Con chi me la piglio?

Credo di aver iniziato a provare rancore verso la vita in generale e poi, nei confronti di un altro individuo, per la prima volta ad otto anni. Da piccola non avevo realizzato di essere nata con una patologia agli occhi che avrebbe potuto rappresentare un ostacolo per la mia vita. 

Un giorno di tanti anni fa invece accadde qualcosa che me lo fece comprendere, come succede quando una persona ti schiaffeggia in pieno viso, senza che tu abbia avuto modo di rendertene conto e, soprattutto, senza che l’altro abbia alcun motivo valido per schiaffeggiarti. Quando te ne rendi conto è ormai troppo tardi e la faccia ti brucia per il dolore, per l’umiliazione di non aver saputo parare il colpo, ma anche per la consapevolezza di non aver provocato per tua colpa questa reazione spropositata da parte dell’altro.

Ero alle elementari e la mia scuola ci portava a lezioni di nuoto. L’insegnante di nuoto non era la mia insegnante, ma un’istruttrice esterna ed era ignara del fatto che io, senza occhiali, non vedevo quasi nulla (sono nata con una miopia degenerativa e di fatto, senza occhiali, vedevo solo ombre). Dopo che aveva mostrato a tutti noi alunni quali movimenti avremmo dovuto fare, vedendo che non mi muovevo, aveva iniziato ad urlarmi addosso le istruzioni che dovevo eseguire perché si era convinta che mi fossi distratta. Io, dal canto mio, non mi ero distratta, ma semplicemente non ero in grado di ripetere ciò che lei aveva mostrato perché senza occhiali non vedevo a un palmo dal mio naso e non avevo idea di cosa avesse mostrato agli altri. I miei compagni dell’epoca sono stati degli ottimi alleati in quell’occasione, mi hanno difesa subito spiegando all’insegnante quale fosse il mio problema. Quindi l’umiliazione, se vogliamo, è durata poco, ma non posso affermare di esserne uscita fuori altrettanto velocemente. Avevo sentito mortificazione e rabbia per essere stata sgridata davanti a tutti per una cosa di cui non avevo colpa. 

Da quel momento ho iniziato a provare parecchio rancore e lo indirizzavo di volta in volta verso chi mi faceva sentire umiliata come mi aveva fatto sentire quell’insegnante. Credo di aver iniziato ad avere un pessimo rapporto con l’Autorità a partire da quel giorno. Potrei fare tanti esempi per far comprendere cosa intendo: ogni volta che a scuola o in università o sul lavoro, sentivo di aver subito un’ingiustizia, cercavo in tutti i modi lo scontro con la mia controparte… e ci riuscivo. So essere determinata, quando mi ci metto! 

Ma negli anni ho imparato anche un’altra tecnica: sparisco. Punisco l’altro che mi ha ferita, semplicemente sparendo dalla sua vita, senza dare alcuna spiegazione. Non ne vado fiera, ma era il modo con il quale ho imparato a difendermi e che mi faceva sentire meno il dolore. Ad essere sinceri, il dolore rimane, quindi posso affermare che questa modalità nel tempo si è rivelata fallimentare. Oggi, infatti, non scappo più. Quantomeno, sono molti anni che non lo faccio più.

Inoltre, in quegli anni ho iniziato ad avere un pessimo rapporto con la mia fisicità. C’è da dire a mia discolpa che, mio padre e mia madre, essendo belli, a mio avviso, avrebbero potuto impegnarsi un pochino di più… e invece hanno elargito tutte le qualità ai miei tre fratelli…

C’è stato solo un periodo in cui mi sono sentita bene con me stessa ed è stato nel 2007, dopo che mi sono operata agli occhi, ma è durato pochi mesi e nel 2008 nel periodo in cui ho conosciuto il ragazzo che poi è diventato mio marito, Lorenzo, e non credo sia un caso. Oggi oscillo tra il farmi schifo ed il piacermi, non saprei dirlo nemmeno io onestamente.

Come dicevo, i compagni di classe dell’epoca mi avevano difesa, ma purtroppo, dopo aver cambiato classe, non è più stato lo stesso. Quei primi compagni erano sempre stati gentili con me perché mi avevano sempre conosciuta con quegli occhiali così spessi; per loro quegli occhiali non erano un problema perché me li avevano sempre visti addosso. Ma l’estate prima che io frequentassi la quinta elementare, io e la mia famiglia ci trasferimmo  in un altro paese e, di conseguenza, dovetti cambiare scuola.

Spoiler: fu un trauma per me (messaggio per mia mamma e mio papà: non me ne vogliate, oggi capisco le vostre ragioni, che erano molto serie e valide, ma all’epoca non le accettavo).

La quinta elementare e le medie sono state letteralmente un inferno per me. Non solo venivo discriminata per il mio aspetto, ma avevo l’aggravante di essere pure una che si impegnava a scuola, quindi venivo schifata, salvo che a qualcuno servissero i miei appunti. Credo di aver affinato in quel periodo le mie tecniche e le mie capacità di attrice comica (uno dei pochi talenti che mi riconosco). In quel periodo mi ero convinta che, visto che non potevo essere la figa del gruppo per manifesti motivi, mi conveniva puntare su altre qualità per farmi notare, tipo la simpatia. A guardarmi, nessuno avrebbe pensato che fossi una bambina tremendamente infelice, ma vi posso assicurare che lo ero; semplicemente avevo imparato molto bene a nascondere la sofferenza dietro ad un sorriso, per tanti motivi.

Primo fra tutti perché sono una persona orgogliosa, non avrei mai pianto di fronte a quegli idioti. E così ho fatto. Mi limitavo a piangere a casa perché io piango un sacco, ancora oggi. Oggi non mi vergogno di più di piangere davanti ad altri, quantomeno non mi vergogno più da morire, ma solo un poco. Secondariamente non volevo arrecare un dispiacere ai miei genitori perché sono sempre state le persone più importanti della mia vita; mia madre mi diceva giustamente di infischiarmene, mi ripeteva che ero bellissima e che quelli erano solo una manica di sfigati. Oggi, da mamma a mia volta, la capisco; ma comprendo anche che le parole di quegli idioti hanno lavorato tanto nel mio subconscio, perché ho passato anni a sminuirmi oppure a sentirmi quella strana e quella anormale, oggi lo so. 

Come so che ho passato anni a sentirmi un cesso a pedali, tanto che, anche quando ho capito che non ero più così cessa, continuavo a credere fosse impossibile che io potessi piacere a un ragazzo. 

Ho iniziato a odiare i miei bulli, ma c’era una parte di me che, in realtà, li ammirava o, meglio, li invidiava. Avrei tanto voluto avere la loro faccia tosta. Nella mia testa, inscenavo un teatro continuo in cui ero la protagonista della storia e non la sfigata, ho sempre lasciato briglia sciolta alle mie fantasticherie; ancora oggi mi sparo tanti di quei film nella mia testa che, a pensarci bene, avrei dovuto fare la sceneggiatrice.

Negli anni sono state diverse le occasioni in cui ho provato del rancore verso gli altri; di recente, per esempio, mi sono arrabbiata moltissimo con Dio e l’ho minacciato seriamente che avrei cambiato religione (sono cattolica). Non posso dire con certezza se le mie minacce abbiano funzionato o meno perché mi pare che il canale di comunicazione con Lui sia ancora molto disturbato, ma attendo riscontri. Chi lo sa che non si decida a inviarmi dei segnali!

