sono i canali possibili: verbale, corporea, emozionale, scritta, figurativa, musicale.

Se la comunicazione non funziona, se il messaggio lanciato dall’uomo con la postura del suo corpo, con l’espressione dei suoi occhi, con le parole dette, con le parole taciute, non viene percepito, ascoltato, capito, tale uomo non esiste. Se tale situazione non è sporadica ma sistematica può costituire il prodromo di una reazione, per gli altri, insensata. In realtà è la reazione di chi esiste e pretende che tale esistenza venga riconosciuta. L’uomo esiste se lascia un segno. Se non gli sarà consentito di lasciare un segno umano ne lascerà uno bestiale. Lasciare un segno è, più o meno consapevolmente, un bisogno di tutti. L’adesione alla criminalità e alla tossicodipendenza sono, secondo me, i segni bestiali lasciati da chi non riesce a lasciarne altri, o così crede.

Dove ha origine il senso d’impotenza che poi dà luogo a tutto ciò? A mio parere l’impotenza, reale o percepita, trae origine nel rapporto falsato o mancato con l’autorità. Per questo si delinque, per questo ci si droga. L’autorità che non ha saputo farsi autorevole e dunque amorevole merita di essere punita.

Questo scritto non propone certo una chiave di lettura esaustiva, considera solo alcuni comportamenti, non tutti.

Ci sono anche altre dinamiche che possono portare a un comportamento violento, dinamiche più sotterranee che vengono da molto lontano nel tempo, da comportamenti ancestrali di cui si è persa memoria.

L’uomo ha bisogno di trovare un senso per la sua vita, per le sue azioni, per ciò che capita a lui o alla realtà in cui vive. Talvolta la scienza e la razionalità, con i loro contributi importanti e irrinunciabili, non bastano a darglielo. Così l’uomo va alla ricerca di spiegazioni che vengano da un oltre mondo, che esprimano una realtà non solo immanente ma trascendente. E questo è sempre accaduto.

L’uomo dei primordi, ma ancor oggi l’uomo appartenente a società primitive rimaste a un livello primordiale, era in contatto col sacro. Si spiegava la realtà come il risultato della lotta tra le forze del bene e le forze del male. Il bene, spesso conficcando un palo negli occhi del demone che lo contrastava, lo vinceva e dava origine al creato, spargendo all’intorno il corpo smembrato del demone. E allora ecco che l’uomo, a immagine della divinità, conficcava il palo nel terreno, eleggendo a sacro il territorio dove stabilire la propria dimora e differenziandolo dall’altro. La tenda drappeggiata intorno al palo, che gli avrebbe fornito la necessaria protezione dagli elementi, altro non era che una porzione della volta celeste. Poi sacrificava una vittima, ne smembrava il corpo, ne gettava le parti all’intorno e l’area così circoscritta si configurava come il recinto sacro in cui ospitare altre tende, originando in tal modo una comunità.

“La tossicodipendenza è un altare su cui si sacrifica tutto ciò che non piace.” ho sentito dire a un detenuto tossicodipendente.

E ancora: nella strada della crescita il bambino spesso elegge uno degli oggetti che lo circondano a oggetto transizionale. Lo porta con sé, gli attribuisce il potere di infondergli sicurezza, quanto basta per tollerare di perdere di vista la madre e avventurarsi alla scoperta del mondo circostante. Tale oggetto emana energia positiva, lo aiuta a transitare verso il mondo. Talvolta, però, succede che un bambino, per motivi emozionali profondi e piuttosto oscuri, faccia di tale oggetto un feticcio, credendo che esso lo protegga ma solo a condizione di tributargli degli omaggi, in termini di beni materiali o di comportamenti. Il feticcio, così, invece di dare energia al bambino, gliela toglie, pretendendo da lui dei sacrifici.

Ma cos’è un sacrificio? Un rito che, uccidendola, rende sacra la vittima. La vittima è sacra in quanto subisce il sacrificio, senza sarebbe viva ma senza valore. Dunque nel gesto del sacrificio è insita una violenza che lo rende possibile e che trae da ciò legittimazione. Sacro e violenza sono uniti in un legame fondante e indissolubile.

L’uomo dei primordi compiva sacrifici per soddisfare il suo bisogno del sacro e ha continuato a compierli. Man mano i costumi si sono fatti più evoluti, i sacrifici meno cruenti, il legame col sacro meno tenace. La cultura da sacra si è fatta profana, l’uomo ha smesso di manifestare il suo legame col sacro, il suo bisogno di sacralità, ma non ha smesso di averlo e non ha smesso di essere violento.

La violenza collegata col rito, con la sua legittimità ma anche con il suo limite, non è scomparsa, si è trasformata in violenza surrettizia. L’uomo ha creduto di poter fare a meno di Dio, ma forse, se non può conficcare un palo nel terreno per rendere speciale lo spazio scelto per sua dimora, conficcherà il palo nel cuore di un altro uomo, anche senza motivo, perché nella sua ricerca di senso tale gesto gli consentirà di lasciare un segno.

Riti profani stanno prendendo il posto dei riti religiosi di un tempo. Non esistono più riti di iniziazione nella società occidentale evoluta, ma il fumare, il tatuarsi il corpo, il piercing, l’assunzione di sostanze, la perdita della verginità in senso proprio o allargato alla perdita dell’innocenza sessuale, l’adesione a confraternite o ad associazioni criminali non sono forse rituali sostitutivi?

Il rituale costituisce un modo per fronteggiare, risolvendolo sul piano simbolico, quelle contraddizioni insite nei rapporti sociali che non possono essere risolte in altro modo. Nell’impossibilità di rimuovere una contraddizione, essa viene proiettata sul piano dell’immaginario e “risolta” in modo illusorio attraverso il simbolismo rituale.

Forse dovremmo impegnarci nel trovare rituali sani, che pur se in modo simbolico aiutino l’uomo e la società, entrambi imperfetti, a vivere meglio, a portare a livello cosciente e ad esprimere i loro bisogni.

E così ritorniamo al nodo dell’espressione!

Ho sentito più volte i detenuti dire che si sono sentiti inadeguati, incapaci di fronteggiare l’incalzare del divenire, impotenti di fronte al cambiamento.

Se mi mancasse qui un labbro superiore, là il padiglione di un orecchio… ciò non sarebbe ancora un sufficiente contrappeso alla mia imperfezione interiore”. Queste parole appartengono a Kafka. Egli si considerava un’assenza, una lacuna, una buca che qualcuno aveva scavato. Fu ossessionato dal corpo che avvertiva come un ostacolo, e come estraneo; sentiva in sé un animale, aveva orrore di molti animali perché avvertiva in sé la belva potenziale che aspettava si rivelasse all’improvviso, facendolo scendere sotto il livello umano, nell’oscurità sotto la coscienza.

Ma Kafka non si è drogato né ha commesso violenza. Ha invece scritto, dato vita alla più potente forma di straniamento mai espressa dalla narrativa. Lo scarafaggio che Gregor diventa non perde completamente la sua umanità. Preferisce lasciarsi uccidere e morire da figlio che fuggire da insetto.

Si sacrifica!

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Quell’essere un po’ ribelli

All’inizio non era tossicodipendenza, ma quell’essere un po’ ribelli
Maurizio Chianese

Con questo scritto vorrei ricercare la mia vita partendo dall’infanzia. Ho due ragioni per farlo: la prima è ricostruire e poi condividere la mia storia; la seconda è trovare delle situazioni comuni, azioni e comportamenti che ci hanno portato qui in carcere, e non oltre. Inizio partendo dall’infanzia perché, sono d’accordo con Ivan, è proprio da qui che tutto inizia: non la mia tossicodipendenza ma semplicemente quell’essere un po’ ribelli. Sono nato nel 1975, da padre italiano e da madre africana, quello che mi appresto a narrare non è un ricordo ma il racconto che mi fece mio padre un po’ di anni fa.

