Dignità e bellezza
Simona Michelon
Leggendo gli appunti dell’incontro del 7 aprile, mi vengono in mente due parole: dignità e bellezza. Essere portatore di “dignità” significa curarsi di sé, tanto da non mettersi mai nelle condizioni di non rispettare se stessi e quindi gli altri.
La dignità si respira o non si respira. I genitori sono custodi unici e insostituibili della dignità dei figli. La dignità passa attraverso lo sguardo libero e attento, passa attraverso le regole offerte e condivise, regole che contengono, proteggono e limitano, mi viene quasi da dire regole che amano.
Tutti concordano sul fatto che dire NO all’adolescente che cresce e crea tensioni per misurare i suoi limiti è un dovere dell’educatore genitore e non.
Anche noi insegnanti abbiamo un ruolo, benché minore, nella costruzione della dignità di una persona-studente: un metodo coerente e accogliente è già un buon percorso da battere; all’interno di un binario rassicurante l’alunno si può muovere serenamente e poter misurare le proprie potenzialità e/o fallimenti; oppure per esempio un’autorevole descrizione dei criteri di valutazione di un modulo o di un argomento trattato è un momento in cui si possono passare regole, spiegando il significato che l’insegnante vede all’interno della richiesta e comunicando così cosa ci si aspetta da un alunno, spingendolo a dare il suo meglio e poter godere di una valutazione “dignitosa”.
La peggior cosa che possa accaderci, dico come insegnanti, è che qualche ragazzo dica di noi che non c’è nulla che può farci cambiare idea su di lui, del tipo “non c’è speranza, non cambierà mai parere su di me”. Chi fatica a raggiungere dignità a casa deve poter provare a scuola e noi dobbiamo concedere terreno fertile perché ciò avvenga.
La seconda parola è la motivazione, che dobbiamo dare, offrire a tutti: la bellezza. Chi conosce la bellezza del mondo, che ne so della natura o della musica o di un libro, quella bellezza che rapisce e ci porta lontano ma dentro noi stessi e che ci fa dire “voglio questo” non cadrà facilmente in meccanismi regressivi, benché seduttivi.
A casa, a scuola, ovunque dobbiamo essere portatori di bellezza. A volte basta poco per rapire l’attenzione di un ragazzo e trascinarlo al di qua verso il bello. Chi non conosce la bellezza non riesce a desiderarla, s’imbruttisce, non la vede, si chiude e poi finisce per soffrire di una sofferenza profonda, buia che non lascia agganci alla salvezza. Credo funzioni un po’ così.
Penso sempre a me in classe, quando provo a raccontare un passaggio di economia che mi entusiasma, una questione che a mia volta mi aveva rapita quando ero studentessa. Sono lì e spero che accada anche a loro che ascoltano e pensano a ciò che diciamo. Mi è capitato oggi in classe, in uno di questi momenti di vedere Gabriele un po’ perso nei suoi pensieri. Mi sono fermata e mi è venuto di dirgli “ dove sei?” poi un cenno suo e poi io “stai con noi!”. Dobbiamo sempre provare a lanciare tentativi di condivisione di pathos.
Io credo che la “guida” di cui parlavamo debba far respirare dignità almeno a giorni alterni e vedere la bellezza almeno nei weekend. Penso anche che la fragilità è di tutti, tutti si scontrano con una fragilità prima o poi. Credo che la fragilità non sia gestibile se la persona non riconosce il suo valore a priori, la sua dignità intima, e se gli occhiali appannati dalla bruttezza impediscono di vedere il bello.
Ecco quindi che diventa importante investire in progetti di rieducazione nelle carceri che mostrino ai detenuti la loro autentica dignità che va oltre il “commesso” e la bellezza che si deve recuperare, unica dipendenza ammessa. Ecco che diventa importante ragionarci insieme, contaminarci, per poter capire bene e prevenire.