La paura di aprirsi

Non sono mai stata una persona chiacchierona. Sin da quando mi ricordo ho sempre preferito ascoltare gli altri, nutrendomi delle loro storie e senza dare nulla di me in cambio. Ho sempre utilizzato la scusa di avere una vita banale: una famiglia amorevole, un percorso scolastico nella media, un fidanzato stabile. Nulla che valesse la pena di essere raccontato.

Il tirocinio con il Gruppo della Trasgressione mi sta dando la possibilità di accorgermi che la mia è solo paura: paura di prendermi la responsabilità di aver detto una cazzata. Parlare di fronte ad altre persone mi provoca ansia e ho vissuto i primi incontri con un peso sullo stomaco che compariva alla mattina e se ne andava solo alle 17, ad incontro finito. Vivevo le tre ore dell’incontro con la paura che mi chiamassero in causa per avere la mia opinione, e avevo il terrore di dire inutili banalità.

Per un periodo ho anche pensato di annullare il tirocinio, bloccare le ore e trovare un altro ente più strutturato, dove qualcuno mi assegnasse un compito che avrei fatto fino alla fine delle 500 ore e basta. Sono andata a leggermi tutte le relazioni di tirocinio precedenti: molti dicevano che inizialmente si sentivano spaesati quanto me ma in seguito prendevano sicurezza e riuscivano ad integrarsi con il gruppo. Ingenuamente, ed egoisticamente, ho pensato che sarebbe arrivato anche per me il momento di svolta e che avrei dovuto solo aspettare. Mi sono accorta che non funzionava, anzi mi sentivo sempre più a disagio e quasi presa di mira. Poi, piano piano, ho iniziato a partecipare più attivamente, senza parlare perché ancora adesso mi terrorizza, prendendo parte alle interviste e alle trascrizioni delle stesse. Quando ho finito di trascrivere la prima intervista mi sono sentita utile per il gruppo, e vederla pubblicata sul sito mi ha fatto provare la soddisfazione di contribuire ad un lavoro comune.

Ho imparato ad apprezzare ciò che prima consideravo assenza di struttura, ovvero la molteplicità di argomenti trattati e la richiesta continua di partecipazione attiva. Mi sono resa conto che proprio questa è la forza del Gruppo poiché dà la possibilità a chiunque di esprimere la propria opinione e consente a tutti gli ascoltatori di arricchirsi. Non ci sono distinzioni tra detenuti, studenti e liberi cittadini: ci sono solamente persone che si confrontano su diversi temi per arrivare ad una soluzione finale comune.

Devo dire che per comprendere in pieno la forza del Gruppo mi sono servite le parole del professor Aparo: “Le persone s’innamorano e, quando sono innamorate, fanno cose. Dopodiché le persone si disinnamorano, però le cose che hanno fatto rimangono”. Ciò che mi ha fatto riflettere è stato l’utilizzare la parola amore per descrivere le relazioni interne al gruppo. In primo luogo, perché l’amore ha i suoi tempi: ci sono persone che s’innamorano a prima vista, c’è chi ci mette mesi o addirittura anni e c’è anche chi si nega l’amore, per paura o per orgoglio. Allo stesso modo, ci sono persone che s’innamorano del Gruppo sin dal primo momento, e altre, come me, che ci mettono un po’ di più, per il timore di lasciarsi andare. In secondo luogo, l’amore implica fiducia e apertura nei confronti dell’altro: solo donando qualcosa di se stessi si possono gettare le basi per costruire un rapporto solido. Io mi sono approcciata al gruppo con la pretesa di ricevere senza dare e mi sono resa conto di aver gettato le basi sbagliate, che portano alla costruzione di un rapporto instabile. Adesso so che devo lavorare anche su me stessa, provando ad aprirmi di più con gli altri senza avere la paura del giudizio e dandomi la possibilità di sbagliare.

Forse il peso sullo stomaco che sentivo, e sento ancora adesso, erano solo bruchi. E magari, quando si trasformeranno in farfalle mi consentiranno di parlare senza timore per una decina di minuti consecutivi. Speriamo che ciò avvenga entro la fine del mio tirocinio.

Anita Saccani

Tirocini

Emanuela Pistone

Emanuela Pistone – Intervista sulla creatività

Emanuela Pistone è un’attrice e regista teatrale originaria di Catania che dal ’94 si occupa della promozione di progetti interculturali. L’amore e l’interesse per il mondo dello spettacolo, racconta, sono nati in maniera del tutto casuale, come conseguenza di una timidezza originaria. Su suggerimento di un amico, Emanuela Pistone inizia a frequentare dei laboratori teatrali cui si appassiona fino a iscriversi a una scuola di recitazione a Catania. Una volta ottenuti il diploma di recitazione e la laurea in lingue, decide di trasferirsi a Roma, dove segue un corso di perfezionamento in traduzione letteraria all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e inizia a lavorare per la Compagnia della Luna di Nicola Piovani.

Nella prima metà degli anni ’90, grazie all’iniziativa di alcuni studenti universitari allievi del traduttore Riccardo Duranti, direttore del corso di perfezionamento, Emanuela Pistone avvia con loro una collaborazione aiutandoli a mettere in scena un testo teatrale. L’attività proseguirà per quattro anni diventando un Laboratorio permanente di formazione teatrale guidato da E. P., la cui caratteristica principale è il lavoro su testi di autori contemporanei dell’Africa Subsahariana. Questo grazie a Paolo Maddonni, uno degli allievi, impegnato annualmente in progetti di collaborazione e aiuto in Africa dove aveva raccolto una serie di testi e di racconti teatrali africani. È l’inizio di una passione per l’Africa, le sue culture e i suoi autori, culminata nel 2005 con la fondazione dell’associazione Isola Quassùd che, partendo dalle pratiche teatrali come strumento di educazione trasversale, cerca di diffondere un’idea positiva di società multietnica attraverso attività rivolte a migranti di origini diverse, che crescono e si arricchiscono di anno in anno.