Quando sono nato mio padre non mi riconobbe subito, infatti da piccolo portavo il cognome di mia madre. Lei lavorava come domestica presso una famiglia benestante e la mia nascita causò dei problemi perché non poteva lavorare e contemporaneamente seguirmi. Così, s’intromisero gli assistenti sociali che, senza giri di parole, dissero a mia madre che, essendo lei straniera e ragazza madre, non poteva da sola prendersi cura di me… ma c’era la possibilità di darmi in adozione essendoci già una famiglia disposta ad adottarmi…

Fu allora che mio padre mi riconobbe come suo figlio, presi il suo cognome e con qualche difficoltà venni affidato ai nonni paterni. Avevo un paio d’anni, andai con i nonni e stetti con loro fino a 5, in questo tempo mia madre e mio padre si trasferirono a Sesto San Giovanni, dove presero in gestione un bar. Assieme agli assistenti sociali del comune riuscirono ad ottenere il mio affidamento, però non tornai a vivere con loro ma venni spedito in collegio, dove trascorsi 5 anni: uno di asilo e 4 di elementari.

Nel periodo scolastico, da settembre a giugno, stavo in collegio a Rota d’Imagna in provincia di Bergamo e l’estate a Marina di Bibbona in Toscana. Mia madre e mio padre li vedevo una volta al mese, inoltre, finito l’anno scolastico, trascorrevo una decina di giorni con loro e altrettanti quando tornavo dalla colonia estiva.

Fu in collegio il mio primo campanello d’allarme, vi erano bambini della mia età e bambini più grandi. lo trovavo più piacere a stare con i più grandi che si divertivano e facevano scherzi alle suore. Un giorno feci la mia prima marachella, il collegio si trovava in cima ad una montagna e al confine del campo di calcio c’era una vallata con una piccola fattoria. Un giorno, mentre si giocava, il pallone finì nella vallata; con la scusa di andare a prendere il pallone, raggiungemmo la fattoria dove io presi una gallina, la portai in collegio e la liberai dentro al camerone. Feci impazzire le suore che sudarono sette camicie per poterla acchiappare. Ora, in quel momento non pensai minimamente di aver commesso un reato, ma oggi mi rendo conto che ero già propenso a non rispettare le regole.

Un giorno decisi con alcuni compagni della colonia di fuggire per raggiungere il luna-park, dopo cena io e altri 4 compagni prendemmo la strada verso la spiaggia per raggiungere il luna-park. Quella sera non la dimenticherò mai, mentre noi ci divertivamo, dalla colonia era stata avvisata la polizia che aveva iniziato le nostre ricerche. Ci trovarono parecchie ore dopo, capii subito che ci avrebbero messo in punizione, difatti il direttore ci proibì di svolgere ogni attività per una settimana e ci impose di pulire la colonia sotto la guida di un educatore.

Mentre mi trovavo in collegio, i miei genitori avevano ottenuto una casa dal comune e così furono in grado di far venire i miei fratelli, figli di mia madre, in Italia. Il fatto di incontrarli fu una gioia ma, nonostante i miei lavorassero, i soldi bastavano a malapena per vestirci e mangiare. I pochi giochi che avevamo erano doni di famiglie che non li utilizzavano più. Di regali in casa, non parliamone nemmeno.

Mi ricordo che un Natale chiesi una bicicletta, mio padre mi disse che l’avrebbero portata non appena finito di costruirla. A ogni compleanno o Natale che passava io chiedevo della bicicletta e lui ogni volta rispondeva che la stavano costruendo. Un giorno l’occasione mi fece ladro, vidi una bella bici da cross fuori da un panificio, era slegata, così la presi e scappai.

Avevo fatto un furto, ne ero consapevole, ma avevo la bicicletta tanto sognata, avevo circa 12 anni ed ero contento perché finalmente avevo la bici che avevano tutti. E così iniziò la mia escalation di reati, non avendo i soldi per comprarmi le cose, iniziai a rubare e nel giro di qualche anno in compagnia ebbi il primo incontro con la droga. Era hashish, iniziai con una canna e una birra nei giardinetti sotto casa, ne fui sedotto e conquistato subito, mi piaceva e così è stato facile per me sperimentare altre droghe, arrivando alla cocaina, che all’inizio quando ancora non era un abuso, mi faceva stare bene, riuscivo più facilmente a non essere timido, a conoscere ragazze, avevo più coraggio ad affrontare dei rischi e la consumavo solo il fine settimana quando si andava per locali e discoteche.

Il bisogno di soldi aumentava e di conseguenza i furti divennero rapine. A casa dei miei tornavo di rado, li chiamavo al telefono e inventavo scuse per rimanere fuori… fino a quando ci fu il mio primo arresto. Avevo rapinato un ragazzo, ma in pochi minuti mi sono trovato circondato dai poliziotti. Arrivato in questura, avvisarono subito mio padre, avevo 16 anni quindi ormai grande abbastanza per essere processato e condannato, feci 15 giorni al centro di prima accoglienza del carcere minorile “Beccaria” e poi venni mandato a casa con la condizionale di 1 anno e 8 mesi. Oramai avevo la fedina penale sporca, il consumo della cocaina diventò abuso e la mia vita prese la strada della delinquenza.

A 17 anni conobbi Rosy, anche lei consumava la sostanza, ma il fratello era un gran lavoratore, faceva l’artigiano e montava stand nelle fiere oltre a controsoffitti e pareti in cartongesso. Mi chiese di lavorare con lui ed io accettai. Era bello girare per le fiere di tutta Italia. Nonostante fosse pesante, ci andavo volentieri e in più il consumo di droga era molto meno. Andò così per qualche anno anche se nei periodi morti qualche rapina la facevo e il consumo aumentava.

A 21 anni sono diventato padre, non per scelta, ma Rosy, a differenza di me, si è assunta le sue responsabilità. lo non ero pronto a questo. Nonostante tutto, ci sposammo qualche mese prima che nascesse Antonio e occupammo un appartamento, dopo un anno ottenemmo un contratto. La nascita di Tony doveva essere una motivazione importante per cambiare, invece si sviluppò una situazione ingestibile. Avevo tutto, lavoro, casa, ma non riuscivo a mettere la testa a posto e dopo 3 anni me ne andai. Ho lasciato Rosy e Tony, sapendo che non erano soli grazie alla sua famiglia e ho iniziato a fare danni.

Ero uomo di merda e non avevo interesse per nulla. Mio padre un giorno mi prese per strada, mi portò a casa e mi fece riprendere, dopo di che mi mise in testa che dovevo allontanarmi da Milano, mi consigliò di prendere i soldi che avevo e di raggiungere mia madre a Londra, li sarei stato lontano dalla droga e poi, con l’aiuto di mio cognato, marito di mia sorella, avrei potuto continuare il mio lavoro.

lo partii, ma il giorno dopo essere arrivato mi recai in centro, a Piccadilly Circus, un’enorme zona pedonale piena di negozi, locali, e soprattutto piena di ragazzi Italiani che bivaccano lì giorno e notte, drogandosi e spacciando soprattutto crack. Tossico sei a Milano e tossico sei a Londra, quindi mi ritrovai a fumare crack e i soldi finirono subito, così iniziai a chiederli a mia madre, che dopo un po’ si stancò e mi disse di tornare in Italia, e così feci.