Contemporaneamente però ho iniziato ad alimentare e a nutrire un forte rancore anche nei confronti di me stessa. Il rancore verso me stessa era ed è diverso da quello che provavo nei confronti degli altri, lo definirei più subdolo. Quando provi del rancore nei confronti di qualcuno diverso da te, puoi permetterti di cercare lo scontro se lo vuoi e ti autorizzi a ferire l’altro, senza pensare troppo alle conseguenze di ciò che fai o, almeno, mi è sembrato di aver agito così. Quando il bersaglio del tuo rancore sei tu, ti autodistruggi alle volte anche inconsapevolmente, altre volte ne sei consapevole, ma non riesci a fermarti. A me succedeva e succede che, nei confronti dell’altro prima o poi mi stancavo di provare rancore, mentre al rancore che provo nei confronti di me stessa quasi quasi mi ci sono affezionata, anzi togliamo il “quasi”.

Mi ha fatto più male la rabbia che ho provato nei confronti di me stessa, che nei confronti degli altri perché è diventata parte della mia identità e mi dispiace quasi lasciarla andare via, ma mi ha tarpato le ali, mi ha impedito di esprimermi, di vivere con spensieratezza, di relazionarmi in modo costruttivo con alcuni, di farmi conoscere davvero e potrei andare avanti ancora e ancora.

Nei momenti più difficili, criticarmi e distruggermi psicologicamente diventa la mia prima reazione. Devo lavorare un sacco per riuscire a fermarmi. Verrebbe quindi spontaneo domandarsi: ma tu vuoi fermarti o vuoi continuare a farti del male? Risposta sincera: Certo che lo voglio! Ma ci sono volte in cui non riesco a fermarmi e ho bisogno di aiuto, di riconoscere che ne ho bisogno, oggi lo so.

Dal momento che non ne sono ancora uscita, sulla carta non sono la persona migliore per suggerire o ipotizzare cosa avrebbe potuto aiutarmi a farmi meno male, ma ci tengo ad individuare, condividere e chiamare per nome, le cose che hanno funzionato e mi sono state d’aiuto.

Ad esempio, avere una funzione all’interno del Gruppo della Trasgressione mi ha aiutata ad essere più indulgente nei miei confronti, quantomeno la maggior parte delle volte. Il riconoscimento di vari componenti del Gruppo è stato un altro grande alleato. L’affetto sincero di alcune persone, da me ricambiato, è stato altrettanto importante. La tentazione di distruggermi è spesso presente al mio fianco, ma riconosco anche che fa più fatica ad attecchire di fronte al lavoro che faccio insieme ad altri in questo strambo Gruppo.

Alessandra Cesario

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

 

Tra picciotti e discepoli

La riflessione di Beatrice mi ha colpito perché è molto in sintonia con le considerazioni che ho fatto in occasione dell’incontro ad Opera con il Prof. Zuffi.

Ho avuto modo di vedere quest’opera dal vivo a maggio, a Roma, dove mi trovavo insieme al Gruppo in occasione del nostro convegno in Senato: “Una mappa per la pena”.

La cappella di San Luigi dei Francesi si trova proprio di fianco al palazzo del Senato. La Chiesa è poco illuminata poiché l’unica fonte di luce naturale è costituita da una piccola finestra e confesso che, un po’ a causa di questo ed un po’ a causa dei miei problemi alla vista, non sono riuscita a cogliere come avrei voluto le sfumature di questa opera.

Ammiravo il quadro, seguivo i commenti di Paolo e di Francesco e mentre lo guardavo pensavo alle parole del Dottor Aparo. Pensavo al contrasto tra la “chiamata della Mafia a diventare dei picciotti” e la “chiamata di Gesù che invitava San Matteo a diventare uno dei suoi discepoli”. Mi sentivo privilegiata ad essere a Roma in quel momento, appena prima del convegno al quale avrebbero partecipato da lì a poco anche l’ex Ministra della Giustizia, Marta Cartabia e il capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi.

Nonostante fossi consapevole da un lato che quella opportunità in Senato non ci avrebbe “cambiato la vita” dall’oggi al domani, dall’altro, non potevo non cogliere l’importanza che rivestiva l’essere lì dopo 17 anni di cammino all’interno di questa realtà che è il Gruppo della Trasgressione.

Lo sguardo di San Matteo, il cui dettaglio ho ammirato con più attenzione a Opera, mi colpisce molto perché lo vedo anch’io come felicemente stupito e contento di essere stato notato e di essere stato chiamato proprio da lui, da Gesù, che rappresentava per San Matteo una persona carismatica dalla quale era fortemente attratto.

 

Mi sono immedesimata anch’io in lui, come dice Beatrice. Mi sono ricordata del momento esatto in cui sono arrivata a lezione del corso di diritto di penitenziario, tenuto dalla Professoressa Mariella Tirelli. Mi ero iscritta a quel corso, che era facoltativo, scegliendolo di proposito.

Confesso che all’inizio ero lì seduta a lezione anche con aria di sfida perché mi domandavo se la Professoressa ci avrebbe rappresentato la realtà in modo veritiero o meno; da parte mia, ero a conoscenza di cosa significava essere la persona che si siede dall’altra parte del divisorio dei colloqui familiari in carcere. Erano passati pochi anni da quell’esperienza che mi aveva segnato a vita e che mi aveva lasciato dentro un sacco di domande senza risposta e un grande caos emotivo.

Fu in quell’occasione che conobbi il Dottor Aparo e i primi membri esterni del Gruppo della Trasgressione, che all’epoca erano studenti di Psicologia.

Dopo aver visto il modo in cui la Prof.ssa Tirelli affrontava le sue lezioni, sentivo molta ammirazione per lei e avrei desiderato avere ogni giorno lezione con lei per conoscere sempre di più quella realtà. Iniziai a confrontarmi dapprima in classe e poi ci venne data in seguito anche la possibilità di entrare in carcere e di conoscere gli altri membri del Gruppo, i detenuti.

Finché non detti l’esame, non raccontai né scrissi nulla riguardo la mia personale esperienza. Dopo l’esame, che fu il primo trenta della mia carriera universitaria e dopo il convegno sull’Autorità, chiesi di poter entrare a far parte del Gruppo della Trasgressione e iniziai a partecipare regolarmente anche agli incontri che si tenevano all’epoca nel solo carcere di San Vittore.

Non ci misi molto a tirare fuori. Il mio primo scritto dove mi “svelavo”. Ricordo ancora la strizza tremenda che mi accompagnava il giorno che il Prof mise sul tavolo lo scritto col quale parlavo della detenzione di mio padre. Temevo più che altro il giudizio dei miei compagni di corso e un po’ anche la reazione della Prof.ssa Tirelli, pur se, in cuor mio, sapevo che sarei stata “accolta” e che finalmente, almeno con loro, avrei potuto essere me stessa fino in fondo.

Ciò che avvenne fu proprio questo e tutte le mie paure svanirono all’istante perché mi sentii finalmente a casa, accudita, seppure si trattasse in fondo di un gruppo di sconosciuti.

La sensazione che ho provato quel giorno credo sia la stessa che provò San Matteo quando finalmente Cristo va da lui per chiamarlo a dare il meglio di sé. Anch’io, come San Matteo non aspettavo altro: qualcuno che mi chiamasse a dare il meglio di me, che non mi facesse sentire sbagliata e che mi accompagnasse nel cammino per diventare adulta. E di questo sarò per sempre grata a tanti membri del Gruppo della Trasgressione.

Oggi mi sento anche di condividere uno scritto che ho elaborato dopo il convegno di Roma. Il Ministro della Giustizia italiano è oggi cambiato, ma desidero rivolgere al Prof. Carlo Nordio le parole che ho scritto a maggio perché è bello sentire di poter comunicare con chi ha la facoltà di orientare il prossimo futuro dell’istituzione nella quale lavoriamo.