 

 

Alice: Che cos’è per lei la creatività?

 Emanuela Pistone: Una capacità visionaria che dà l’opportunità di guardare oltre, di ‘vedere’ ciò che è invisibile agli occhi. Credo che la creatività sia una caratteristica che possiedono molte persone, alcune hanno l’opportunità di sperimentarla mentre altre, più che impararla hanno bisogno che venga stimolata fornendo loro una serie di strumenti per poter esprimersi in un modo nuovo. Ad ogni modo, alla fine credo che creativi si nasca.

 

Ottavia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

 Emanuela Pistone: Un ingrediente del processo creativo è la capacità di vedere qualcosa che non è presente materialmente, un altro riguarda la capacità di concretizzare qualcosa che non esiste materialmente se non nella testa del visionario. Basti pensare alla creatività che viene espressa da ogni membro di un gruppo teatrale, scenografo, musicista, costumista, tecnici. Penso anche alla creatività di un artigiano che costruisce cose, alla creatività in cucina, nell’arredamento, nella moda, con le piante, nella scienza… La creatività non si manifesta solamente sul piano teorico ma anche su quello concreto, attraverso un pezzo artigianale o un arredamento, o una creazione in qualunque ambito. Il punto di partenza è una capacità visionaria a cui segue lo sforzo di renderla viva: allora può diventare un quadro, un oggetto, un abito, un giardino, una composizione musicale, una ricetta…

 

Alice: Come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Emanuela Pistone: Credo di ricevere più stimoli in ambienti caotici, tra le energie e gli stimoli di altre persone e oggetti. Per me sono importanti la collaborazione e l’ascolto dell’Altro. A questo proposito, la musica ha avuto, e ha, per me un ruolo fondamentale. Sono cresciuta con la musica dentro le mura di casa; mio fratello è musicista, e credo che questo abbia influito sullo sviluppo della mia parte creativa. La musica è per me il primo stimolo, ma trovo stimolanti anche le conversazioni altrui: entrare di traverso in conversazioni che non riguardano il mio ambito specifico mi incuriosisce, è un’altra fonte di stimolo. Comunque, all’interno del processo creativo ci sono fasi diverse e in alcuni momenti è necessario anche l’isolamento.

 

Ottavia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo la produzione creativa?

 Emanuela Pistone: La produzione creativa influisce sulle emozioni ma non in maniera lineare perché tutto dipende dalla specifica fase dell’atto creativo. Nella fase iniziale ci sono una grande esaltazione e una grande partecipazione emotiva perché si vede qualcosa per la prima volta. Dopo questa visione subentra invece una fase più concreta che può essere attraversata da sensazioni diverse come, ad esempio, il disprezzo per la cosa creata o in via di creazione. Ad ogni modo, vi è una grande influenza sulle emozioni perché la mia visione delle cose è condizionata dall’idea sulla quale sto lavorando in quel periodo.

 

Alice: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé?

 Emanuela Pistone: Sicuramente nell’atto creativo emerge il proprio essere. Io sono piuttosto autocritica, non sono quasi mai soddisfatta di quello che faccio e magari, a posteriori, mi trovo invece ad apprezzare ciò che avevo realizzato in passato. Non so dire se l’atto creativo determini dei grossi cambiamenti sulla percezione che ho di me stessa, sicuramente i momenti critici dell’esistenza coincidono con le fasi della parte creativa.

 

Alice: Cosa determina il suo atto creativo nel rapporto con gli altri?

Emanuela Pistone: In famiglia sono considerata un po’ fuori dalle regole, anche se in realtà quando conosco persone nuove vengo scambiata spesso per una professoressa. Credo sia a causa del mio aspetto borghese, rassicurante, che però contrasta nettamente con il mio modo di pensare e di fare.

 

Ottavia: Per lei è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

 Emanuela Pistone: Anche se molti artisti dicono di no, secondo me il riconoscimento degli altri è importante, a maggior ragione se si fa della propria arte il proprio mestiere. L’approvazione degli altri ha un peso, ma per alcune forme d’arte come la musica o il teatro, non credo che l’esibizione in pubblico sia il momento più determinante per l’artista; la composizione, la preparazione, la ricerca di alchimie, le prime esecuzioni, le prove, sono i momenti di maggior creatività. L’applauso del pubblico è certamente la gratificazione massima che un artista può avere sul palco, ma io non credo che coincida con l’apice della creatività.

 

 

Alice: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo? Come ne traggono giovamento?

Emanuela Pistone: Secondo me i principali fruitori sono gli artisti stessi, ma chiunque abbia voglia e abbia modo di accostarsi al risultato di un lavoro creativo può fruirne. Ci sono diverse categorie di persone che si avvicinano, in vari momenti, alla pratica creativa. I motivi possono essere i più diversi: per un’esigenza precisa, utilizzando l’arte come terapia; per il semplice piacere di gioire di un’attività diversa da quelle quotidiane. Molte persone che vivono ai margini della società non hanno la possibilità immediata di incontrare un atto, un percorso o un prodotto creativo, perché sono troppo impegnate a risolvere problemi più concreti e materiali; in questo caso, in qualche modo, andando incontro a chi non ha questa possibilità i risultati sono positivi. Questo è quello che cerco di fare con la mia associazione.

Ottavia: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Emanuela Pistone: Dalla finestra del mio soggiorno vedo l’Etna, che in questi ultimi tre mesi ha dato uno spettacolo straordinario, perciò al momento per me non c’è atto creativo più forte di un’eruzione vulcanica: la potenza e la forza di un’energia incalcolabile e sotterrata, che ogni tanto ha la possibilità di emergere e che può anche distruggere.

 

Alice: Pensa che esista una relazione tra creatività e depressione?

 Emanuela Pistone: Non sono un’esperta dell’argomento, ma io stessa sono passata attraverso un periodo buio, un fatto piuttosto frequente nella categoria degli artisti. Siamo sempre di più ad avere queste sensazioni di sospensione, di attesa di un qualcosa che sembra non arrivare mai, che comporta una grande difficoltà di progettare, di guardare oltre. Quindi sì, credo che tra depressione e creatività ci sia un nesso.