Era il 2001. Dopo un anno ero di nuovo da mio padre, molto più tranquillo, avevo mollato l’alcol ma non la cocaina. Durante il giorno stavo al parco Sempione, lì faccio amicizia con Thomas un ragazzo dell’Eritrea molto intelligente ma col mio stesso vizio. Insieme ci procuravamo i soldi per la cocaina facendo furti e rapine e in qualche occasione spacciando.

Un giorno dopo una nottata di droga e alcol andammo a mangiare al McDonald, eravamo ben messi, il locale era semivuoto, solo per scherzare facemmo finta di voler portare via un contenitore di monete, ma le persone che stavano lavorando si spaventarono e senza che noi ce ne accorgessimo chiamarono la polizia. Noi eravamo seduti a mangiare, si avvicinarono 3 persone che senza identificarsi ci chiesero i documenti. Ci fu una violenta discussione, ci portarono in questura e ci riempirono di botte per poi denunciarci per aggressione a pubblico ufficiale, ci rilasciarono il giorno seguente con la notifica del processo che si tenne 15 giorni dopo, io non mi presentai e venni condannato a 9 mesi e 15 giorni in contumacia.

Per qualche anno la vita continuò così senza essere mai fermato o arrestato, e nel 2004 durante una festa in Giambellino conobbi Alessia, una bella ragazza che lavorava in un ristorante. Sapendo che da lì a poco sarebbero venuti a prendermi, non volevo assolutamente avere legami affettivi. Lo feci presente anche a lei, che nonostante tutto volle rimanermi vicina.

Arrivò il giorno fatidico e mi portarono a San Vittore. Era ottobre 2004 e con grande stupore una settimana dopo a colloquio vidi arrivare mio padre e Alessia. Con molta gioia le chiesi come aveva fatto ad avere il permesso e lei mi rispose di aver fatto l’atto di convivenza, mi è stata vicina per tutta la carcerazione.

Dopo un mese a San Vittore venni trasferito qui a Bollate e uscii in affidamento dopo 6 mesi. Andai subito a convivere con Alessia decidendo di fare il regolare, dovendoglielo dopo tutto quello che mi aveva dimostrato. Mi misi a lavorare con serietà e il fine settimana uscivamo per locali. Io mi permettevo la seratina con la sostanza, che era molto più contenuta, ma il mio grammo o 2 non me lo facevo mancare. Devo dire che, se anche la sostanza non l’avevo mai lasciata, le cose andavano bene, avevo preso la strada giusta e lei si sentiva molto appagata e sicura di me, tanto da volere un figlio. All’inizio dissi subito no, lei conosceva la storia di Tony, ma non si lasciò scoraggiare e con insistenza mi mise di fronte a come stava andando la mia vita, convincendomi che ero pronto a fare una vera famiglia.

Dopo un paio d’anni rimase incinta, durante la gravidanza passammo momenti indimenticabili e di seratine non ce n’erano più. A ottobre 2008 nasce la mia principessa, Sofia. lo lavoravo per una ditta di mozzarelle di bufala, avevo il furgoncino per le consegne, iniziavo alle 5 del mattino fino alle 13.00 e il resto della giornata la passavo con lei e la piccola.

Ogni tanto però mi concedevo una serata e fu così che una sera usai il furgone per andare a prendere un grammo. Stesi la coca sul libretto di circolazione e mi dimenticai di pulirlo. Dopo un paio di giorni venne il principale da Napoli e come sempre si mise a controllare il furgoncino, arrivato al libretto mi diede un’occhiata e mi chiese “cos’è questa polvere?” BECCATO! Disse che se avessi presentato subito le dimissioni, per come mi ero comportato fino a quel momento, avrei avuto subito la liquidazione e nessuna segnalazione, e così feci.

Mi crollò il mondo addosso, come potevo dirlo ad Alessia? Allora faccio finta di nulla, alle 5 del mattino andavo via in macchina dicendogli che il furgoncino era all’ortomercato e tornavo alle 15. Ma arriva la fine del mese e quindi devo portare lo stipendio, così pensai di fare qualche rapina. La prima andò bene, la seconda no, mi presero in flagranza di reato e patteggiai 30 mesi di condanna.

Alessia e i suoi erano neri, mio padre molto deluso e Sofia aveva appena compiuto un anno. Da qui, San Vittore e poi Saluzzo. Alessia, mio padre e i miei suoceri mi rimasero vicino, restai in carcere 2 anni, uscii gli ultimi 6 mesi in affidamento che finì a Novembre 2011.

Ero convinto che dopo tanto tempo e avendo portato a termine un percorso con il Sert, sarei stato in grado di gestire tutto, ma dopo nemmeno 6 mesi arriva la ricaduta e, senza rendermi conto, nuovamente in galera. Luglio 2012, condanna a 9 anni e tutto perso, non ho più nulla. Per 10 mesi non vedo mia figlia, sentendola solo al telefono, Alessia di me non vuole più sapere, mio padre peggiora con la sua malattia ed io sono psicologicamente distrutto.

Non mi abbatto, alzo le mani e chiedo aiuto. Inizio il percorso di cura, espongo i miei problemi e le mie paure agli psicologi del carcere dove vengo trasferito: San Vittore 10 mesi, poi arriva Opera dove, per la prima volta dopo l’arresto, vedo Sofia. Inizio a essere più tranquillo, dopo arriva il trasferimento a Pavia, dove ho la possibilità di lavorare fisso come inserviente in cucina. Mentalmente sempre più sereno e molto disposto a intraprendere il percorso di cura, ma essendo un padiglione nuovo, c’era carenza di attività come gruppi e i colloqui con gli psicologi sono molto rari.

Finalmente giungo a Bollate e qui da subito con la dott.ssa Mastrapasqua intraprendo con serietà il mio ultimo percorso, stimolato ancora di più dal fatto di vedere la mia principessa più frequentemente. Partecipo a vari gruppi del Sert compreso il gruppo della trasgressione, a questi gruppi devo molto soprattutto alle persone che li gestiscono e le persone che li frequentano. E’ grazie a loro se oggi sono qui con questo scritto.

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Sulla cresta dell’onda

Sulla cresta dell’onda
Giuseppe Migliore

Ho incominciato a utilizzare sostanze stupefacenti dopo aver abbandonato gli studi e nel giro di pochi anni la mia vita è completamente cambiata…

Frequentavo una scuola superiore molto particolare, volevo fin da bambino diventare un pilota di jet, i caccia militari che volano a velocitá supersoniche e che vengono impiegati per le missioni di guerra. Questo sogno l’ho coltivato da quando ero piccolo, sapevo tutto sugli aerei e mi ero messo in testa che un giorno sarei diventato un “top-gun”! Dopo la terza media riuscii a convincere mio padre a iscrivermi all’istituto tecnico aeronautico e, a onta delle sue perplessità iniziali, gli dimostrai che facevo sul serio e che studiare era davvero la mia missione… infatti giunsi fino all’ultimo anno collezionando sempre bei voti.

Nello stesso tempo seguivo un corso di volo e conseguii il brevetto di primo grado-allievo pilota di volo… al volo mi appassionavo sempre di più e l’adrenalina cresceva a dismisura!

Purtroppo, questa storia non ha avuto un lieto fine! In quegli anni coltivavo anche la passione per le due ruote perché la velocitá delle moto mi trasmetteva la stessa adrenalina che provavo quando volavo, ma pagai a caro prezzo questa mia debolezza perché in occasione di un brutto incidente con conseguente trauma cranico ebbi per un lungo periodo disturbi neurologici che preclusero il conseguimento dei brevetti di volo successivi. L’ufficiale medico dell’aereonautica, infatti, mi sospese l’abilitazione al volo e dopo diversi esami medici di controllo mi tolse completamente l’idoneità a volare.