Alessandra Cesario

Caravaggio in città

Verbale 29/04/2022

Verbale riunione Gruppo 1° Reparto Bollate
di Alessandra Cesario

  • Luca
    Quale motivazione le serve, Dott. Aparo, per venire ancora in galera dopo tanti anni?
  • Aparo
    Bella domanda. La giro ai membri del gruppo: cosa ci vuole per motivare me o voi o gli altri componenti a fare il Gruppo della Trasgressione in carcere?
  • Lara
    Innanzi tutto, ci vuole una persona che sappia coordinare il Gruppo. In secondo luogo, credo che occorra avere uno scopo poiché senza uno scopo non ci si muove. In più questo gruppo è una buona occasione per conoscerci e la conoscenza porta quasi sempre ad una riflessione.
  • Luca
    Io personalmente ho sempre chiesto di parlare con qualcuno come voi o con uno psicologo per capire come mai io sono così. Credo che quasi tutto parta dalla famiglia. Secondo me il genitore neanche si rende conto di quale seme pianta dentro al proprio figlio o figlia.
  • Carmine
    Io non la vedo necessariamente così, tutto sta dentro di noi e noi decidiamo come gestirci.
  • Luca
    Sì, ok, ma me lo domando poiché vedo a volte suicidarsi dei ragazzi che provengono da famiglie benestanti, che apparentemente non avrebbero nessun motivo per arrivare a compiere un gesto del genere ed io mi domando come mai uno che vive senza che gli manchi nulla di materiale, arrivi a togliersi la vita.
  • Carmine
    Anch’io conosco una famiglia di persone benestanti del mio paese d’origine che ha vissuto la tragedia del suicidio del proprio figlio. Il padre è un avvocato e la madre un’insegnante, ma hanno cresciuto i loro figli opprimendoli, e per il figlio che era cresciuto in questo clima, contava solo lo studio, mai un divertimento. Un giorno si è tolto la vita.
  • Detenuto
    Io credo che un padre non debba imporre il proprio volere al figlio, ma lo debba lasciare libero di compiere le proprie scelte.
  • Aparo
    Non è Lei, Luca, la persona che in un altro nostro incontro ha detto che: “Uno abusa perché si sente abusato“? Se parliamo di abuso le questioni relative alla classe sociale di appartenenza contano relativamente.
  • Luca
    Ha ragione Dottore, infatti, io ancora mi ricordo un abuso che ho ricevuto a 8 anni, quando mio padre mi regalò un completino del Milan, la mia squadra, a cui tenevo tantissimo ed un gruppo di miei coetanei mi prese in giro dicendomi che non era quello originale. La mia famiglia era una famiglia modesta, i miei genitori certamente cercavano di non farmi mancare nulla, ma magari non mi davano ciò che io desideravo. Forse per questo motivo mi domando perché uno appartenente ad una famiglia ricca dovrebbe mai compiere del male? Se vuole le posso raccontare anche di un abuso che ho subito poco fa da parte di un educatore.
  • Filippo
    Io sono giunto nel carcere di Bollate dal carcere di Volterra e sono venuto qui per il lavoro. Ma da quella che è la mia esperienza, carceri buone in Italia non mi pare di vederne.
  • Aparo
    Il carcere di Bollate, ovvero quello in cui ci troviamo ora, è considerato uno dei migliori d’Italia.
  • Cristian
    Per me questo carcere o un altro non conta nulla (riferendosi ai commenti fatti prima da alcuni detenuti su quale carcere fosse il migliore). Io ho sputato in faccia alla mia libertà, alla mia famiglia, ai miei figli e quindi questo carcere oppure un altro non contano nulla perché lo vedo solo come una punizione. Mi sento un fallito, faccio pensieri di cui ho paura. Tra poco tempo, ad esempio, potrei addirittura ottenere la concessione del reato continuato e quindi potrebbero assegnarmi delle attività all’esterno, tra non molto ho finito e questo carcere non mi sta dando nulla. Oggi io non la sicurezza di me stesso, ho paura di fare la stessa fine di Ivan (ex detenuto ed ex tossicodipendente trovato morto su una panchina).
  • Luca
    Ma tu che obiettivi ti sei dato nella vita?
  • Cristian
    Guarda, se pensi di essere una nullità hai di fronte a te fondamentalmente 2 opportunità: o ti ammazzi; oppure ammazzi una persona diversa da te. Ho bisogno di costruire basi solide per me. Pensavo anche di aver chiuso definitivamente con la tossicodipendenza, ma oggi non sono più sicuro di nulla. Io ho bisogno di qualche cosa che mi dia le basi per trovare il mio posto nella società. Qui sei chiuso e basta ed io voglio la mia libertà, voglio altro.
  • Carmine
    Ho visto purtroppo altri compagni detenuti caduti in depressione come lui e la cosa che mi sono sentito di fare è stato prima di tutto parlarne con l’educatore di riferimento (Bezzi) in modo che questi compagni potessero essere ascoltati e tenuti d’occhio, ma soprattutto che avessero l’opportunità di parlare con una figura competente in grado di aiutarli.

Personalmente ho cercato negli anni di farmi forza partecipando ad alcune attività e tenendomi impegnato, come ad esempio, lavorare nella redazione del giornale del carcere. La prima cosa che faccio comunque è parlare con questi compagni detenuti che hanno problemi di depressione e cercare di essere loro d’aiuto e questo metodo, devo dire, l’ho appreso facendo un percorso di Peer support nel carcere di Opera insieme al Dott. Aparo.

  • Alessandra
    Intanto, trovo assolutamente legittimo che Cristian si ponga queste domande. Non mi piace l’approccio di chi risponde ad una persona che si trova a vivere uno stato d’animo drammatico: “Ma sì, non ci pensare, vai avanti”.  Con ciò, non voglio affermare che Luca abbia avuto un atteggiamento irrispettoso nei confronti di Cristian perché gli ha posto una domanda in buona fede, cercando di fargli spostare lo sguardo, ma in quel momento si vedeva che Cristian aveva bisogno di condividere il suo dramma.

Anzi ringrazio Cristian perché penso che ci voglia anche un gran coraggio, mi vien da usare questo termine anche se forse non è corretto, a parlare dei propri stati d’animo, così delicati, di fronte praticamente a degli estranei perché, mi pare di capire che, a parte loro due (Giuseppe e Carmine), non credo tu abbia legami profondi con altri dei presenti e vedi noi membri del gruppo per la prima volta.

  • Cristian
    Infatti, io mi sento fottuto e vivo il carcere solo come una punizione attualmente.
  • Aparo
    Ludovica cosa hai notato da quando è cominciato il gruppo?
  • Ludovica
    Ho notato che è un gruppo molto eterogeneo, pochi membri che conoscono già il Gruppo, sono più numerosi i nuovi. Mi domando se non potremmo continuare a farci queste domande qui al gruppo, non tanto per psicoanalizzarci, ma piuttosto perché potremmo darci tutti degli strumenti per migliorarci. Chiedo a Cristian: “Ci sarà qualcosa che ti farebbe stare meglio, nel senso di farti sentire almeno libero di mente, inoltre, ci sarà un motivo per cui vieni qui?”
  • Cristian
    Oggi vengo qui al gruppo per cercare di evadere da questi pensieri. Mentre prime, nel 2019, partecipavo al gruppo perché avevo un obiettivo e avevo uno scopo.