 

Ottavia: Secondo lei, quando un prodotto creativo è davvero concluso?

Emanuela Pistone: Mai. Per me il prodotto creativo è in continuo movimento; anche un’opera che si fissa nel tempo (come un dipinto o un film) non ha mai una fine.

 

Ottavia: Pensa che la creatività sia un dono naturale, un privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Emanuela Pistone: Credo che la creatività sia in parte un dono, una qualità, o meglio una caratteristica di alcune persone. È sicuramente possibile stimolare la creatività, fornendo una serie di strumenti a chi ha bisogno di esprimersi attraverso un linguaggio non verbale, ma io credo che l’arte non si possa imparare: creativi si nasce. Semplicemente qualcuno ha maggiori possibilità di altri di sperimentare la propria creatività.

 

Alice: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale, ad esempio nelle scuole o nelle attività di recupero del condannato?

Emanuela Pistone: Decisamente sì; la creatività è uno strumento trasversale rispetto alla possibilità di ottenere risultati positivi in moltissimi ambiti. L’arte è uno strumento poco definibile, complesso; è un modo a sé che viene percepito in modo diverso da ciascuno di noi. C’è una grande differenza tra chi sceglie di fare della propria creatività il proprio mestiere e chi invece utilizza il processo creativo per riempire o arricchire la propria esperienza di vita, ma tutte le forme d’arte possono avere una funzione sociale.

 

Intervista ed elaborazione di
Ottavia Alliata e Alice Viola

Isola Quassùd     –     Interviste sulla creatività

Renato Rizzi

Renato Rizzi – Intervista sulla creatività

Renato Rizzi è medico chirurgo, oncologo e psicoterapeuta. Egli ha scritto alcuni saggi (sul perdono, sul rancore) e dei romanzi, crede molto nella lettura e nella scrittura come fondamentale strumenti di crescita.

 

Ottavia: Che cos’è per lei la creatività?

Renato Rizzi: La creatività è dare spazio e concretezza a un pensiero e può riguardare varie forme d’arte, dalla prosa, alla poesia, alla scultura, ecc.

 

Gloria: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

 Renato Rizzi: Per me la scrittura è un bisogno intimo di espressione. Nel mio caso cerco di trasferire i miei vissuti e le mie esperienze, sia in qualità di medico sia in qualità di psicologo, nel lavoro che faccio in carcere, contesto in cui vi sono vissuti di grande sofferenza. Cerco di ricreare qualcosa di molto vicino alla realtà anche se in parte modificato e romanzato. L’ingrediente principale del processo creativo è la necessità che avverto di modificare le cose in modo tale che rimangano comunque verosimili.

 

Ottavia: Che conseguenze ha la produzione creativa sulle sue emozioni e sul suo stato d’animo?

 Renato Rizzi: Per me la creatività produce effetti liberatori, consolatori e di compassione.

 

Gloria: Che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di sé stesso o dell’autore in genere?

Renato Rizzi: Sicuramente l’atto creativo porta a una compensazione delle mie emozioni, è una forma d’aiuto ma si tratta di un processo in buona parte inconscio. La scrittura mi fa crescere. Quasi sempre scrivo in prima persona e questo mi rende felice per l’essermi messo nei panni di un’altra persona.

 

Ottavia: Che cosa determina l’atto creativo nel rapporto con gli altri?

 Renato Rizzi: Personalmente scrivo per me, non per gli altri, perciò è difficile rispondere. Gli altri giudicano il mio lavoro, lo spirito critico è importante perché induce a migliorarsi. Quando finisco di scrivere ho proprio finito il prodotto, mi sposto su un altro progetto o su un’altra esperienza. Non mi piace l’idea di fare dei sequel o di creare personaggi permanenti.

Il mio primo romanzo si intitola “Berto il cialtrone”. A quel tempo insegnavo Psicologia all’Università di Urbino, avevo fatto delle ricerche sulla menzogna su un campione di circa 700 persone. Ne sono seguite una serie di conoscenze che volevo riportare non più in un saggio – ne avevo già scritti uno sul perdono e uno sul rancore – bensì in un romanzo. In seguito, mi sono venute in aiuto diverse esperienze e fatti autobiografici che mi hanno messo per la prima volta nella condizione di scrivere quello che sarebbe stato poi il mio primo romanzo. Preso atto dell’insoddisfazione del mio editor sul finale, che trovava un po’ scialbo, ho deciso di scrivere cinque finali diversi e di fare scegliere al lettore quello che gli piaceva di più.

 

Gloria: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Renato Rizzi: Quando scrivo, faccio leggere i primi risultati del mio prodotto a mia moglie, che è molto critica. In tutti i romanzi ci dev’essere una storia d’amore, non necessariamente per una persona, ma anche per la patria, per il lavoro. Il mio primo romanzo ha riscosso un buon successo, ho riscontrato le critiche fatte sui giornali, ho vinto un premio di esordiente, ma non so se il libro sia stato d’aiuto a qualcuno. Invece, il penultimo libro che ho scritto, sulla storia vera di un detenuto, è stato letto nel carcere di San Vittore da gruppi di detenuti che poi mi hanno fatto molte domande. In quell’occasione mi sono sentito veramente utile perché mi sembrava di essere riuscito a indurre qualcuno a pensare e non tanto a fare. Secondo me questo è il fine ultimo di una creazione: stimolare il pensiero. Mi ricordo l’emozione che ho provato quando ho visto un efebo – una statua greca – a Mozia, un’isola di fronte a Trapani. Vi era solo questa statua all’ingresso di una villa liberty: ho vissuto un’emozione intensa…  che mi ha indotto a pensare.


L’efebo di Mozia

 

Ottavia: Le viene in mente un’immagine che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Renato Rizzi: Tra pochi giorni vado a Napoli, accompagno mio nipote a Pompei, ci sono già stato ma quello che mi incuriosisce davvero è vedere il Cristo Velato: le sculture mi impegnano e mi emozionano soprattutto quando rappresentano la figura umana. Non posso dire che si verifichi lo stesso quando vedo dei quadri raffiguranti dei paesaggi.