Quello che sembrava solo un brutto incubo divenne dunque una cruda realtà e le mie speranze di un futuro fra i cieli divennero un sogno infranto perché mai più avrei potuto volare. Lo sconforto mi assalí… di continuare gli studi e diventare “uomo di terra” non ne volevo neanche sentir parlare! Sarebbe stato come dire a un calciatore nel culmine della propria carriera di sedersi in panchina, di non essere più protagonista! Sprofondai dunque nella più completa desolazione, mi lasciai abbandonare giorno dopo giorno e, non riuscendo ad affrontare questa dura realtà, decisi di lasciare la scuola e di chiudere completamente con questo mondo, interrompendo drasticamente tutte quelle relazioni che avevo costruito nell’ambiente scolastico e nell’aereoclub che frequentavo e dove ero solito prendere le mie lezioni di volo.

I miei genitori non compresero il profondo dramma che stavo vivendo, mi dissero che avrei trovato altre sfide e che mi sarei potuto realizzare nel mondo del lavoro, visto che avevo deciso di abbandonare gli studi all’ultimo anno. In effetti, le nuove sfide non mancarono ed in meno di un anno mi trovai giá a San Vittore grazie al mio primo arresto per rapina a mano armata e le prime esperienze con la cocaina.

Passai dal paradiso all’inferno, da un mondo di sapienza ad un mondo di trasgressiva incoscienza! Avevo l’autostima sotto i piedi, mi sentivo allo sbando, il sogno di una vita infranto, un vero e proprio fallimento! Incominciai a frequentare nuove compagnie, giovani sbandati, problematici, come me d’altronde… che, per quanto potessi essere vestito ed infighettato di tutto punto, ero in balia dei venti come loro, senza più un obbiettivo nella vita e con una gran rabbia verso il mondo intero!

In poco tempi diventai il leader di questo gruppo, che di certo non era una comitiva di bravi ragazzi… di quelli da far frequentare alla propria figlia insomma, ma balordi da tenere lontano, che ben presto passarono dai furterelli nei supermercati, ai furti di motorini, di auto e a rapine vere e proprie, radicandosi sempre di più nel tessuto criminale di questa grande cittá, costantemente alla ricerca di nuove leve da inserire e da selezionare per il salto di qualità, quello nella malavita che conta.

Ben presto il giro di conoscenze si allargò, nell’ambiente incominciò a sentirsi parlare anche di noi, eravamo visti come ragazzi “svegli”, che sanno il fatto loro e parlano poco! Il mio primo arresto fu il battesimo di fuoco, entrai in carcere “camminando ad un metro da terra”, ero a dir poco lusingato di essere anche io uno di quelli che contano, di quelli che hanno fatto la galera senza parlare! Uscendo da San Vittore tutti mi rispettavano, mi cercavano, insomma stavo cavalcando l’onda del “successo” e in poco tempo incominciai a raccoglierne i primi frutti.

Uscivo con quelli più grandi, ero sempre pieno di soldi, le ragazze facevano a gara per venire in moto con me, che oltretutto ero un bravo pilota… insomma mi sentivo un uomo di successo e volevo arrivare sempre più in alto, anche perché sapevo di essere furbo e intelligente!

Mancava solo la ciliegina sulla torta, ma non tardò ad arrivare! Ben presto, infatti, cominciai ad usare anche la cocaina, non potevo esimermi dal farlo, era nel manuale del perfetto balordo e io mi ero costruito un personaggio che abbracciava tutte queste teorie. La droga girava a fiumi, non era un problema riuscire a procurarsela, tutti l’avevano in tasca, tutti ne facevano uso e anche io in poco tempo ne divenni consumatore abituale. Accresceva sempre di più il mio delirio di onnipotenza, mi trasmetteva adrenalina e soprattutto faceva gruppo, appartenenza, insomma divenne in poco tempo un valore aggiunto, tanto da non riuscire più a farne a meno. Riempiva i miei vuoti, mi trasmetteva sicurezza e mi permetteva di essere sempre sulla cresta dell’onda perché mi cercavano tutti… per “farsi”… logicamente… ma io questo non riuscivo a capirlo o meglio era tutto normale.

Sentivo finalmente di aver trovato la mia dimensione, e il forte riconoscimento da parte degli altri accresceva sempre di più la mia autostima! Presto però i miei comportamenti incominciarono a cambiare, avevo improvvisi sbalzi d’umore, non riuscivo più a controllarmi, ero diventato irascibile, aggressivo e in breve tempo naufragarono molte delle mie relazioni affettive e sentimentali!

Entrando e uscendo dal carcere, mi ripromettevo di non farmi più, ma puntualmente ci ricascavo perché non farsi voleva dire essere tagliato fuori dal giro che conta e non avere più amici con cui condividere qualcosa. Insomma, la mia vita era davvero povera di contenuti ed io, nonostante non me ne rendessi conto, ero più a pezzi di prima, anche se ostentavo sicurezza e potere, che solo i soldi riuscivano a trasmettermi. La continua ricerca di adrenalina ed emozioni aveva contribuito a sregolare completamente la mia esistenza! Passando da un eccesso all’altro, giorno dopo giorno si plasmò quel personaggio di cui diventavo sempre più vittima perché non riuscivo più a farne a meno.

Questo film è andato avanti per circa vent’anni, quel ragazzino è cresciuto ed oggi, leccandosi le ferite, sta cercando giorno dopo giorno di scrivere una trama diversa perché vorrebbe che questa storia avesse un finale non troppo scontato.

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Il muro e la prateria

Carcere di Opera, 20 Aprile 2016
Asya Tedeschi

Al gruppo del mattino, il dott. Aparo dice che la cooperativa Trasgressione.net, con le sue attività imprenditoriali e con la necessità di un’efficace collaborazione fra chi lavora, permette di osservare che la serietà e l’equilibrio che i detenuti praticano in carcere o durante i nostri incontri con le scuole spesso si riduce drasticamente quando si è fuori in una situazione di minore costrizione.

In seguito viene letto uno scritto di Pasquale Fraietta sul tema della “Seconda possibilità”, dove si parla delle possibilità sprecate e di quelle mai realmente avute perché inesistenti o perché senza strumenti per riconoscerle.

Aparo lo commenta dicendo: “Quando si è in carcere l’unico modo per rendersi liberi è condividere i propri obiettivi con chi ti può aiutare, con chi si può provare a costruire; quando si mette il naso fuori, spesso si pensa di potere raggiungere l’obiettivo da soli e gli altri, che erano stati alleati, vengono vissuti come ostacoli, residui fossili di limiti anacronistici e poco funzionali.

Viene chiesto come mai per molti il senso della responsabilità, che fuori non c’era, aumenti all’interno del carcere e poi diminuisca nuovamente una volta fuori.

Aparo: in carcere l’odore della libertà è legato al piacere della progettualità, addirittura all’esercizio della responsabilità. In carcere è così difficile sentirsi liberi che l’attenzione per l’altro e la responsabilità reciproca vengono usate come strumento per la libertà (che è poi quello che viene insegnato normalmente ai bambini e che, quando non sono troppo di cattivo umore, gli adulti riescono a praticare). Quando si torna fuori, molto facilmente riprende quota il delirio che la libertà possa essere vissuta galoppando senza freni in una prateria senza confini. In presenza di condizioni motivanti, il muro del carcere ti costringe e ti permette di guardare attorno a te, invece che pervicacemente avanti; se il muro cade, non è detto che gli occhi sappiano continuare a guardare con l’equilibrio necessario quello che ci sta vicino.

Il Gruppo della Trasgressione, in conclusione degli incontri, è stato allietato dalla musica e dalla voce di Tonino Scala e dalla mirabile performance di Veronica.

