Da “GIUSTIZIAMI”: Mafia, a Opera i detenuti leggono i nomi delle vittime e incontrano i familiari
Manuela D’Alessandro
C’è il silenzio denso e la ritualità assorta delle cerimonie mistiche. Stanno in coda, stringendo il foglio con la lista. Uno a uno, chi con voce tenue, chi spavalda, si avvicinano al leggio in ferro e pronunciano con cura i nomi, ripetendoli quando inciampano nel pronunciarli.
Il pubblico è diviso a metà: sulla sinistra i condannati in regime di massima sicurezza, a destra quelli che devono scontare pene per reati meno gravi. In tutto sono più di un centinaio. Tra loro i familiari delle vittime e chi li accompagna ogni giorno nelle strade della prigionia. Arrotolano il foglio, tornano in platea e danno le mani a chi li aspetta, anche agli agenti delle polizia penitenziaria.
“Sono stato combattuto fino all’ultimo perché non me sa sentivo di sporcare quei nomi con la mia voce. Mi sono detto ‘mi alzo o non mi alzo’, poi alla fine la mia coscienza mi ha suggerito ‘alzati, devi fare qualcosa’”. A Opera va in scena quella che il direttore Giacinto Siciliano, padre dell’iniziativa a cui ha aderito anche ‘Libera’, definisce “una prima assoluta in un carcere italiano”. Alcuni detenuti per reati di sangue salgono sul palco dell’auditorium per ricordare i 940 nomi delle vittime della mafia e, al termine della lettura, incontrano una decina di familiari caduti per mano della criminalità organizzata, dando vita una discussione carica di emozioni e contenuti.
L’idea era nata a settembre durante uno scambio tra la mamma di una ragazza uccisa e dei carcerati nell’ambito delle attività del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del Comune di Milano e del Gruppo della Trasgressione.
Quello che provano adesso lo raccontano loro, col viso rivolto ai parenti delle vittime accanto ai quali occupano le dieci poltrone bianche sul palco, vuote durante la lettura.
“Mentre leggevo i nomi, mi sono venute in mente le persone che ho ucciso io. Mi è venuta in mente la prima volta che ho ucciso un uomo e la soddisfazione che ho sentito. Quell’uomo si chiamava Roberto. Fino a che sono entrato in carcere, non mi ricordavo come fosse fatto, poi, dopo il lungo lavoro che ho fatto qui dentro, ho cominciato a mettere a fuoco lui, i suoi figli. In quel momento è cominciata la sofferenza ma anche la purificazione. Il nostro dolore è diverso dal vostro che, come vittime, dimostrate una grande apertura dialogando con noi. Cosa possiamo fare per riparare? Noi del Gruppo della Trasgressione ci stiamo relazionando coi ragazzi in bilico che incontriamo nelle scuole. Questo è il nostro modo per dire che siamo vivi, per dare un senso al nostro passato. Il vostro coraggio è un modo per darci forza”.
“La voce mi tremava, mi sono sentito piccolo piccolo davanti a voi. Quando dall’altra parte c’è chi, come voi, non guarda il reato ma la persona, si avverte una grande forza dentro. La parola perdono è una parola grande, però il dialogo mi fa vivere”.
“Tutti fuori che dicono che ‘dobbiamo morire’ ed è giusto, il pregiudizio ci deve essere, siamo stati condannati. Mi vergogno a stare qua e mi vergognerei a scrivere una lettera alla ragazza figlia dell’ispettore che ho ucciso, a lei che a 12 anni disse in un’intervista che mi perdonava. Ma in carcere possiamo assumerci le responsabilità e crescere”.
“Né perdono, né pentimento”, è il senso di questo cammino, precisa una delle mediatrici del Comune. “Questi percorsi vogliono dare riconoscimento alle persone, sia alle vittime che ai carnefici e dare spazio all’indicibile”.
Il senso lo raffigura in modo folgorante Angelo Aparo, psicologo coordinatore del Gruppo della Trasgressione. “Voglio regalare qualcosa ai familiari delle vittime che sono qui. Dei piccoli beni sequestrati alla criminalità organizzata. Questi beni hanno la voce per parlare, non possono restituire la vita a chi è morto ma possono dare un piacere ai congiunti dei morti perché, dopo essere andati vicini alla cancellazione della loro coscienza, ora l’hanno recuperata e sono stati confiscati alle mafie”.
Eccoli, i familiari che raccolgono questi beni come un tesoro. Marisa, la mamma di una ragazza uccisa: “Da quando vi ho incontrati ho ritrovato mia figlia che è diventata più importante perché mi ha fatto incontrare altri figli. Sentirvi leggere i nomi è stato molto emozionante. Oggi sento mia figlia viva e presente come non l’ho mai sentita”.
Rosy, la nipote di un pensionato assassinato dalla mafia: “Per tanti anni sono stata piena di rabbia verso chi l’ha ucciso, me li immaginavo come dei mostri. Poi, dopo una visita a Scampia suggerita da un camorrista incontrato durante un evento pubblico, ho capito cosa vuol dire quando si dice che lì i bambini non possono scegliere. Ho cominciato a capire che nella vita si sbaglia tutti e oggi, quando ho varcato le soglie del carcere, mi sono sentita male. Ho visto le sbarre dappertutto e ho compreso cosa vuol dire non essere liberi. Sono qui per sentire il dolore di tutti voi perché il mio l’ho già sentito abbastanza”.
Il direttore Siciliano prende l’ultimo microfono: “Voglio provare a dire qualcosa, ma con molta fatica. E’ stato un susseguirsi di emozioni, è stato veramente difficile assistere alla lettura. Dietro chi leggeva c’erano dieci poltrone bianche vuote che a un certo punto si sono riempite. Non posso dire che le vittime abbiano riacquistato la vita, ma la vita è comunque salita su questo palco dando un senso a quello che facciamo. Giovanni Falcone diceva che la mafia sarebbe stata sconfitta quando ogni palermitano avesse appeso un lenzuolo bianco. Oggi le persone che hanno avuto il coraggio di leggere questi nomi erano tante lenzuola bianche”.