 

Gloria: Pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

 Renato Rizzi: Credo proprio di sì, credo che la creatività sia favorita da uno stato depressivo. Allo stesso tempo, la creatività è una forma di aiuto e di cura per la depressione, è un modo per sentirsi meglio.

 

Ottavia: Quando un prodotto creativo è davvero concluso?

 Renato Rizzi: Secondo me il prodotto creativo è concluso quando non c’è più nient’altro da dire o da aggiungere in quella determinata creazione. Anche la scultura non finita può rappresentare per l’autore un’opera conclusa perché non c’è più nulla da comunicare. Penso sia una cosa estremamente personale e che l’opera sia davvero conclusa quando non vi sono più emozioni a stimolare la produzione. Per quanto riguarda i romanzi, ci sono autori che riscrivono le loro opere venti volte. Io, personalmente, quando finisco di scrivere un romanzo, non voglio più rivederlo né rileggerlo, è davvero concluso.

 

Gloria: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Renato Rizzi: Sicuramente sì. Ritornando alla scrittura, credo che i circoli letterari siano un’arma sociale utile per discutere un pensiero e ritengo possano avere un impatto a livello sociale, anche se per un pubblico molto ristretto; solamente i romanzi di grande successo possono influire su una popolazione più ampia. Comunque, anche i romanzi più terribili e scritti male hanno sempre una frase, un concetto che salva il libro e che stimola una crescita personale.

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

 Renato Rizzi: Il talento esiste ma è comunque allenabile ed educabile. Ad esempio, fare il medico richiede una parte di talento ma soprattutto tanta compassione: senza questi due elementi è difficile svolgere efficacemente questa professione. Nella creatività servono una grande capacità di espressione emotiva e l’abilità di saper esprimere cose terribili… basti pensare ai quadri di Alberto Burri che esprimono una rabbia immensa.

 

Gloria: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Renato Rizzi: Sì sicuramente, anzi credo che la creatività sia uno degli migliori strumenti ma che non viene sufficientemente utilizzato. A questo proposito, sto cercando di convincere la tipografia Zerograrfica, cooperativa sociale nata su iniziativa di persone detenute, a diventare una piccola casa editrice. Ho proposto di fare un premio letterario destinato ai detenuti della Lombardia o di tutta Italia per il miglior racconto. Credo che questa iniziativa possa rappresentare un buon incentivo principalmente per due motivi: il premio letterario permette di ottenere un riconoscimento mentre la scrittura stimola la riflessione e la verbalizzazione di vissuti e pensieri del soggetto. Il narrato, se non viene ben verbalizzato, si perde e alla società non viene dato nulla. Credo sia molto utile spingere i bambini o i ragazzi a scrivere di sé. È uscito da poco un libro, “L’appello”, che narra di un insegnate di liceo cieco che viene assunto in una scuola come supplente. Il fatto che sia privo della possibilità di vedere e quindi di riconoscere nell’altro il linguaggio non verbale, aiuta in maniera molto più profonda a comprendere lo studente. Il rapporto insegnante – alunno si sviluppa in una forma di apertura che i ragazzi non avevano mai esperito prima e che successivamente si delinea attraverso la scrittura. È fondamentale insegnare ai ragazzi un modo per guardarsi dentro soprattutto perché l’adolescenza è un’età assai delicata e difficile in cui si ha una bassa autostima e un’identità in essere, non ancora definita.

Intervista ed elaborazione di 
Ottavia Alliata e Gloria Marchesi

 R. Rizzi Studio – Libri dell’autoreInterviste sulla creatività

Alberto Figliolia

Alberto Figliolia – Intervista sulla creatività

Gloria: di che tipo di arte ti occupi e qual è la sua origine?

Alberto Figliolia: di scrittura. Sono nato come autore, poi sono diventato anche giornalista e ora lo faccio come freelance, occupandomi di ciò che mi interessa (e in base ai miei tempi). In passato ho collaborato con diversi quotidiani o testate nazionali; nel frattempo ho continuato a scrivere libri muovendomi soprattutto nell’ambito della poesia e della letteratura sportiva, a volte anche unendo questi due campi. Faccio una postilla: alla base di tutto c’è un lettore accanito; prima di tutto sono uno che legge. La lettura è fondamentale e la considero un atto creativo, dopo c’è la scrittura.

 

Asia: che cos’è per te la creatività?

Alberto Figliolia: è, probabilmente, la capacità, attraverso un talento di base e tanta tenacia, di riuscire a rielaborare i vari input che arrivano alla nostra mente e al nostro cuore. Quindi la capacità di rielaborare le esperienze producendone di nuove. Tutto in una logica di ausilio al resto del consesso umano col quale ti relazioni. Difatti io credo molto nella forza empatica della lettura e della scrittura, nella trasmissione e nella condivisione del sapere.

 

Gloria: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Alberto Figliola: c’è il lavorio della mente, quello che ti ribolle nel profondo, nell’inconscio, che affiora nell’universo onirico. Poi ci sono le costruzioni razionali. Io per esempio lavoro sulla poesia come se fosse un’architettura: magari ho un’idea sulla quale poi faccio delle operazioni mentali. L’ispirazione non basta, è un processo molto lungo, che in fondo dura tutta la vita… Facendo un paragone col mondo dello sport, non credo che basti il talento. Il talento va allenato con umiltà: non si può pensare di sapere tutto. “So di non sapere” parafrasando il famoso filosofo greco. Poi c’è il labor limae, non finisci mai… Io qualcosa scrivo ogni giorno. È importante stare molto attenti alle piccole cose, anche particolari irrilevanti su cui di solito non ci si sofferma: anche un fiore le cui radici spaccano l’asfalto è importantissimo. I greci avevano un verbo bellissimo: “agorazein”, discorrere in piazza, in una sorta di ozio creativo. Non è vero che l’ozio è il padre dei vizi, è importante in tempi convulsi come questi prendersi uno spazio per meditare senza fretta.