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La seconda chance

La seconda chance
Pasquale Fraietta e Angelo Aparo

In previsione degli incontri con gli allievi del Bertarelli, abbiamo cercato di riflettere sulla cosiddetta “seconda possibilità”. In carcere si parla spesso di una “seconda chance” per chi ha sbagliato e, quando se ne parla, si fa implicitamente riferimento al fatto che la prima è stata malamente sciupata.

A tale proposito, però, va detto che forse già all’origine è mancata una “prima valida possibilità”. Un adolescente, con le sue instabilità e le sue confuse aspirazioni, non ancora padrone di un suo personale spirito critico, assorbe inconsapevolmente e combatte confusamente quanto la propria famiglia e la società gli trasmettono; in questo modo, la “prima possibilità” rimane tendenzialmente confinata dentro orizzonti ridotti, delimitati dai sentimenti di cui sopra, dai conflitti e dai modelli di soluzione più facilmente accessibili.

Si potrebbe parlare di “seconda possibilità” se tutti noi nascessimo in condizioni equivalenti, se tutti noi all’origine avessimo condizioni simili… come accade per gli atleti di una gara. Ma è così? Veniamo tutti equamente educati e sostenuti per giungere a un ruolo adulto sano e costruttivo? Da bambini, avvertiamo intorno a noi tutti allo stesso modo le attese e le attenzioni di genitori e insegnanti che ci guidano verso la realizzazione del meglio di noi stessi? Cresciamo tutti in ambienti dove ci sentiamo parte significativa della società in cui viviamo?

L’atleta che punta a superare l’asticella in gara, dopo il primo errore, ha una seconda e una terza possibilità; alla fine, a conquistare la medaglia sarà l’atleta che, dopo averle sfruttate tutte, sarà giunto più in alto. Ma la pedana e la rincorsa possibile nelle gare sportive sono uguali per tutti! E’ così nella vita?

D’altra parte, il paragone con l’atleta ci mette nella condizione di fare anche un’altra osservazione: il saltatore, se sbaglia, ha altre due possibilità per dimostrare i risultati del suo impegno e affermare il proprio valore, ma in quel caso noi tutti siamo certi che l’atleta ha come aspirazione proprio quella di superare l’asticella posta il più in alto possibile! Possiamo essere altrettanto certi che chi ha commesso dei reati volesse realmente arrampicarsi fino all’asticella più alta senza barare? Sappiamo bene che molti di noi sono passati sotto, sperando che nessuno se ne accorgesse… e questo è successo ben più di una volta.

Ma allora parlare di “seconda chance” è un inganno sia perché non tutti hanno avuto la “prima chance” sia perché non tutti l’hanno veramente cercata; con la complicazione aggiuntiva che non si sa se non la si è cercata perché non c’era, perché era troppo difficile vederla o perché la si è deliberatamente ignorata.

Come possiamo intendere il concetto di “seconda occasione” di fronte a chi, come me, ha violato le regole fin da quando aveva 12 anni e si ritrova oggi a 45 anni, con oltre metà della vita trascorsa in carcere?

Devo riconoscere che, ogni volta che violavo le regole, avevo la possibilità di farlo o non farlo… dunque non si tratta semplicemente di seconda possibilità, ma forse dell’ennesima possibilità. D’altra parte, essendo nato e cresciuto in un paesino della Calabria, fotografata dalla cronaca come terra di faide e di famiglie malavitose, quelle che mi mancavano erano le condizioni morali per percepire come e quanto fosse giusto o sbagliato perseverare nel reato.

Comportarsi e agire in modo antisociale, in assenza di una solida ossatura morale, era per me naturale e, da un certo punto in avanti, è stato quasi inevitabile.

Ovviamente la mia, non può e non vuole essere una giustificazione, tuttavia quando mi sono ritrovato in carcere a scontare una lunghissima condanna per reati gravissimi, non ho avuto l’impressione che le mie prospettive morali potessero mutare.

Oggi arrivo a pensare che, se mi fossero stati forniti gli strumenti necessari, come è accaduto negli ultimi anni col Gruppo della Trasgressione e come sta accadendo con i cambiamenti radicali che vediamo in questo periodo all’interno dell’istituto di Opera, forse non mi sarei ritrovato ancora in carcere per l’ennesimo reato grave.

Non saprò mai come sarebbe andata, ma concedetemi di dire, forse in modo provocatorio, che non aver mai avvertito da parte dell’istituzione e della società alcuna partecipazione alla punizione inflittami ha giocato non poco. La condanna era certamente legittima ma, più che una punizione, ho sentito un senso di vendetta nei miei confronti. La punizione può offrire al condannato degli stimoli positivi solo se accanto alla punizione della persona è riconoscibile il dolore di chi punisce, ovvero della società.

La pena, nella logica attuale, di sicuro ferma colui che continuerebbe a commettere reati se non venisse rinchiuso, forse ha anche qualche funzione deterrente, ma di certo non risolve i danni arrecati, non cancella la colpa, non favorisce la comprensione del male praticato né il riconoscimento del proprio senso di colpa, infine ma non meno importante, non riconosce le corresponsabilità sociali. Molte volte si parla di comportamenti delinquenziali, criminali, deliranti… ma noi sappiamo che una pianta non cresce se non in un terreno che la nutre.

In conclusione, ritengo si possa parlare seriamente di “seconda possibilità” solo quando l’individuo, con un passato e uno stile di vita deviante, abbia realmente la possibilità, nel luogo e con la pena che sconta, innanzitutto di accrescere la propria consapevolezza, di nutrirsi con i valori morali che non sentiva all’epoca dei reati, di vivere e maturare in un “terreno” (strano chiamare il luogo della pena così!) che gli offra dei riferimenti grazie ai quali sentirsi protetto ed entrare in relazione con gli altri.

In tal caso, dalle macerie del suo passato, potrà venire fuori il materiale utile per sviluppare gradualmente un nuovo modo di sentire: una seconda possibilità, quindi, collegata a un nuovo modo di guardare il mondo e se stessi, collegata soprattutto a un nuovo modo di vivere la relazione con gli altri.

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Quali requisiti per un risultato utile?

Quali requisiti per un risultato utile?
Maurizio Chianese

Al gruppo si continua a discutere sulla tossicodipendenza. Quel che viene fuori ogni volta fa sorgere domande alle quali io a volte faccio fatica a rispondere. L’ultima è stata: “quali requisiti dovrebbe avere una persona tossicodipendente per uscire più facilmente da questa condizione?”

Sarebbe bello identificare un pacchetto di requisiti che una persona potrebbe fare propri per uscire con sicurezza dalla tossicodipendenza, ma sappiamo bene che, purtroppo per noi, non è così. Uscirne è difficilissimo, ma credo che per una persona tossica sia difficile già il fatto stesso di partire seriamente per un percorso di recupero. Credo che giungere a questa determinazione non è cosa che avviene improvvisamente, c’è bisogno di fermarsi a pensare, facendo i conti con il passato e con il proprio vissuto.

Io sono giunto a questa decisione non solo per essere finito qui, dove si è obbligati a fermarsi, ma anche in conseguenza di un forte trauma, che inizialmente mi ha fatto crollare, ma poi, con l’aiuto di persone competenti in materia, mi ha indotto a ragionare. Oggi sono 4 anni che ci lavoro e che mi sono imposto degli obiettivi, sto facendo i conti con il mio passato, riconoscendo sbagli e mancanze e il dolore causato alle persone a me care. Mi sono anche detto che ora devo costruirmi una nuova vita, solo quando io starò bene potrò pensare di chiedere la fiducia e il riavvicinamento delle persone a cui ho fatto del male.