Forse la morte di mia madre, avvenuta un anno fa, mi ha dato il colpo di grazia perché mi ha dato una sensazione di abbandono totale. Oggi le mie paure sono tante e sono aumentate rispetto al passato. Se domani ipoteticamente mi dicessero che mi hanno concesso il reato continuato (che poi è proprio ciò che desideravo), io non lo so cosa fare perché a qual punto potrei addirittura accedere a delle attività lavorative all’esterno, ma ho paura, forse preferirei andare in un centro assistenza, non lo so, non so più cosa desidero. Ho bisogno di ricostruire le mie basi, sono pieno di pensieri negativi.

  • Aparo
    Non si diventa uomini soltanto imparando a parlare, ma occorre anche imparare ad ascoltare. Abbiamo iniziando questa riunione parlando del più e del meno, di quale carcere fosse meglio, Bollate, Opera, ecc., adesso stiamo parlando di cose impegnative e responsabilizzanti.

Giuseppe Leotta mi ha convinto a fare il gruppo della trasgressione anche qui al primo reparto e, facendolo, si è assunto una responsabilità.

Ho sentito ciò che ha detto Cristian: genuino, autentico, senza coperture. Non è che gli altri parlino sempre con le coperture dell’ipocrisia addosso, ma si sa che ognuno, dentro e fuori dal carcere, riveste le proprie insicurezze con una sorta di scorza o di corazza, per proteggersi perché con la pelle scoperta si è più esposti.

Sono contento che Cristian abbia parlato e non ho paura che si suicidi. Allo stesso tempo capisco che lui ha la vivida consapevolezza di essersi fottuto con la droga. Le altre persone, ad eccezione di Emanuele che si è fottuto col gioco d’azzardo, non parlano di questa sensazione così vivida come lo fanno loro.

  • Filippo
    Non l’ho esposto ad alta voce, ma anche io mi sento così. Io ho fatto una cosa gravissima, un omicidio, quindi ho fottuto e fatto del male ad un sacco di persone, prima di tutto ai famigliari della mia vittima, poi alla mia famiglia, a mia moglie, ai miei figli. Personalmente, a differenza di lui, cerco di farmi forza con il lavoro, sono arrivato in questo carcere con l’obiettivo di lavorare.
  • Aparo
    Bene, lei, per dire ciò che ha appena detto, si è appoggiato a ciò che ha detto Cristian. E questo dimostra che è utile ascoltare prima di tentare di consolare o di distrarre dal problema. Cristian ha messo sul tavolo la cosa che vive in maniera pesante, netta, vivida, la sensazione di essersi fottuto. La madre è morta, il padre era morto anni prima, la moglie si è allontanata e di conseguenza ha allontanato i propri figli, quindi lui afferma: “Non è che avere l’acqua calda in carcere mi dispiaccia, ma non è questo ciò che voglio. Ho bisogno di mettere le basi per costruire. Se mi mettono al continuato, ok grazie che sono fuori, ma io non ho nulla fuori”. Questo lui lo sa, ma è bene, quando è così, che abbiano il coraggio di riconoscerlo anche gli altri.

Prima dicevo che per diventare uomini non occorre solo imparare a parlare, ma occorre anche un grembo, ovvero la capacità di accogliere. Lei, Luca, ho notato che è troppo maschio, soverchiava Cristian con le sue domande. Lui (Cristian) aveva bisogno di parlare. Se uno ti dice che sta male, tu devi avere il coraggio di ascoltarlo, perché nel momento in cui lui ti sta parlando di sé, della sua umanità, sta parlando anche della tua umanità e tu devi avere l’umiltà di accoglierla.

Giuseppe Leotta ha imbandito la tavola, ha voluto fortemente che si facesse il Gruppo della Trasgressione anche in questo reparto, ci ha accolto perché con i mezzi che aveva a disposizione e all’interno della situazione e dei limiti e dell’ambiente particolare in cui troviamo, lui ha fatto diventare questo luogo un grembo.

Il carcere è un luogo dove si soffre e siamo d’accordo sul fatto che spesso non vengano offerti degli strumenti adeguati, anche se qui a Bollate ci sono delle condizioni migliori che in altri istituti penitenziari (questa stanza ne costituisce un esempio).

Io ho iniziato la mia carriera in carcere litigando col direttore perché nella stanza in cui lavoravo c’erano 13 gradi e congelavo dal freddo e, alla mia richiesta che ci fosse una temperatura adeguata dove lavoravo, il direttore replicava di mettermi un maglione di lana in più.

Bisogna servirsi di ogni strumento che abbiamo per costruire, e occorre che le persone imparino a costruirsi e a salvarsi poiché in questo momento l’Istituzione non è ancora in grado di farlo in modo adeguato, non è in grado di fare ciò che ha fatto Giuseppe, che ha fatto diventare casa una stanza qualsiasi.

  • Michele
    Quindi si può affermare che l’istituzione non ha percepito bene il suo compito?
  • Aparo
    L’Istituzione non ha ancora identificato gli strumenti per realizzare quello che dichiara di volere.
  • Giuseppe Leotta
    Devo dire prima di tutto che Carmine mi ha sostenuto nell’idea di voler fare questo Gruppo anche qui in questo reparto. Le persone sono convinte che questo carcere è il migliore, che qui è tutto più bello, ma non è così chiaramente. Vi dico solo che chi lavora nell’area industriale è il 10 % della popolazione attualmente qui detenuta poiché siamo in circa 1300 detenuti. Per cui, se non facciamo il Gruppo non siamo impegnati e non abbiamo nessuno stimolo. Ciò che ha detto Cristian è sacrosanto. All’interno di questo gruppo, possiamo condividere le nostre esperienze e prendercene cura. Creare qualcosa è molto utile perché ci può portare a fare esperienze diverse rispetto al passato.
  • Luca
    Effettivamente mi scuso con Cristian perché mi sono reso conto, come ha detto lei Dottore, che non l’ho ascoltato. Io volevo solo dire che lui potrebbe iniziare a domandarsi che obiettivi ha o quali vuole raggiungere.
  • Detenuto
    Io sono scappato da Opera, sono detenuto dal 2009 e Bollate è la mia ultima spiaggia. Qui mi sono un po’ ripreso, ho ricominciato a vivere. Tutti abbiamo i nostri problemi fuori, ma penso che dobbiamo reagire, penso che dobbiamo metterci in gioco e farci conoscere.
  • Giuseppe Leotta
    Se però non ti impegni in qualcosa, non ti farai mai conoscere da nessuno. Qui magari tu percepisci meno rigidità, ma non è così e comunque se non fai niente tutto il giorno, sei spacciato.
  • Michele
    Anch’io mi sento come Cristian. Mi sento che mi serve un’àncora per non farmi travolgere dalle onde. Penso che dobbiamo sfruttare ciò che ci viene offerto. Il problema però non è quando usciamo, ma è ciò che ci portiamo fuori quando usciamo dal carcere. Ci dobbiamo portare fuori qualcosa che ci serva per costruire perché è questo che ci può aiutare.
  • Luca
    A me piacerebbe andare a parlare nelle scuole perché io mi sento un esempio che potrebbe essere studiato dagli studenti di psicologia come voi o da altri studenti. Ho fatto una riflessione, ad esempio, sul significato che può avere il termine “trattamentale”. Non credo che la parola “trattamentale” sia adeguata in questo contesto perché mi fa sentire come una cavia che deve essere analizzata e curata. Trovo che sarebbe più appropriato aggiungere: Area EDUCATIVA e trattamentale”.