 

Asia: che cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Alberto Figliolia: per esempio, ieri stavo andando a vedere una mostra a Milano e sono passato per Piazzale Tirana, una zona periferica che frequentavo da bambino perché mia nonna abitava da quelle parti, e c’erano, nella rotonda del tram, dei magnifici fiori viola e papaveri. Lì mi è scattato un link e ho pensato un haiku. Poi ho visto, percorrendo via Giambellino, le ombre dei platani e le foglie che si muovevano al vento e mi è venuto in mente un altro haiku (una forma di poesia giapponese a tre versi e diciassette sillabe). La macchina creativa ha preso avvio da un particolare in apparenza infimo. Quando sono arrivato a casa ho trascritto tutto quello che avevo memorizzato ed erano una decina di haiku. Devo aggiungere che l’haiku nasce così, dallo sguardo verso la natura e le piccole cose della natura presenti anche nella città. Poi delle volte ci sono degli elementi più complessi che danno vita a poesie più lunghe, e dipende molto dallo stato d’animo. Dico sempre che il beota e il beato non scrivono. Penso che anche la frustrazione possa essere una potente molla creativa; una persona perfettamente felice non scriverebbe un rigo probabilmente. Paradossalmente anche la nevrosi può generare scrittura. Forse è anche un meccanismo difensivo, di sopravvivenza. Pensiamo a “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde: non l’avrebbe mai scritta se non fosse mai stato incarcerato per ciò di cui incredibilmente era accusato al tempo. Le poesie più lunghe nascono anche da situazioni di disagio esistenziale. Non è un caso che dal nostro Laboratorio di scrittura creativa in carcere le persone detenute che lo frequentano sono estremamente abili e producono dei versi eccellenti, a volte addirittura magistrali e sempre emblematici. Il dolore, la noia, la solitudine, il senso di fallimento incombente riescono a portare alla genesi di lavori poetici mai autoreferenziali, oltremodo interessanti.

 

Gloria: che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?
Alberto Figliolia: è catartica. Quando scrivo in prosa, soprattutto giornalistica, si attiva un’altra parte pensante e sono un osservatore più obiettivo e meno “sentimentale” dei fatti. Di sicuro c’è una grande gratificazione nello scrivere, anche se è commista alla fatica. Scrivere è faticoso. Si mischiano piacere, fatica e catarsi finale. Quando esce un tuo libro è quasi come un parto, come se fosse un piccolo figlio.

 

Asia: Come incide l’atto creativo sulla percezione di sé?

Alberto Figliolia: incide perché è un continuo scavo interiore che fai incessantemente nel profondo, mettendo a nudo e ti mettendoti a nudo. Chi scrive non può fingere più di tanto, nonostante quello che diceva Pessoa coi suoi versi… “Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente.” Con la poesia metti a nudo anche la tua fragilità ed è importante che si manifesti questa fragilità in un mondo che vorrebbe il superuomo super-produttivo e super-efficiente. Bisogna invece imparare a guardarsi dentro, scrutarsi anche senza ritegno ed esplicitare quello che senti. Poi c’è anche la forma, specialmente se parliamo di poesia. Nella percezione di sé, nella conoscenza di sé stessi è fondamentale andare nei meandri della propria anima. Ciò è  molto terapeutico, oltre che un dono al mondo. Nel caso della scrittura non bisogna temere chi ti dona sé stesso attraverso la poesia. La poesia salva la vita, almeno a me ha salvato la vita tante volte.

 

Gloria: nel rapporto con gli altri che cosa determina l’atto creativo

Alberto Figliolia: gli altri sono “costretti a fruirne”… Per esempio, non solo i lettori che magari non mi conoscono, ma anche nelle relazioni coi miei amici la scrittura è importante, per me è un mezzo. Infatti anche con i social mando poesie. Poi gli amici apprezzano, quindi diventa uno scambio proficuo. Il lavoro poetico non è più solo mio, ma anche di chi lo legge. È chiaro, ribadisco tuttavia, che io legga più di quanto scriva e legga più poesie di quante ne scriva, per cui non mi occupo solo della mia poesia in maniera solipsistica o per affermare il mio io. Mi piace molto collaborare con altri, ho scritto libri a quattro mani, ho scritto prefazioni. Si stabilisce un universo di relazioni che aiuta la creatività reciproca. A volte non riesco neanche a fare tutto quello che vorrei. Ma va bene così, meglio avere tanto da fare che non avere nulla da fare.

 

Asia: è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Alberto Figliolia: sicuramente sì, è inutile negarlo. Io scrivo perché è la mia modalità d’espressione, con cui cerco di mettere ordine nel caos del (mio) mondo. Poi è gratificante il fatto che ciò che scrivi possa piacere o essere d’aiuto agli altri. Questo è un rimando che non ti lascia di certo indifferente, anche se poi non è quello il motivo per cui si scrive, perché io scriverei comunque. Guido Morselli, un grande autore del secolo scorso, morto suicida, è stato pubblicato tutto dall’Adelphi, ma in vita non l’aveva pubblicato nessuno. Un genio incompreso in vita, eppure ha continuato a scrivere nonostante l’incomprensione. Forse, se avessero pubblicato prima le sue opere, non si sarebbe suicidato. Questo è un esempio lampante di come anche il riconoscimento esterno possa essere utile a chi è creativo.

 

Gloria: chi sono i suoi principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Alberto Figliolia: io credo che la poesia sia fruibile da tutti. È chiaro che non è un prodotto da laboratorio, anche se dietro c’è tanto studio. Deve colpirti e l’impatto emozionale è importante. Quindi nel mio “presunto”/potenziale pubblico ci sono lettori molto variegati.  Io credo che la poesia sia un fenomeno molto democratico. A me è capitato di fare anche molto il “poeta di strada”, a contatto con gente sconosciuta che si fermava e a cui leggevo una poesia. Poi non è detto che comprasse il libro, ma intanto si era stabilito un nesso. Quindi chiunque può fruire della poesia, è questione di buona volontà, di apertura del cuore e di non avere pregiudizi nella testa. La poesia per questo motivo sfonda le porte.