Cosa sto facendo per raggiungere il mio obiettivo? In questo istituto (Bollate) ci sono molte attività che offrono un aiuto concreto per lavorare sulla propria persona, gruppi che, se presi seriamente, aiutano a riscoprire emozioni, capacità di socializzare, a responsabilizzarsi e ad avere fiducia in sé e negli altri. lo ne frequento diversi: da quello del sert di reparto, dove si tratta e si condividono esperienze di vita, al gruppo “Psicodramma“, dove si mettono in scena eventi vissuti mostrando emozioni. Essendo padre, frequento il “Gruppo genitorialità”, molto importante perché, confrontandomi con altri padri detenuti, colgo riflessioni e spunti da utilizzare nei brevi momenti che hai quando i figli ti vengono a trovare, per non fagli pesare di più la tua assenza. E poi, il “Gruppo della trasgressione“, è quasi un anno che lo frequento; descriverlo è molto complicato, è fuori dagli schemi.

Qui ho trovato persone corrette che m’invogliano sempre a fare qualcosa (come gli scritti). Piano piano, mi sto aprendo, ascolto con molta attenzione ogni cosa che viene detta, a volte per la mia ignoranza non comprendo il significato di qualche parola, ma grazie al potere che c’è nel condividere le storie riesco sempre a comprendere il succo della discussione. Ogni volta che il gruppo finisce torno in cella più convinto di aver preso la strada giusta e di avere la possibilità e la capacità di uscire da questa brutta condizione. So che il tossico in me non sparirà mai, ma è altrettanto vero che se riesco a mantenere questa testa riuscirò a tenerlo in un angolo.

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Le brioches e l’airbag

Le brioches e l’airbag
Veronica La Riccia

Cibo. Ancora cibo. Sempre cibo. Sto male. Dentro di me solo vuoto. Inesorabile vuoto. Nausea. Depressione. Lacrime scorrono sul mio viso, che non cambia espressione. Il sorriso perde all’improvviso il suo valore. Sento questo peso enorme, sulle mie spalle. Tutto troppo grande per me. Sensi di colpa sopraggiungono per ricordarmi quanto sia imperfetta. Triste. Vuota. Altre lacrime scorrono. Sembra che abbia un fiume dentro di me, che necessita spazio, un’uscita. Sento tanta stanchezza. Mi sento sola, lontana dal mondo che vivo ogni giorno, sbalzata in un universo parallelo, dove le emozioni mi travolgono lasciandomi… vuota. Mi guardo allo specchio, sono pallida, lo sguardo è spento, le occhiaie viola accentuano l’espressione malinconica. Tutto sembra senza speranza… Dov’è la via d’uscita? È tutto così buio intorno a me. La nausea aumenta. Il ribrezzo nei miei confronti anche. “Che fatica”, penso.

Questo è lo spaccato di emozioni che mi capita di vivere quando mi lascio controllare, dominare, muovere dal cibo. Arrivo a desiderare la morte piuttosto che sopportare quel dolore. Ma visto che il suicidio non è una scelta che reputo adeguata, mangio di nuovo e tutto torna ad essere più piacevole. Il mondo intorno si colora di sfumature diverse a seconda di quanti grammi di zuccheri abbia ingerito e, come il mondo, così le mie relazioni.

A volte realizzo quanto la solitudine sia la mia migliore amica: lei non mi dice “basta”, non mi chiude il pacchetto di biscotti, non mi fa notare quanto sia esagerata, non mi giudica. Sono così contenta quando arrivo a casa e sono da sola. Con lei posso riempire quel vuoto, me lo lascia fare. Anzi, con quella vocina subdola mi sussurra “mah si, mangia ancora! Che sarà mai! Da domani vedrai che sarà diverso, non lo farai più!”. Poi, all’improvviso, bum. Nero. La solitudine cambia forma, mi soffoca, mi trascina vorticosamente nell’abisso. “Non erano questi i patti!”, le dico. Ma lei stringe ancora di più, facendomi tornare al punto di partenza o addirittura più in basso. In quel momento il mio fidanzato, i miei genitori, i miei amici… li annullo. Li anniento. Io, io e ancora io. Nel bene e nel male.

Ma tutto questo, da dove ha origine?

Ci ho pensato ed è davvero difficile trovare il punto esatto in cui io abbia scelto di mettere in atto questa strategia. Ma alla mente è arrivata un’immagine: mia madre in ospedale, con l’ago nella vena che iniettava il farmaco chemioterapico. Io avevo 13 anni. Una ragazzina che fino a quel momento aveva vissuto sotto una campana di vetro, dove di pericoli non ce n’era nemmeno l’ombra. Però, quando a casa di mia nonna mia madre disse ciò che il medico aveva scoperto, andai in mille pezzi. Da quel momento mi trovai a fare i conti con la paura enorme di perdere mia mamma e con la necessità di crescere, in fretta. E allora, quì torna l’immagine dell’ospedale: lei distesa sul letto e io a mangiare brioches su brioches. I “Buondì” al cioccolato. Me lo ricordo come se fosse ieri.

A questo punto, la domanda del dott. Aparo arriva prepotente alla mente: il legame con l’oggetto-dipendenza impedisce la creazione di altri legami o protegge dal crearne?

Io credo che la risposta sia più vicina alla seconda ipotesi. Io considero questo problema come un rifugio, una base sicura, una strategia per non dipendere dagli altri. Una modalità disfunzionale per non permettere ad altri di farmi del male. Peccato che in questo modo me lo faccia da sola.

E’ come se dentro di me fossi costituita da tanti pezzettini di un puzzle che devo, in un qualche modo, tenere insieme, dargli un senso. E donare qualche pezzettino all’altro significherebbe lasciare dei buchi, perdendo così la mia identità, costruita con dolore, difficoltà e nemmeno tanto bene. E il cibo è proprio una delle colle che mi aiuta a tenere insieme questi pezzettini e trovare una colla più adatta, magari contemplando l’apertura verso l’altro, costa tanta fatica.

D’altra parte, l’esperienza vissuta a Bollate e l’aver raccolto le sensazioni che gli altri hanno avuto nei miei confronti, per un po’ mi ha fatto stare meglio. Credo che l’aver concesso a me stessa di prendere uno dei miei pezzettini e di metterlo sul tavolo abbia permesso agli altri di avvicinarsi e arricchire quel pezzettino che poi ho potuto rimettere dentro di me. Però questo discorso mi rendo conto che mi crea molta confusione, non riesco ad avere un quadro chiaro e nitido. Forse ho bisogno di qualcuno che mi guidi e che mi aiuti a districare la matassa.

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Droga e relazioni viste dall’altro

Droga e relazioni viste dall’altro
Jessica Piccinali

E’ da circa un anno che frequento il gruppo della trasgressione, esperienza che ritengo arricchente ed emotivamente forte. La sua bellezza sta nella possibilità di creare discussioni e confronti costruttivi tra persone che hanno storie di vita diverse, ma che in questa sede hanno la libertà di esprimersi secondo il loro essere, indipendentemente da ciò che hanno fatto. Sono parecchie settimane che, guidando verso casa dopo il gruppo e riflettendo su cosa “porto a casa” dai contributi di ognuno, forniti attraverso gli scritti condivisi, penso a ciò che è stata la mia esperienza e alla curiosità che, da sempre, mi contraddistingue.

Non ho mai fatto uso di sostanze stupefacenti, ma la mia troppa curiosità, forse insieme a un’inconsapevole ingenuità di qualche anno fa, mi hanno indirettamente portata ad un contatto con queste sostanze. Ripercorrere quegli anni non è facile per me, non con la consapevolezza di oggi, ma a volte risulta fondamentale perché riconosco di essere diventata ciò che sono, anche grazie a quelle esperienze.

