La Responsabilità dei Burattini

“[…] tra giusto ed equo pur essendo entrambi buoni, è l’equo che ha più valore. 

Ciò che produce l’aporia è il fatto che l’equo è sì giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale. 

Il motivo è che la legge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare correttamente in universale. […] l’errore non sta nella legge né nel legislatore, ma nella natura della cosa, giacché la materia delle azioni ha proprio questa intrinseca caratteristica. 

Quando, dunque, la legge parla in universale ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per avere parlato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione. 

Perciò l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto, assoluto, bensì del giusto che è approssimativo per il fatto di essere universale. Ed è questa la natura dell’equo: un correttivo della legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità. 

Questo, infatti, è il motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge […]. Come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo: il regolo si adatta alla configurazione della pietra e non rimane rigido, come l’equo si adatta ai fatti […]”. 

Aristotele, Etica a Nicomaco, cap V,14 – 1137b

L’Istituto IIS Spinelli di Sesto San Giovanni ha ospitato gli autori dello Strappo: quattro chiacchiere sul crimine, per condividere con gli studenti al quinto anno, una delle tante riflessioni possibili sul tema Cittadinanza e Costituzione, che sarà oggetto di colloquio in sede d’esame di maturità a partire da quest’anno.

Tra gli altri, sono intervenuti alcuni detenuti che fanno parte del Gruppo della Trasgressione, una realtà che opera da 22 anni nelle carceri milanesi con l’obiettivo di promuovere l’evoluzione dei condannati e il loro possibile reinserimento sociale dopo il fine pena.

Dalle parole dei detenuti del Gruppo della Trasgressione è emerso che all’epoca in cui commettevano reati la vittima per loro non esisteva, non esisteva il suo dolore, non esistevano le conseguenze dell’azione che stavano compiendo così come non esisteva la possibilità di scegliere di agire altrimenti.

A dire di chi ha commesso reati, nel momento in cui il fatto avviene il suo esecutore ha in mente solo l’azione da compiere e tutto il resto non esiste, nel senso che non viene neanche preso in considerazione. 

Oggi i detenuti che negli anni si sono allenati a riflettere dicono che in passato sono stati come burattini che eseguivano ordini di qualcun altro o di una parte di se stessi con la quale non erano capaci di dialogare per proporre alternative alle azioni che erano determinati a compiere.

Da qui è stata sollevata la domanda: “Se i responsabili del reato oggi considerano che ai tempi in cui lo hanno commesso erano burattini, come si può giudicare la loro responsabilità nel momento in cui bisogna decidere di comminare loro una pena?”.

Hanno provato a rispondere studenti, docenti, magistrati e psicologi.

Uno studente ha detto: “Prima che le persone commettessero reato non era possibile aiutarle, quindi bisognerebbe provare a farlo dopo”.

Il magistrato seduto al tavolo della discussione ha chiarito che per la legge esiste il soggetto e la sua responsabilità che è sempre individuale: lo dichiara la Costituzione al primo comma dell’art 27, quello stesso articolo che poco più sotto dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.

Lo psicologo che coordina le attività del Gruppo della Trasgressione ha fatto presente che prima del reato esiste l’ambiente in cui il reato si produce e che, quasi sempre, commette reato chi vive nel degrado. Pertanto la società che vuole tener conto della Costituzione deve interrogarsi sul rapporto che c’è tra il degrado in cui si cresce e il degrado che si appropria della mente delle persone che commettono reato. Questo non per sollevarle dalla responsabiltà delle loro azioni ma per non rinunciare alla complessità che la domanda sulla responsabilità dischiude.

Nel tentativo di mettere in ordine le suggestioni raccolte per cercare di dare il mio contributo alla costruzione del pensiero, mi chiedo: 

Ammesso che le persone che hanno commesso i reati fossero responsabili al momento dell’azione, quanto di fatto erano libere? Ovvero quanto erano libere di avere sentimenti diversi da quelli che le hanno indotte a scegliere di fare quello che hanno fatto? 

Se è vero che la responsabilità dell’atto criminale non può che essere imputata all’individuo che lo ha compiuto, chi è responsabile dei condizionamenti che hanno contribuito a costruire il degrado nella mente di chi all’epoca dei reati non era capace di fare una scelta diversa da quella criminosa?”. 

A partire da queste domande propongo due considerazioni.

Prima considerazione:

Personalmente credo che la responsabilità delle condizioni di scarsa libertà in cui gli esecutori dei crimini hanno agito sia in parte di ciò che la Costituzione all’art. 3, comma 2, chiama la Repubblica:

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Mi piace pensare che nella mente dei padri costituenti, quando hanno scritto il terzo comma dell’art. 27 che dice che la “la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”, ci fosse la consapevolezza che la Repubblica può fallire il compito che le affida il terzo articolo della stessa Costituzione ovvero “eliminare gli ostacoli che limitano la libertà delle persone e l’uguaglianza dei cittadini”. 

Se questo avviene, se la Repubblica fallisce il dettato dell’art 3, la ri-educazione di cui parla l’art. 27 non è altro che la seconda possibilità che la Costituzione si dà, e dà a tutta la società civile, per non rinunciare a perseguire il suo obiettivo: ovvero promuovere la formazione di cittadini come persone libere e quindi individui pienamente responsabili delle proprie azioni.

Perché per la Costituzione l’obiettivo collettivo da perseguire è più importante dell’errore individuale da stigmatizzare.

Seconda considerazione:

Se i giudici che in Tribunale comminano le pene devono per forza fare riferimento al valore della Giustizia intesa come fedele applicazione della legge e quindi devono considerare responsabile delle sue azioni chi ne è di fatto l’esecutore; la Repubblica di cui parla la Costituzione e che mi piace considerare nel senso alto della Politeia platonica che letteralmente significa “cittadinanza” ovvero “insieme di tutti i cittadini”, ha bisogno di fare riferimento al valore dell’Equità così come è descritta da Aristotele nel libro V della sua Etica a Nicomaco.

Per Aristotele la Giustizia è la più alta delle virtù etiche, tuttavia non è un concetto assoluto e monolitico. Il filosofo distingue tra Giustizia ed Equità, sostenendo che la seconda sia un correttivo della prima, che ha per sua natura la necessità di fare riferimento a principi universali, intatti e perfetti incapaci di tenere conto di realtà individuali imperfette e multiformi.

Aristotele sostiene che chi in ogni occasione pretenda di decidere appellandosi a un principio di giustizia considerato saldo e inflessibile si comporta come l’architetto che tenti di usare una riga dritta per misurare le complesse curve di una colonna scanalata. 

La Repubblica/Cittadinanza di cui parla la Costituzione non sta solo nei Tribunali, pertanto dopo che la pena è stata comminata dal giudice sulla base del principio legale della Giustizia, la Repubblica depone il metro rigido e si sforza di costruirne uno sufficientemente equo per compensare lo scarto tra il principio universale a cui si deve fare riferimento e la realtà, troppo complessa, fuggevole e imperfetta per poter essere ricercata, compresa e misurata col metro della perfetta giustizia.

[l’immagine è stata presa dal sito karatedomagazine.com]