 

Asia: quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Alberto Figliolia: essendo un fanatico dei libri per me aprire un libro, sfogliarlo, annusarlo è già un atto creativo, così come prendere appunti e pensare a mille progetti. Se dovessi indicare un’immagine direi la carta e la penna che trascrive le parole. È vero anche che la poesia si può serbare nella mente, ma la scrittura permette di fissarla e renderla disponibile a tutti.

 

Gloria: pensa che possa esistere una relazione tra depressione e creatività?

Alberto Figliolia: secondo me sì. Io, quando ho avuto momenti di depressione, di scoraggiamento esistenziale, di spaesamento, ho sempre scritto e mi è sempre stato di giovamento. Poi non è detto che quello che scrivi sia sempre bello e magari dopo mesi o anni puoi buttare via, ma qualcosa può rimanere. Una conferma di ciò l’ho avuta nella mia esperienza di insegnante volontario in carcere. Il luogo in cui si scrive di più a mano è il carcere, anche perché emerge il bisogno di mettere sulla carta i propri pensieri, ponendosi in relazione con gli altri, pur in situazioni anche molto frustranti dal punto di vista esistenziale. Certo, la vita è un’altalena, ci sono alti e bassi, quindi a volte si scrive anche in condizioni di moderata felicità. Nonostante ciò, nel mio caso, la frustrazione, la malinconia, lo spaesamento mi portano ad essere anche più creativo. E ogni tanto è bello essere spaesati perché si vedono le cose in un’ottica diversa… Io dico sempre che i visionari sono i meglio informati dei fatti, mentre il pragmatismo rischia di rovinare il mondo.

 

Asia: quando un prodotto creativo è davvero concluso?

Alberto Figliolia: forse mai, a parte probabilmente la Divina Commedia, l’Iliade, l’Odissea… Anche Manzoni ha riscritto I promessi sposi. Anche Il giocatore di Dostoevskij ha delle piccole discrasie, però è egualmente un capolavoro.  Prendendo in mano un mio vecchio libro mi capita di pensare che alcune cose le scriverei diversamente. Bisogna essere aperti anche questo panorama di possibile mutamento.

 

Gloria: pensa che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Alberto Figliolia: sicuramente sì. Non esisterebbe letteratura, se non fosse così. Io credo, soprattutto nel caso della poesia, che l’autore non debba mai essere svincolato dalla lettura del mondo. Deve intervenire nel mondo, tant’è vero che i poeti sono spesso temutissimi dal potere e sovente esiliati o condannati a morte. A me è capitato di partecipare ad un’antologia di poesie per Giulio Regeni, dove sono intervenuti decine di poeti, perché il poeta non solo ha il diritto, ma il dovere di intervenire nelle cose del mondo. Il poeta non si occupa solo di filosofia, metafisica, destini del mondo, e non è perso in universi di simboli. Quindi la relazione e la funzione sociale della poesia sono imprescindibili.

 

Asia: la creatività è un dono naturale, privilegio di pochi, o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Alberto Figliolia: credo che ci sia di base, come detto, un talento e che questo vada “allenato” con continuità e costanza. Non è detto che tutti debbano per forza scrivere un romanzo o delle poesie. Anche un professore che ama la poesia e ne parla ai suoi allievi, pur non scrivendo poesie, sta comunque facendo qualcosa di creativo. Io spesso sono andato nelle scuole a tenere laboratori di haiku o a leggere poesie e parlare di scrittura. Tanti docenti non scrivevano, eppure aiutando gli allievi a costruire relazioni e conoscenze, stavano facendo qualcosa di creativo. Sicuramente c’è un talento, che in ogni caso deve essere coltivato. I miei genitori non leggevano molto, io invece ho sempre amato i libri – e loro comunque mi hanno assecondato e agevolato in questa mia passione, ciò di cui gli do con riconoscenza ampio merito, Credo quindi di avere avuto dentro di me, sin dall’incipit della mia vita, questa scintilla. Ciò che mi è servito è stato continuare a leggere e cimentarmi con il passare degli anni, passando anche attraverso il fallimento. Attraverso i tentativi e le prove il proprio talento può affinarsi e iniziare ad essere di sostengo agli altri, essere un dono per tutti.

 

Gloria: la creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Alberto Figliolia: se si pensa che il bambino è padre dell’adulto e che dobbiamo sempre coltivare il fanciullino che è in noi è chiaro che bisogna agire soprattutto nelle scuole e alla più tenera età. I bambini, ad esempio, scrivono degli haiku bellissimi perché sono spontanei e hanno il dono della meraviglia. Anche per le persone detenute la scrittura, con quel continuo scavo dentro di sé, consente di rimettersi in carreggiata, di re-instaurare un corretto percorso esistenziale, facendo i conti con il proprio vissuto, senza farsi facili sconti. Per essere più consapevoli. Anche elaborando quella che io chiamo “la sindrome della tripla R”: rabbia, rimpianto e rimorso; attraverso questa elaborazione si può ripristinare una nuova via verso un orizzonte più luminoso.  In questi anni in cui ho lavorato come volontario nelle carceri ho potuto notare che grazie alla scrittura è come se germinasse un nuovo individuo, che nasce da quello vecchio, ma dal meglio di quello vecchio.  Ogni anno nel Laboratorio del carcere riusciamo realizzare un Calendario poetico-fotografico, ma anche antologie monografiche collettive o personali. Qualche anno fa è stato pubblicato il libro di uno del nostro Laboratorio: “Nessuna pagina rimanga bianca”, con il cui titolo si voleva indicare che ogni giorno è una pagina bianca su cui possiamo scrivere, se si ha consapevolezza. Senza questa, infatti, si scrive sul niente, si è semplicemente una vittima dell’ignoranza, di un contesto degradato. La scrittura riesce ad elevarti e a portarti in un’altra dimensione vitale ed esistenziale, che ti permette di capire le ragioni degli altri, anche di coloro a cui prima magari hai fatto del male. Sono sempre più convinto che la scrittura, ma soprattutto la lettura, siano un grande dono che si può fare a sé stessi e agli altri.