Era un venerdì sera. Avevo 18 anni e, fresca di patente, andai a prendere un’amica per quattro chiacchiere insieme e, una volta finite le chiacchiere, mi accorsi che era ancora presto per tornare a casa, anche se il giorno dopo sarei dovuta andare al liceo. Perciò pensai di fare una sorpresa a quello che all’epoca era il mio fidanzato e, avendo le chiavi di casa sua, decisi di andare a trovarlo.

Ricordo come fosse ieri, io che infilo le chiavi nella toppa della porta e la apro. La scena che mi si prospettò davanti cambiò ogni cosa. Lui era lì, chinato sul tavolo, con qualche striscia di cocaina a tenergli compagnia. Non si accorse nemmeno della mia presenza, se non quando mi misi di fianco a lui e lo guardai incredula. Sento ancora i miei occhi pulsanti di rabbia e probabilmente lo gelai con lo sguardo, lessi nei suoi occhi terrore, misto a senso di colpa, insieme alla vergogna. Io provavo delusione, senso d’impotenza e ancora rabbia, tanta rabbia. Rabbia perché non sapevo nulla, perché lui giustificava la mancanza di soldi dicendo che la vita costa cara, che doveva pagare l’affitto e la spesa. Rabbia perché a 18 anni mi ritrovavo a passare i weekend a casa perché lui non poteva nemmeno pagarsi il biglietto del cinema, e mi confrontavo con le mie compagne di classe che invece cominciavano ad andare in discoteca per la prima volta. Rabbia perché mi ero sentita stupida di fronte alle sue menzogne e ingenua per non essermi mai accorta di nulla.

Era da tempo che lui mi faceva sentire inadeguata, brutta, aveva ridotto a zero la mia autostima, facendo anche crollare la mia voglia di fare ciò che le coppie normalmente fanno, tanto che i nostri weekend significavano solo una cosa per me: mangiare per tutto il fine settimana. A un certo punto avevo talmente vergogna di me stessa, da evitare persino di guardarmi allo specchio.

Aveva capito la fragilità che mi apparteneva da qualche anno, da quando i miei genitori si separarono e mio padre perse la testa per una “signora” che lo voleva tutto per sé, che aveva priorità sulle sue figlie, quel padre che chiamavo l’”uomo bancomat” solo perché, in quel momento, era totalmente anaffettivo e l’unica sua funzione di padre era quella di mantenermi economicamente.

Lo guardai di nuovo, mi voltai, e me ne andai. Nei giorni successivi lui cercò di giustificarsi, ma continuavo solo a chiedergli “Perché?”. E proprio la ricerca della risposta a quell’unica domanda che gli feci, mi spinse ad andare oltre. Mi raccontò di essere figlio di una donna eroinomane che, fin da quando lui nacque, si prostituiva per mantenere la sua dipendenza. Mi raccontò che per questo, un giorno, sua madre venne uccisa e lui venne affidato alla zia. Aveva 6 anni. Tutto ciò lo travolse, crebbe con il desiderio di vendicare sua madre, questo era l’unico pensiero che lo faceva sentire vivo. Questo causò in lui, però, un senso di protezione assoluta nei confronti delle donne in generale, che diventava possessione verso la fidanzata, che in quel caso ero io. Possessione che veniva gestita in modo subdolo. All’inizio sembrava quasi normale gelosia, “chi è quello che hai salutato?”, “chi è che ti manda i messaggi?”, eccetera, trasformatasi poi quasi in perversione: ad oggi ho capito che lui, screditandomi ai suoi occhi, ha causato il mio non sentirmi adeguata agli occhi del mondo.

E perché stavo con lui? Perché pensavo di non meritarmi nulla, pensavo che solo lui potesse volermi bene, vista la mia inadeguatezza. Passò qualche mese e mia mamma, preoccupata per la mia salute, decise di portarmi da un nutrizionista. Cominciai a perdere peso, ed il mio perdere peso creò in lui agitazione. Era come se stesse perdendo il controllo della situazione. Era come se il mio volermi bene, non gli permettesse di avermi in pugno. Stavo lentamente tornando a guardarmi allo specchio, piacendomi. A quel punto venne fuori la sua vera indole di manipolatore, non voleva che io uscissi con le mie amiche, non voleva nemmeno che andassi in gita con la scuola, mi ricattò più volte affinché io facessi ciò che lui voleva. Io mi ribellai, trovai la forza per farlo: aveva usato la mia fragilità per esercitare una forma di controllo e di potere su di me. Chiusi la relazione senza alcun tipo di rimorso. Lui impazzì. Mi chiamò per giorni interi, all’inizio risposi anche, sentendomi miriadi di insulti gratuiti. Smisi di rispondere, mi si presentò totalmente fatto davanti a casa. Ho ancora impressa quell’immagine. Svenne davanti a me, io chiamai sua zia, nonché madre adottiva, che lo venne a prendere. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.

C’è voluto molto tempo per poter affrontare le ferite lasciatemi da quella relazione, ferite che erano sia fisiche a causa del mio ingente aumento di peso, sia psicologiche a causa della mia autostima distrutta. C’è voluto molto tempo anche per tornare a fidarmi di qualcuno.

Passarono diversi anni da quella relazione, anni in cui ho fatto la mia “rivoluzione” ed ho scoperto di avere una forza interiore prima sconosciuta. Mi sentivo piuttosto bene: avevo cominciato l’università, avevo nuovi amici, quelli vecchi erano sempre presenti, il mio percorso dal nutrizionista stava sortendo i suoi effetti positivi, avevo recuperato la mia autostima, insomma ero fiera di me stessa.

Frequentando il locale in cui lavorava la mia amica storica, sono entrata in contatto con una realtà che ho sempre e solo visto da lontano: vedevo strani giri, persone che andavano e venivano, continue strette di mano, gente che faceva la fila per andare in bagno… ma ben presto ho capito cosa succedeva in quel locale. Ero però sicura del mio totale disinteresse e della mia non tolleranza rispetto all’uso di sostanze, vista la mia esperienza precedente.

Una sera, stavo tranquillamente parlando con quella mia amica, quando è entrato nel locale un ragazzotto dalla faccia simpatica che, incuriosito dal discorso, si è avvicinato per chiacchierare. Fondamentalmente sapevo benissimo cosa faceva lui, ma la mia curiosità non mi ha permesso di fuggire, in un certo senso. Lui diceva di non fare più uso di cocaina da qualche mese e diceva anche che era sulla buona strada per smettere totalmente con la sostanza; io, che di cocaina nemmeno ne volevo sentire parlare, ero quindi perfetta per accompagnarlo nel tempo futuro, perché con me non avrebbe avuto la tentazione di fare QUEL passo indietro.

Così diceva. MA… a questo punto c’erano due problemi abbastanza ingombranti: il primo era che lui, oltre ad un onesto lavoro, ne aveva anche un altro, faceva soldi vendendo cocaina. Il secondo era che tutte le persone che lo circondavano avevano in qualche modo a che fare con la sostanza, soprattutto il suo migliore amico e sua sorella che avevano un livello di dipendenza decisamente grave. Inizialmente la relazione andava piuttosto bene, lui non usava la sostanza, non la aveva mai con sé in mia presenza ed era davvero convinto di voler smettere perché troppe persone a lui care si erano rovinate la vita a causa della droga.

