Penultima fermata, Città Nuova, novembre 2018
Pensieri dal carcere, di Elena Granata
Abbiamo passato il primo muro di cinta, poi il controllo dei documenti e il ritiro di borse e cellulari, poi un lungo cortile al buio, infine un corridoio lungo e colorato, pieno di murales e di disegni colmi di vita. Eccoci dentro il carcere di Opera, nei pressi di Milano. Entrare in carcere è sempre un’esperienza intensa. Soprattutto per chi entra per una sera e poi sa che farà ritorno alla propria casa: le porte, i muri, i chiavistelli, i controlli, i codici, le armi.
Il coro della scuola dei miei figli è stato invitato ad uno spettacolo insieme a carcerati e così – a fine di una giornata di lavoro – mi trovo lì, in quella sala al buio, da una parte il pubblico dei reclusi, dall’altra le famiglie. La separazione è netta tra noi anche in quel momento. Questioni di sicurezza, ci dicono. Poi la musica, i racconti dei ragazzi che scontano la pena, il maestro di coro che spiega il percorso fatto. Bastano poche ore per ritrovarsi dalla stessa parte, tutti colpevoli e tutti innocenti, qualcuno “dentro” per un destino che magari è stato più crudele, qualcuno “fuori” per coincidenze positive che ci hanno condotti su altre strade. Bastano poche ore per sentirsi legati dal mistero delle nostre vite, così diverse. Ci siamo guardati, ascoltati, ci siamo commossi, abbiamo riso. Di quante sfumature può essere ricca la vita umana. Non si riflette mai a sufficienza su chi rimane dietro quelle sbarre per anni. Talvolta per una vita intera. Nel racconto di tanti di loro vi è il ricordo di un “prima che”. Prima che colpissi mio fratello, prima che perdessi la testa, prima che confondessi il senso delle cose. Un prima di bambini nelle case di infanzia, dello sguardo di un papà che li ha amati, di una maestra che aveva creduto in loro. Oppure un vuoto, nessun papà, nessuna casa confortevole, nessuna maestra attenta a loro.
C’è un prima e un dopo, fatale. La violenza lega per sempre la vittima e il carnefice e poi col tempo la differenza sfuma. Quella sera mi sono sembrati tutti ragazzini – non solo perché la gran parte di loro erano giovanissimi e con pene a lunga scadenza – capaci di emozionarsi per le note di una canzone, per il racconto di un compagno, per il sorriso di una studentessa volontaria in carcere.
È stato dolce e straziante salutarci a fine serata, lì dove le emozioni paiono amplificate dal confino e dalla nostalgia. Mi sono rimaste addosso dolorose le domande di sempre, quelle che dovrebbero turbare la nostra sensibilità di persone libere: che ne sarà di questi ragazzi? È il carcere, così come lo abbiamo sempre pensato, la soluzione sul lungo periodo? Quale è il confine tra colpa e responsabilità?
Basta non varcare mai quella soglia per pensare serenamente che chi ha sbagliato deve pagare. Appena la varchi capisci che quel mondo che abbiamo separato da noi, ci riguarda più di quanto possiamo immaginare. Quello che chiamiamo assassino, ha due occhi grandi da bambino e due occhi enormi che raccontano la sua paura. Non possiamo abbassare lo sguardo.