Intervista ed elaborazione di 
Asia Olivo e Gloria Marchesi

Alberto Figliolia: PoesiePubblicazioni Alberinube – Facebook

Interviste sulla creatività

 

Renato Converso

Renato Converso – Intervista sulla creatività

Renato Converso nasce in Calabria, da una famiglia di umili origini ed è il terzo di undici fratelli. A 17 anni va via di casa e sale su un treno per Milano. Per la prima settimana dopo il suo arrivo nel capoluogo lombardo dorme alla stazione centrale, poi andrà a vivere per qualche tempo in via Padova con alcuni suoi amici calabresi. Nella sua fuga il comico rintraccia l’inizio della sua esperienza creativa che, come lui stesso racconta, è animata dal bisogno vitale di far ridere il suo Io bambino; e così comincia a fare battute durante i suoi primi lavori di lavapiatti nei ristoranti e nei cantieri. L’ilarità che suscita nei colleghi gli procura un’intensa soddisfazione. Intorno ai 30 anni fa un provino presso un locale di Milano in cui sono nati comici italiani importanti e ottiene grande successo. In un secondo momento apre un proprio locale a Porta Genova, La Corte dei Miracoli Cabaret, in cui rimane per 35 anni vedendo crescere il proprio successo. 

 

Elisabetta: che cos’è per te la creatività?

Renato Converso: la creatività è figlia legittima del dolore e della sofferenza. Il genio comico di molti artisti del nostro Paese nasce proprio da una situazione di sofferenza. Pensiamo a Totò, figlio di un nobile che fece l’amore in una notte d’inverno con una donna di umili origini. Venne riconosciuto dal padre quando ormai era già un comico di successo. Questo è un esempio che conferma il concetto detto prima, ovvero che la creatività nasce da un contesto di estrema sofferenza, in questo caso l’iniziale mancato riconoscimento da parte del padre. 

L’obiettivo del comico non è quello di far ridere soltanto il pubblico, aspetto già di per sé molto importante, ma anche quello di far ridere se stesso o meglio, il suo Io bambino, per risarcirlo di tutti gli anni di dolore che ha subito durante la prima infanzia e adolescenza. Ed è quello che è successo nella mia esperienza: la comicità è stata per me una via d’uscita da una situazione drammatica. 

Corri Renà! Corri! Figli di terra rossa

Un altro aspetto importante della creatività è che essa crea la risata, questa antichissima ricetta per il mantenimento della salute, la quale fornisce soddisfazione e allegria. Ogni battuta detta in teatro, su un palco, crea ilarità ed induce il pubblico a vivere uno stato d’animo nuovo. Come affermano alcuni, questo stato d’animo nuovo è effimero e svanisce in un arco temporale breve, ma secondo me l’importante è proprio il fatto che il pubblico, una volta uscito dal teatro, riesca a percepire, anche per poche ore, una sorta di leggerezza positiva.

Ovviamente poi bisogna fare anche una distinzione tra la creatività positiva e quella distruttiva, la quale provoca grande dolore. Pensiamo ad esempio al contesto della guerra in cui, un genio creativo, crea una bomba che, se innescata, è in grado di uccidere centinaia di persone. Questa è la creatività distruttiva. Penso invece che la creatività che caratterizza noi comici sia sempre da considerarsi non nociva, in quanto permette di provare un’emozione positiva, sia al pubblico, sia al comico stesso. 

A prova del fatto che la creatività nasce da un contesto di sofferenza, vorrei riportare un episodio che accadeva spesso durante la mia infanzia. La mia famiglia viveva in condizioni economiche disagiate e, quando a pranzo chiedevo a mia mamma un po’ di formaggio grattugiato da mettere sulla pasta, lei mi costringeva dolcemente a guardarla negli occhi, prendeva un tovagliolo, faceva finta di tirare fuori da esso un po’ di formaggio, lo metteva sul mio piatto e io ridendo dicevo “Va bene così mamma, basta, grazie”. Questo piccolo gesto banale, anche nella sofferenza, faceva ridere me e i miei fratelli. Mia mamma era una persona molto creativa, e fin da piccolo cercavo di scoprire da dove nascesse il suo essere creativa nonostante la sofferenza provata.

 

Gloria: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Renato Converso: come detto prima, sicuramente l’ingrediente principale è una condizione di sofferenza. Infatti, una persona che non prova dolore nella propria vita ed ottiene tutto ciò che vuole, non ha alcun tipo di interesse e necessità nel creare un qualcosa di nuovo come un prodotto creativo. 

La creatività, oltre ad essere qualcosa che nasce in condizioni dolorose, è anche uno strumento che permette di superare le difficoltà. Per esempio la mia vena creativa si esprime anche nella capacità di suonare cinque strumenti musicali alla volta. Grazie al mio lavoro ho visitato molti stati del mondo e, nei momenti di difficoltà, ho sempre ripensato alla mia infanzia ed adolescenza travagliata ed a questa mia capacità creativa di suonare cinque strumenti alla volta. Questi pensieri mi hanno dato la forza straordinaria per affrontare anche i momenti più complicati.  

 

Elisabetta: cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Renato Converso: penso che una delle condizioni per lo sviluppo della creatività sia la guida di una persona che ha già conoscenze in campo comico. Io stesso sono stato un mentore per giovani che adesso sono personaggi di successo, come Pucci e Baz, Mister Forest, Max Pisu. Mi sento orgoglioso del fatto che dalla pedana della Corte dei miracoli sono nati artisti come I Fichi d’india, Flavio Oreglio, Marina Massironi e Giacomo Poretti, Nando Timoteo, Max Pieriboni, Scintilla Fubelli, Gianluca Impastato, Carletto Bianchessi e Marco Bazzoni Baz, il mago Elias, Duilio Martina e molti altri ancora. 