Quando era adolescente, suo padre e suo zio vennero processati per traffico di stupefacenti e sua madre, per questo, scappò di casa con un altro uomo. A quel punto il padre divenne un eroe agli occhi dei suoi figli, tanto che gli capitava di fare festini di cocaina con loro. Di fronte ai suoi racconti, io rimanevo sempre più perplessa del modo in cui questo padre veniva giudicato come il padre migliore del mondo, questo padre che morì di infarto proprio a causa dell’uso ingente di sostanze. Cercavo di capire quale fosse il motivo per cui una persona può farsi così condizionare la vita dalla droga, capire perché quella persona non è in grado di smettere con la sostanza nel momento in cui tutto ciò che ha crolla come conseguenza della stessa. Il suo amico non si alzava dal letto, se non grazie ad una riga di prima mattina, la sorella gli rubava una busta ogni sera per chiudersi in camera a fumare e non usciva mai e di lavorare nemmeno ne parliamo! Chiaramente le relazioni familiari erano disfunzionali, sua madre sapeva tutto, ma non era in grado di aiutare i figli, o forse, e sarò cattiva, le faceva anche comodo che lui provvedesse a pagare il mutuo della casa.

Ed io ero assorbita da questa situazione, ero assorbita dalle stesse relazioni disfunzionali che erano per me così bizzarre: ero diventata una sorta di spugna a cui raccontare ogni singola cosa perché sapevano che non avrei giudicato, anzi, avrei cercato un modo per poterli aiutare. Mi sentivo la crocerossina del momento, tentavo di far in modo che le cose migliorassero (soprattutto per sua sorella a cui facevo quasi da baby-sitter nonostante i suoi 30 anni), tentavo anche di difendere la mia opinione contro tutte quelle persone affamate di cocaina che tentavano di convincermi che quello fosse l’unico modo per divertirsi davvero, proprio loro che per una busta erano disposti a fare qualsiasi cosa.

Dopo qualche mese, per motivi di studio, ho deciso di prendere casa a Milano con una mia compagna di università, perciò durante la settimana ero sempre via, tornavo solo per il weekend.. e questo divenne un problema per me, una scappatoia per lui.

A volte le telefonate erano strane, cambiava atteggiamento, modo di parlare, evitava le domande scomode ed io avevo subito capito cosa stava succedendo: quando il gatto non c’è, i topi ballano. Quando tornavo chiedevo sempre spiegazioni, ma venivo rassicurata dalle sue promesse a cui, però, non credevo fino in fondo. E le bugie, di nuovo bugie, hanno aperto nuovamente quelle ferite da cui pensavo di essere guarita.

Nel momento in cui viene meno la fiducia, si sa, le cose non vanno per il giusto verso ed era proprio così che stava andando e con la fiducia se ne andavano anche la mia comprensione e la mia sensibilità: ero diventata intollerante a qualsiasi tentativo di fingersi vittime della sostanza, ero diventata scontrosa e mal disposta nei confronti di chi cercava di farmi pena.

Un giorno eravamo ad un pranzo a casa di amici a cui hanno partecipato anche QUEGLI amici, dopo pranzo ricordo che si è alzato per andare in bagno e mi ha rivolto uno sguardo strano, come se volesse controllare che io non stessi pensando a nulla, ma io ormai conoscevo il pollo. Infatti, appena uscito dal bagno, ho notato quel famoso tic che gli veniva ogni volta che sniffava anche solo una riga. È calato il silenzio. L’ho guardato e me ne sono andata. Non avevo intenzione di fare alcuna scenata davanti a quegli ipocriti.

Lui non stava tentando di smettere perché davvero non voleva fare la fine di quelli che conosceva, lui non voleva smettere, pensava che mentirmi sarebbe stata la scelta giusta, per tenermi buona. Come se gli avessi chiesto io di non farne più uso, stava fingendo di rigare dritto per non farmi arrabbiare, come se stesse facendo un favore a me. Forse gli facevo anche un po’ comodo perché, non avendo alcun tipo di interesse nei confronti della cocaina, non avrebbe dovuto finanziare la mia dipendenza come aveva fatto con la sua ex e come stava facendo con sua sorella.

Da quel giorno lui non è più stato lo stesso ai miei occhi, era la prima volta che concretamente vedevo la sua vera natura: chi nasce rotondo non può morire quadrato, mi diceva per giustificare il suo stile di vita. Io a quel punto ha capito di essermi illusa di aver visto in lui una persona che nessun altro aveva mai visto e mi sono totalmente distaccata da quella realtà. Tutte le amicizie che aveva erano false, erano suoi amici solo perché lui era generoso, ma se avesse avuto davvero bisogno loro non sarebbero mai corsi in suo aiuto.

Ho capito che il mio desiderio di stargli accanto era vanificato ogni volta dalla cocaina, veniva prima quella roba. Prima di me, prima di tutto il resto, anche prima di lui: la droga gli ha provocato anche danni fisici, ma a lui questo non importava. Tutta la sua vita girava intorno a quello, per soldi, per dipendenza, ma anche per essere importante per qualcuno, per sentirsi voluto bene, per imitare quel padre tanto amato, per l’incapacità di tirare fuori le palle e di affrontare la vita, con i suoi pro e i suoi contro. Era più semplice rifugiarsi in quel mondo, nella disfunzionalità delle sue relazioni, nell’illusione di essere davvero una persona che conta qualcosa per gli altri solo perché hai “ciò che li fa felici”, piuttosto che rinunciare ai soldi facili e a quell’identità fasulla che si era costruito.

Da tutto questo ho preso le distanze quando ho capito che non avrei potuto fare nulla perché ero solo un ostacolo per lui, in quel momento, qualcosa che gli creava problemi nel raggiungimento immediato del suo desiderio e mi sentivo totalmente svuotata. Svuotata perché avevo impiegato tutte le mie forze per sostenerlo nella sua scelta di smettere, per poi essere presa in giro. Svuotata perché supportavo sua madre disperata per la sorella, tanto da portarmela ovunque pur di non farla stare a casa da sola altrimenti faceva ciò che non doveva fare, per poi sminuirmi dicendo che lui aveva ragione perché io volevo cambiarlo ingiustamente. Svuotata perché avevo capito di non contare poi così tanto per lui, dopo tutto quel tempo speso.

Ci siamo lasciati. Successivamente è stato arrestato per spaccio.

E quando qui al gruppo sento dire che il tossicodipendente non riconosce l’altro se non come oggetto, mi sento tirata in causa. Quando sento dire che il tossicodipendente non è in grado di mantenere relazioni sane, avverto ancora quel senso di svuotamento.

I momenti di debolezza li ho avuti anche io, momenti in cui mi sentivo inadeguata, momenti in cui la mia fragilità era talmente forte che evitavo di guardarmi per non riconoscerla, nemmeno quando mi sono sentita inutile per qualcuno, nemmeno quando ho capito che una sostanza potesse avere più importanza di me, ma il pensiero della droga non mi ha mai sfiorata e questo non perché sono wonder woman.

La forza di rialzarmi, la forza di riconoscere di avere un problema, la forza di perseverare, di aspettare prima di ricevere una gratificazione, l’ho sempre trovata nelle persone che avevo accanto e negli obiettivi che volevo raggiungere nella mia vita. E l’ho trovata anche in me stessa, perché è quando il tuo impegno viene ripagato attraverso evidenti risultati, e questi risultati sono solo frutto della tua perseveranza, che ti senti piena di orgoglio per te stessa.

È vero che cambiare i modelli disfunzionali con cui una persona è cresciuta credendoli giusti, non è facile, ma è soprattutto doloroso. È anche vero che il contesto gioca un ruolo fondamentale nelle decisioni che il soggetto compie e nelle scelte che compie nei confronti della guida. Bisognerebbe fare in modo di riconoscere l’altro che ci sta di fronte non come oggetto, l’altro su cui possiamo investire per costruire quella guida positiva che, comprendendo le nostre fragilità, ci aiuti a costituire quel senso d’identità smarrito o mai trovato. Quell’identità che ci permette di riconoscerci tra gli altri, dando a ciascuno la consapevolezza che è la relazione con l’altro che rende l’essere umano straordinario.

 

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