Come lo stato si è impegnato nella lotta contro la mafia, si dovrebbe impegnare con altrettanto zelo a portare nelle scuole noi detenuti. Per esempio, l’abuso di cui parlavo prima, l’ho vissuto da parte dell’educatore con il quale ho avuto il colloquio, che non ha fatto altro che approcciarsi a me con il proprio pregiudizio davanti e non andando oltre, io non lo accetto.

  • Aparo
    Non so se la scuola che dovrebbe entrare qui a Bollate giovedì otterrà il permesso, ma in ogni caso è previsto che entrino delle scuole.

Adesso voglio parlare della depressione. La depressione mi piace perché è cosa diversa dall’euforia del coglione o dalla sensazione di onnipotenza che ti può regalare la cocaina o il correre a 300 km/h in auto. La depressione, infatti, ti restituisce il tuo fallimento, ti porta a riflettere su ciò che hai fallito o che non hai portato a termine. Nella depressione hai anche dei momenti di lucidità perché ti senti responsabile di ciò che hai perso o che non sei stato in grado di costruire. La depressione è dolorosa, ma è portatrice di consapevolezza. Da questo punto di vista la depressione è un trampolino di lancio per costruire il proprio futuro.

Fino a quando uno si sente un supereroe non ha un buon punto di partenza. Invece, la depressione, per quanto sia doloroso viverla, ti indica una base su cui poter costruire.

Inoltre, per costruire servono degli alleati, un individuo può sceglierli buoni oppure no, ma rimane necessario avere degli alleati per poter costruire.

Le morti di tua madre e di tuo padre non sono avvenute per causa tua; vero è che ti sei fottuto con la droga e che con il tuo comportamento hai fatto allontanare tua moglie e, di conseguenza i tuoi figli. Adesso ti tocca costruire in modo da farli riavvicinare, a meno che tu non abbia deciso che sei una cacca oggi e per sempre.

I tuoi figli, ma anche i figli in generale, non hanno la possibilità di poter liquidare del tutto i propri genitori, anche quando li odiano, rimangono in attesa che i loro genitori risorgano. É come se il figlio non potesse diventare adulto, se non recupera il rapporto col padre.

È vero che lei, Cristian, ha fatto in modo che i suoi figli si allontanassero da lei con il suo comportamento, ma è anche vero che c’è la possibilità di recuperare un rapporto con loro e che spetta a lei questo compito. A tale scopo, è utile, anzi necessario che non si suicidi e poi che iniziamo insieme a costruire.

Verbali

 

Verbale 21/04/2022

Verbale riunione Gruppo 2° Reparto Bollate
di Alessandra Cesario

  • Aparo
    Questa è la terza riunione del gruppo qui al 2° reparto e siamo un po’ tutti relativamente nuovi. L’idea è quella di far ripartire il Gruppo qui a Bollate e poi, una volta che la situazione Covid si sarà tranquillizzata, ci si potrà riunire insieme a detenuti di altri reparti, così da giungere a un gruppo unico nell’area trattamentale.
  • Ludovica
    Vorrei chiedere ai detenuti presenti cosa si aspettano da un gruppo come il nostro. Non so, ad es., non avevate altro da fare? Vi aspettate di cambiare? Altro?
  • Aparo
    Non è semplice rispondere a questa domanda perché, a parte Alessandra e Giovanbattista, quasi tutte le persone qui presenti, compresi gli studenti, sono nuovi al gruppo e non sanno come funziona.
  • Massimo
    Sono dell’idea che non è il gruppo che cambia le persone. Si può imparare e acquisire qualcosa da chiunque, anche dall’uomo che si considera magari il più primitivo. Dal confronto con gli altri capiamo chi siamo. Sta poi a te cambiare. È sicuramente meglio stare qui che starsene in cella. Magari dal confronto con le altre persone, ci si rispecchia anche nelle vicende di altri.
  • Leandro
    Sono qui per un arricchimento personale. Voglio studiare, voglio sfruttare al massimo tutte le opportunità che mi si presentano e non sprecare il mio tempo.
  • Massimo
    Invece di buttare il tempo preferisco stare qui, altrimenti me ne starei sdraiato sulla branda a continuare a parlare di carcere. Comunque lo faccio per me, non per dimostrare qualcosa a qualcuno. Già in carcere l’istituzione non ti offre tanto, ma visto che ora ho del tempo a disposizione preferisco essere qui. Vieni qui anche per non farti schiacciare dai pensieri, evadere dalla noia e intanto imparo anche delle cose nuove.
  • Michele
    Inizialmente sono venuto per distrarmi, per curiosità, poi però mi sono sentito coinvolto dai discorsi che abbiamo fatto.
  • Aparo
    E tu Ludovica perché non rivolgi a te stessa questa domanda, perché sei qui?
  • Ludovica
    Per quanto mi riguarda, non sono una tirocinante, ma tutto è partito dal fatto che sto scrivendo una tesi sulla devianza e mentre cercavo spunti per la tesi sono incappata nel vostro sito e ho voluto conoscere questo gruppo e il vostro lavoro per capire e approfondire la materia. Poi, man mano che sono andata avanti a conoscere, mi sono appassionata al progetto del gruppo. Tra l’altro, devo dire che all’esterno spesso c’è un forte pregiudizio nei confronti dei detenuti ed io non sapevo cosa aspettarmi e invece sono rimasta proprio colpita e mi sono proprio commossa durante gli incontri del gruppo all’esterno ad ascoltare le esperienze di persone, che sono state detenute come voi. Tra l’altro mi sono chiesta come avevano fatto a diventare così belli e mi sono appassionata alla causa.
  • Massimo
    Per me non esistono persone solo cattive o persone solo buone perché anche persone all’apparenza del tutto innocue possono rivelarsi poi malvagie. Ti faccio l’esempio del mio vicino di casa con il quale non avevamo mai avuto grosse discussioni, se non magari ogni tanto per il parcheggio. Un giorno mi sono ritrovato in auto con la mia famiglia, mia moglie ed i miei figli e quando ho schiacciato il freno, ho realizzato che il pedale schiacciava a vuoto e non funzionava più. Per fortuna non è successo nulla di grave, ma mi ha fatto riflettere sul fatto che gli uomini malvagi possono essere anche fuori e non solo in carcere o pregiudicati.
  • Aparo
    Credo che la commozione – che si verifica quando uno sente qualcosa di particolarmente coinvolgente- tu non l’abbia provata perché di fronte a te c’erano delle persone particolarmente nobili o sensibili, ma per delle particolari circostanze che ne hanno esaltato la sensibilità. Ci si aspetta che i detenuti siano persone prive di sensibilità; e così, se un detenuto dice una cosa profonda, ci si sorprende e ci si intenerisce come quando si constata che anche gli animali feroci si prendono cura dei loro piccoli. Tu in carcere non hai trovato delle persone particolarmente belle, ma delle persone che in specifiche circostanze, attorno a un tavolo di discussione, sono riuscite ad esprimere le parti belle che avevano recuperato dentro di sé; non è strano che, a seconda delle circostanze, l’essere umano dia il meglio o il peggio di sé.
  • Leandro
    Secondo me dipende anche dalle diverse circostanze della vita. Puoi coltivare sentimenti diversi dentro di te, che possono fare di te un buono oppure un cattivo.
  • Ludovica
    Alla fine, si può dire che mi sono commossa perché partivo da un pregiudizio. Mi è successo anche in un altro gruppo, dove c’erano persone che erano state maltrattate o bullizzate a causa del loro orientamento sessuale, di conoscere delle persone che avevano un vissuto particolare e che si sono rivelate alla fine delle persone migliori.
  • Aparo
    Sprecherei 43 anni di esperienza in carcere se non evidenziassi che la persona che ha dato il peggio di sé, magari per 20 anni di seguito, se messa nel contesto giusto, con i giusti stimoli, può diventare una persona sensibile. La responsabilità della politica, della società tutta, soprattutto delle persone che hanno avuto la possibilità di studiare e di crescere in un ambiente sereno e accogliente, dovrebbe essere quella di costruire una società in cui anche l’uomo che ha dato il peggio di sé possa essere messo nelle condizioni di rintracciare ed esprimere il meglio di sé. Realizzare questo è difficile, ma è necessario ed è possibile fare in modo che le persone trovino le condizioni per dare il meglio di sé spontaneamente e non perché controllate dall’esterno. Chi si occupa seriamente di questa materia deve tener conto del fatto che le persone che tu hai definito e trovato “belle “, sono gli stessi individui che dopo aver commesso un omicidio brindavano con lo champagne. Acquisito che è possibile passare da una condizione all’altra, è importante per chi si occupa di devianza chiedersi come si fa a promuovere questa evoluzione.
  • Ilaria
    A me viene da fare una domanda Prof. Mi chiedo: ma quindi siamo tutti capaci di commettere reati, anche io, quindi cosa dobbiamo fare, li giustifichiamo? Sono delle vittime? È sfortuna?
  • Aparo
    Intanto la risposta alle tue domande è: sì, siamo tutti potenzialmente capaci di commettere reati, ma no, non li giustifichiamo e non sono vittime.
  • Fabrizio
    No, non siamo da giustificare, ci siamo contornati di presupposti sbagliati che ci hanno portati a fare scelte sbagliate.
  • Michele
    Puoi partire dalla scelta in realtà, se io posso fare del male, allora posso avere delle conseguenze.
  • Aparo
    Vorrei evidenziare che mentre tu (Ilaria) stai sottolineando com’è possibile arrivare a fare del male, lui (Michele) sottolinea il fatto che, se fa del male, può pagarne le conseguenze. Ciò avviene perché tu Ilaria sei cresciuta con il tabù del fare male agli altri, lo hai interiorizzato come una cosa che non si fa, mentre lui no. A seconda delle circostanze, uno può essere indotto ad allenare la propria voglia di costruire o la propria mediocrità. Ci sono delle persone che sono cresciute in condizioni nelle quali tradire o prendere delle scorciatoie è normale e altre per le quali tradire gli altri richiede prima un allenamento, fino a che il tradimento e l’abuso non diventano una cosa naturale. È così che si diventa nazisti.
  • Massimo
    A me ha fatto riflettere un film che ho visto, nel quale il protagonista diventa un assassino dopo che ha subito un evento traumatico, ovvero lo stupro e l’omicidio della sua compagna incinta e poi lui per reazione inizia a cercare i responsabili e li uccide uno ad uno.
  • Alfonso
    È la situazione che si crea intorno che conta quando uno fa del bene o del male, ad es., una persona in difficoltà può scegliere ed io ho scelto di fare del male per fare la bella vita.
  • Aparo
    E l’ha fatta, la bella vita?
  • Alfonso
    No. Finora no. Però sfido chiunque con 800 euro al mese a campare una famiglia di quattro persone; è per questo che la maggior parte delle persone sceglie di fare la cosa sbagliata. Se invece uno guadagnasse una cifra adeguata a poter vivere tranquillo, ci penserebbe due volte.
  • Michele
    Io ho deciso di fare la cosa sbagliata perché volevo arrivare per primo, ma anche perché volevo offrire un futuro migliore ai miei figli ed evitargli preoccupazioni.
  • Aparo
    Tanto per cominciare, non è vero che quando uno commette reati lo fa per il benessere dei propri famigliari. Un capitolo a parte riguarda il fatto di “arrivare prima degli altri”. Arrivare dove? Ad esempio, Ilaria, che ha come obiettivo la laurea, non ci può arrivare prima e non ne ha bisogno. I vostri due obiettivi sono completamente diversi, lei non vuole lo yacht, la casa di lusso; Michele, invece, si è convinto che il suo obiettivo fosse arrivare in breve ad avere soldi. Bisogna capire come ciascuno di noi si convince che i propri obiettivi siano di un tipo invece che di un altro.
  • Fabrizio
    Perché realmente non avevamo obiettivi.
  • Aparo
    Ci si deve domandare: com’è possibile che uno, a 14 anni, prende come obiettivo la BMW e un altro non la considera per nulla. Bisogna chiederselo!
  • Michele
    Io mi sentivo un coglione a non avere i soldi. Quindi, quando mi hanno proposto di portare una valigia con la droga in cambio di duemila euro ho accettato.
  • Leandro
    Ci sono ambienti diversi in cui si cresce.
  • Aparo
    E ti sei mai chiesto coma mai per essere TE avevi bisogno di soldi e lui no? Come mai sei cresciuto con quel desiderio? Forse perché sei cresciuto in un ambiente in cui non hai coltivato l’ambizione di trasformare il mondo.
  • Alfonso
    Per me non è così. Io sono qui perché mi sono ritrovato coinvolto in una situazione, poi che mi piacesse fare quello che facevo è un altro conto.
  • Aparo
    Certo che se a 14 anni l’obiettivo è avere la BMW allora sei spacciato.
  • Michele
    Io, per esempio, a 14 anni lavoravo nei mercati e davo i miei soldi in casa a mia madre, da grande non volevo far vivere ai miei figli la mancanza di soldi che avevo vissuto io da piccolo, quindi mi sono messo a spacciare. Ora però non do la mia presenza ai miei figli.
  • Aparo
    Secondo te perché lui si è messo a studiare? Perché è brutto, sfigato? Non vi viene mente di chiedere agli studenti del gruppo quali sono i loro obiettivi e perché?
  • Francesca
    In realtà non è sempre stato chiaro l’obiettivo da raggiungere nella mia testa. Sono cresciuta in una famiglia umile e sicuramente l’ambiente in cui sono cresciuta ed i miei genitori mi hanno aiutato a capire che studiare mi avrebbe portato ad avere più soddisfazioni, nonostante fossi circondata da coetanei che avevano più possibilità economiche della mia famiglia e questo, a volte, mi ha creato conflitto. I miei genitori sono stati fondamentali nel farmi capire che i veri valori sono altri e che i soldi e l’apparenza non sono tutto, però ci ho messo anche del mio. Ho capito che ero circondata da persone superficiali.
  • Leandro
    Io, ad esempio, ho perso mio padre quando avevo 3 anni e sono sempre stato solo, nessuno mi ha accompagnato nel capire le cose o me le ha spiegate. Tu invece avevi qualcuno che ti ha supportato.
  • Michele
    L’ambiente però ti può portare anche a questo.
  • Aparo
    Gli studenti, in qualche modo, hanno il tabù che “non si può fare del male agli altri”. Certo che questo valore te lo deve trasmettere qualcuno che ai tuoi occhi è credibile. Tu, Francesca, che affermi di aver vissuto il conflitto, come lo hai risolto?
  • Francesca
    I miei genitori sono stati una guida. Mio padre e mia madre mi hanno fatto capire che non era vitale essere circondati dal denaro.
  • Camilla
    Sono tantissime le situazioni che ti portano a commettere reati. L’importanza dell’avere una guida credibile fa tanto. Personalmente vorrei essere una persona che può fare del bene e arrivare in punto di morte e poter dire che ha avuto senso essere stata me e aver fatto del bene a qualcuno e ha avuto senso arrivare fino a qui. Vorrei poter vivere con il conforto di fare qualcosa di buono, potendo essere fiera di me stessa.
  • Aparo
    Da questo punto di vista lei è fortunata ad essere cresciuta in un ambiente in cui un valore di riferimento era l’essere fieri di aver fatto qualcosa di buono.
    Lei, Michele, è lodevole che abbia messo da parte dei soldi per i suoi figli, ma penso che le causi un certo conflitto dire ai suoi figli che li ha messi da parte spacciando. Si potrebbe chiedere agli studenti: ma tu preferisci che tuo padre ti metta in tasca cento euro oppure essere fiero di lui? Leonardo che dici tu?
  • Leonardo
    In realtà io non ho un buon rapporto con mio padre, adesso lui vive anche lontano in Belgio e per mia scelta ho deciso tempo fa di allontanarlo dalla mia vita.
  • Aparo
    E tu, Ilaria?
  • Ilaria
    Anch’io non ho un buon rapporto con mio padre, ma non ne voglio parlare e non riesco a parlarne, mi vien da piangere.
  • Francesca
    Mio padre mi ha indirizzato. Mi ha detto segui le tue passioni e fai le cose fatte bene perché così poi potrai farti valere nella vita.
  • Ilaria
    Le mie guide comunque sono state mia madre, mia nonna e mio zio e se sono orgogliosa di me oggi, lo devo soprattutto a loro.
  • Giorgio
    L’altra volta si piangeva da questa parte del tavolo, quindi non temere se ti viene da commuoverti. Qui si riesce a confrontarsi, anche a differenza di ciò che accade all’esterno fuori da qui, perché ormai non ci si ascolta più. L’altra volta si parlava di obiettivi che l’istituzione non aiuta a raggiungere perché non chiede nulla ai detenuti. In una società dove ormai le persone non comunicano più, mi aspetto che qui dentro, all’interno di questo gruppo, dato che non bisogna apparire, ci sia la possibilità di condividere.
  • Alessandra
    Sono rimasta molto colpita dalle parole di Michele, quando ha affermato che lui ha scelto di delinquere per fare in modo che i suoi figli non dovessero soffrire le difficoltà economiche che aveva affrontato lui da piccolo per metterli da parte dei soldi.
    Io sono arrivata al gruppo come studentessa di giurisprudenza, ma ho condiviso col gruppo anche la mia personale esperienza che è quella di essere la figlia di un uomo che si è ritrovato recluso come voi oggi. La detenzione di mio padre non è durata a lungo fortunatamente ed è avvenuta nella fase delle indagini e comunque non hanno importanza i dettagli della mia storia, ma vi posso assicurare che ho vissuto in prima persona tutte le difficoltà che comporta il vivere questa situazione da figlia. Quando mio padre è stato arrestato avevo 17 anni e comunque dentro di me è cresciuta una rabbia che ho impiegato anni ad elaborare. La mia testa era piena di domande alle quali gli adulti non erano sempre in grado di rispondere. Poi mi sono iscritta a Giurisprudenza perché volevo capire come funzionava la macchina della giustizia da dentro, volevo capirne i meccanismi e poi sono approdata qui in questo gruppo forse per continuare a capire e capire anche mio padre. Io ho un ottimo rapporto con lui – lo avevo anche prima – ma abbiamo dovuto fare un percorso insieme, lui ha dovuto ricostruirsi come uomo prima e poi come padre.
    Posso dire però che nella mia vita sono stata fortunata perché comunque ho avuto dei grandi punti di riferimento credibili ai quali guardare e ai quali mi sono affidata, in primis, mia madre e poi un insegnante che mi ha sostenuto in quel periodo e che ancora oggi è un amico. Inoltre, sono cresciuta in un ambiente in cui sono stata voluta bene, mi è stato insegnato che io avevo un valore e che c’erano persone che tenevano a me. Oggi che sono anche madre di due bambini, sento la responsabilità di perseguire i miei obiettivi che non sono obiettivi che si raggiungono coi soldi, ma sono obiettivi che mirano a farmi dare il mio contributo nel mondo.
    Se avessi potuto, avrei chiesto a mio padre di inseguire meno il prestigio economico e di concentrarsi su altri obiettivi, ma alla fine mi consola il fatto che questa esperienza ha portato nella mia vita anche altri punti di riferimento che oggi ritengo fondamentali per me.
  • Giovanbattista
    Io, come tanti di noi, ho avuto una crescita abbastanza regolare, fino a che non ho deciso di ritirarmi da scuola e di andare a lavorare, tutto ciò l’ho sempre fatto circondato da un contesto criminale. Fino a 28 anni ho condotto una vita abbastanza regolare, poi è successo qualcosa che ancora non riesco a definire che mi ha cambiato e sono finito a fare uso di cocaina e da lì sono iniziati i problemi. Ho venduto il negozio perché non avevo più la testa di fare andare avanti l’attività, ho iniziato a fare rapine, fino a che non ho commesso anche un omicidio. Ero in carcere da 15 anni, poi sono uscito circa un anno fa e mentre ero fuori dopo un anno e mezzo sono ricaduto nella stessa spirale negativa e sono ritornato di nuovo in carcere. Al gruppo sono venuto per curiosità e sono venuto per capire anche perché ho iniziato a fare reati.
  • Aparo
    La volta prossima approfondiremo la cosa. Giovanbattista ha detto che è cresciuto in un ambiente in cui il reato era ad ogni angolo della strada. Ma se approfondiamo la questione, scopriremo che conta molto anche il rapporto coi propri genitori. L’abuso che si commette ai danni di qualcuno corrisponde al trasferimento sul malcapitato di un abuso o di un tradimento che si sente più o meno consapevolmente di aver subito. Se tu nella tua testa ti senti tradito da tuo padre, allora uno dei modi che hai per fargliela pagare è commettere reati.
    Per la prossima volta vorrei recuperare una poesia di Giovanbattista. Questa poesia parla di un’offesa verso suo padre e di un suo dolore. Tante volte le offese subite e quelle fatte si impastano e creano nebbia nella mente e, intanto che vivi nella nebbia, continui a offendere gli altri e te stesso. Quando ci si droga si vive col bisogno di offendere sé stessi e chi ti ama, o la persona dalla quale ti aspettavi amore e hai ricevuto altro; è come se volessi dire ai tuoi genitori: io me ne fotto di chi avete messo al mondo, visto che per voi non valgo niente, non valgo niente nemmeno per me e pertanto vado alla deriva. Comunque, è un discorso complesso che affronteremo un’altra volta.

Verbali

La piccola tigre

Storia della piccola tigre

La piccola tigre aveva delle regole.

Una notte i suoi genitori le dissero “Puoi andare ovunque tu voglia ma non avvicinarti mai al precipizio perché potresti cadere”.

Una notte lei si avvicinò perché più si avvicinava più cose sentiva, più cose vedeva.

Un giorno lei cadde e volò nel Domani.

Beatrice Cauzzi, anni 8

Officina creativa

 

Coscienze esiliate e procedure per il rimpatrio

In questi giorni, a seguito della recente pronuncia della Corte costituzionale riguardo all’ergastolo ostativo, si sono riaccesi i riflettori su un tema che, oltre ad essere molto complesso, è anche molto discusso. Ne abbiamo parlato più volte anche al Gruppo della Trasgressione e mi sono resa conto che per i non adddetti ai lavori si fa un po’ di confusione tra l’art. 4 bis e l’art. 41 bis O.P.

Da giurista, credo dunque utile, come prima cosa, puntualizzare che c’è una differenza tra l’art. 4 bis Ordinamento Penitenziario (il c.d. ergastolo ostativo) e l’art. 41 bis Ordinamento Penitenziario, che prevede misure più restrittive di detenzione (c.d. regime di carcere duro), anche senza la condanna dell’ergastolo. In secondo luogo va chiarito che non è solo la pena dell’ergastolo che può diventare “ostativa”, ma anche qualsiasi altra pena che venga inflitta per uno dei reati elencati dal suddetto articolo 4 bis. Tutte le condanne con l’ostatività escludono i normali benefici di legge, le misure alternative, ecc.

Nel nostro ordinamento sono previsti attualmente due tipi di ergastoli: quello “ordinario” e quello “ostativo”. Quest’ultimo è un tipo di pena che è stato introdotto dal Decreto emanato all’indomani della strage di Via D’Amelio (D.L. n. 306/1992) e si affianca alla norma codicistica che prevedeva l’ergastolo ordinario. Ciò comporta che chi viene condannato all’ergastolo per i delitti “ostativi” indicati dall’art. 4 bis della Legge sull’Ordinamento Penitenziario non può avere accesso ai benefici penitenziari, a meno che non collabori con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter della medesima legge.

La conseguenza è che questo tipo di ergastolani (c.d. ostativi) sono condannati di fatto a una pena perpetua che non promuove un percorso rieducativo, quando invece sappiamo che chi viene condannato alla pena dell’ergastolo ordinario, dopo ventisei anni di detenzione e un percorso di confronto e di seria rivisitazione del proprio passato (che può essere avviato fin dai primi anni di carcerazione), può (se il Magistrato di Sorveglianza competente lo ritiene opportuno e acconsente) accedere ai benefici penitenziari.

Le polemiche che si sono susseguite intorno al tema dell’ergastolo ostativo traggono origine da ciò che ha stabilito la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, divenuta definitiva il 7 ottobre del 2019, dove si sentenzia che la legge italiana debba prevedere che il giudice possa stabilire – trascorso un congruo numero di anni –  se la persona che sta scontando una condanna all’ergastolo rappresenti ancora un pericolo per la società esterna e abbia o meno ancora legami con la criminalità organizzata, anche in assenza di una sua collaborazione.

La recente decisione della Corte Costituzionale, di cui ancora non conosciamo i dettagli perché vi è solo un comunicato stampa, sulla scia già tracciata dalla Corte Europea, dichiara che l’ergastolo ostativo è incostituzionale e dà al legislatore italiano un periodo di tempo di circa un anno e mezzo per provvedere alla modifica di tale disposizione.

Premesso ciò, vediamo che: da un lato abbiamo la Costituzione, prima fonte del nostro ordinamento giuridico, che afferma nell’art. 27 Cost. che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; sullo stesso versante abbiamo l’art 3 della Costituzione che, come noto, sancisce il diritto all’uguaglianza, nonché l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che ribadisce il principio secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti degradanti o inumani; dall’altro, siamo di fronte ad una norma che permette che vi sia una discriminazione di fatto e che trasforma la pena di un ergastolano condannato per reati ostativi in una pena senza fine, che ostacola la possibilità di acccedere agli strumenti utili alla “rieducazione del condannato“.

Lo stato, che per legge “deve” garantire che il condannato abbia gli strumenti necessari per poter dialogare con la sua coscienza e poi con la società che in passato ha tradito, permette che il detenuto sia trattato come irrecuperabile quando, in conseguenza di reati particolarmente gravi, vengono applicate le suddette misure restrittive. Il contrasto fra le due cose è riconoscibile sia sul piano morale sia sul piano giuridico ed è evidente che occorre porvi rimedio.

Mi lascia però perplessa constatare che molto spesso le argomentazioni sulla questione fanno perno soprattutto sulla violazione dei diritti dei detenuti e, in particolare, sul loro impedimento ad accedere ai benefici di legge previsti per chi non abbia l’ostatività. A me sembra che in questo modo passi in secondo piano la funzione che la nostra Costituzione assegna alla pena e cioè “tendere alla rieducazione”.

Comprendo che, distinguendo tra l’abuso commesso dal criminale e l’abuso commesso dallo stato con una pena dichiarata oramai incostituzionale, venga ritenuto più grave l’abuso posto in essere dallo stato perché in contrasto con i suoi stessi principi fondamentali, ma in questo modo, per il cittadino che legge, credo rimanga un po’ in ombra che l’obiettivo principale cui deve tendere la pena secondo i dettami della Costituzione, nonché il compito principale che deve assolvere lo Stato, è il recupero del soggetto e della coscienza che egli stesso aveva esiliato. In altre parole, il recupero di quella coscienza civica che mancava o che non aveva avuto sufficiente autorevolezza nel soggetto deviante all’epoca dei reati e di quello stile di vita all’interno del quale questi erano stati concepiti e attuati.

In questo senso, mi sembra che il danno principale che viene inflitto al detenuto in regime ostativo (con o senza ergastolo) sia costituito dalla difficoltà o dalla impossibilità che egli possa fruire dello scambio col mondo esterno, quello scambio che a suo tempo la persona aveva scelto di tradire e/o negare, legandosi a quella criminalità organizzata per cui aveva poi subito la condanna. Trovo paradossale che questo tipo di pene ostative (4 bis) ed i loro supplementi (41 bis) portino lo Stato a ratificare quell’esilio della coscienza che la persona aveva avviato e mantenuto fino ad arrivare all’apoteosi della sua condotta criminale. Quante probabilità ci sono che la persona dialoghi fattivamente con le parti migliori di sé mentre se ne sta per anni a odiare chi lo ha condannato e chi lo tiene isolato?

Se non esponiamo al cittadino comune (che spesso è estraneo a ciò che succede in carcere e che magari è influenzato dal bombardamento mediatico che alimenta la disinformazione generale sul tema), gli obiettivi della pena e gli strumenti per raggiungerli, si corre il rischio di alimentare rabbia contro rabbia e disconoscimento reciproco fra cittadini, istituzioni e condannati.

Occorre, io credo, promuovere, supportare e, quando arriva, valorizzare la rielaborazione dei sentimenti realizzata da questo o quel condannato; come pure il lavoro che ha dovuto fare (e che sta facendo) sua moglie/sua madre/suo figlio/suo fratello per recuperare il marito/figlio/padre/fratello di cui ha bisogno per andare avanti a vivere.

Tali argomenti sono cari a me, in quanto figlia di un ex detenuto, ma sono anche il lavoro costante che il Gruppo della Trasgressione porta avanti da anni (vedi, per esempio, l’area tematica “Genitori – figli” su www.trasgressione.net e lo sviluppo del progetto “Genitorialità responsabile” su www.vocidalponte.it).

L’evoluzione del condannato non può prescindere dal lavoro su di sé e da un confronto adeguato con la società esterna in ambiente protetto. Questo è quel che accade di continuo con i gruppi di volontari che entrano in carcere e questo è quello che accade con gli studenti, i liberi cittadini, i familiari di vittime di reato, gli insegnanti che compongono il Gruppo della Trasgressione e che permettono al condannato, se lo vuole, di intraprendere un percorso di risocializzazione serio.

In conclusione, io credo che nella battaglia contro l’ergastolo ostativo debba essere ricercata ed evidenziata la imprescindibile sinergia con la lotta per promuovere la coscienza, anche perché entrambe richiedono aperture e scambi utili a superare l’isolamento dagli altri e da se stessi.

Alessandra Cesario

La coscienza che abbiamo esiliato  –  Torna all’indice della sezione