Un altro ingrediente che aiuta, che può sembrare banale ma non lo è, sono le uscite e le cene con gli amici comici. Infatti, è nei momenti in cui si parla del più e del meno e degli accadimenti più recenti che nascono le battute. Oppure la mia vena creativa trova espressione anche nei momenti in cui cammino per strada, incontro la gente che mi segue nei miei spettacoli e, per farla ridere, penso a battute nuove legate a ciò che sto vivendo in quel contesto. 

Gloria: che conseguenza ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Renato Converso: durante la produzione creativa avverto sempre tanta tensione perché è un processo che, volente o nolente, mi riconnette sempre con le mie esperienze passate.  Una volta concluso lo spettacolo invece, percepisco una grande soddisfazione per quello che ho creato, seguita da un vuoto fortissimo che però considero positivo perché deriva proprio dalla gratificazione precedente. È questo vuoto che, connesso al ricordo di aver provato una sensazione di piacevole soddisfazione, mi spinge a far ripartire da capo il processo creativo.

 

 


Elisabetta
: che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso?

Renato Converso: sicuramente vedere un prodotto creativo realizzato e portato a termine solo con le mie conoscenze e la mia forza è estremamente gratificante. Ho sempre scritto i miei testi e dialoghi da solo, come il libro che ho appena pubblicato, e quando la gente mi fa i complimenti e ride alle mie battute è molto gratificante perché mi rendo conto di quello che sono in grado di creare. Inoltre, come ho accennato precedentemente, la creatività mi permette di mettermi in contatto con una parte dolorosa della mia vita e consente, un’elaborazione emotiva del mio passato anche dopo anni. Complessivamente posso dire che, quando creo, provo una sorta di amore verso me stesso. 

 

Gloria: nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo che cosa determina?

Renato Converso: è una specie di patologia seria, non posso fare a meno degli altri. Tutti sanno che nella vita non ho saputo fare di meglio che far ridere gli altri, quindi quando dici una cosa seria e drammatica devi inserire sempre un tocco di ilarità. E’ bello sentire l’altro ridere, emozionarsi. Mi dà sollievo e mi fa stare bene il rapporto con gli altri.

Cuore di Pane – Renato Converso

 

Elisabetta: quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Renato Converso: è tutto. E’ importantissimo che la gente rida quando si apre il sipario. Gli autori comici hanno sete della risata. Ti senti appagato e soddisfatto. Poi quando finisce la commedia molte persone stanno fuori ad aspettare che tu esca per farti qualche domanda abbracciarti, darti la mano, qualcuno che si è emozionato; è una cosa bellissima.

 

Gloria: chi sono i principali fruitori del tuo prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Renato Converso: nella mia esperienza alla Corte dei Miracoli, capitava venisse gente, coppie che prima dello spettacolo avevano litigato: alla fine mi scrivevano “abbiamo fatto pace grazie a te”. Oppure, faccio un esempio: io feci uno spettacolo al carcere di Opera con il dottor Aparo ed è successo che i detenuti fossero così divertiti e ridevano così tanto insieme agli operatori e ai poliziotti del carcere che si era creata un’unica grande famiglia. Per un momento gli ho fatto scordare che fossero in carcere. Io ero in un lago di sudore, sono sceso in mezzo a loro e molti mi hanno abbracciato anche se ero impresentabile. E’ importante per me quanto per loro, è uno scambio di emozioni alla pari. La creatività nasce dal dolore, ma riesce a far dimenticare la condizione di dolore durante lo spettacolo.


Locandina di Adriano AvanziniIl convegno nel carcere di Opera

 

Elisabetta: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Renato Converso: qualche scena di Totò, è il mio punto di riferimento artistico. Mi fa ridere e commuovere. Mi ispiro molto, per quello che riguarda la comicità, a Totò.

 

Gloria: credi che esista una relazione tra la depressione e la creatività?

Renato Converso: è una bella domanda che si scontra con la mia quinta elementare che non mi permette di rispondere bene. Io ho avuto un’esperienza di depressione, ma non ha avuto attinenza col mio lavoro. 

 

Elisabetta: quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Renato Converso: un prodotto creativo è concluso quando hai finito di scriverlo. Poi ti domandi cosa succederà dopo esserti esibito. Le reazioni del pubblico a fine spettacolo, quando poi torno a casa e mi corico sul letto e con gli occhi aperti fisso il soffitto e mi chiedo “è andata bene? è andata come mi aspettavo?”.

 

Gloria: pensi che la creatività possa avere una funzione sociale se sì quale?

Renato Converso: la creatività nel sociale è importantissima. Ho fatto tanti spettacoli per Emergency. Il pubblico fa donazioni agli spettacoli per aiutare. Offrire la comicità per ottenere la solidarietà. 

 

Elisabetta: la creatività è un dono naturale, privilegio di pochi o è una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

Renato Converso: può darsi che sia una cosa che riguarda un po’ tutti. Ma penso che la creatività venga sviluppata solo attraverso il dolore. E’ figlia legittima del dolore, in modo particolare per quanto riguarda i comici.

 

Gloria: la creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Renato Converso: la creatività mi ha salvato la vita, essendo nato in un contesto disagiato. Se non fosse stato per la creatività magari a quest’ora sarei un delinquente.

Intervista ed elaborazione di
Elisabetta Vanzini e Gloria Marchesi

Renato Converso su FacebookInterviste sulla creatività

Stefano Zuffi

Stefano Zuffi – Intervista sulla creatività

Stefano Zuffi è uno storico dell’arte. Egli racconta di aver potuto sviluppare il suo interesse per l’arte grazie a una formazione specifica e ha avuto la fortuna di fare della sua passione la sua professione. In particolare, Stefano si occupa di divulgazione culturale. Gli piace molto coinvolgere altre persone nella sua passione per l’arte e, nello specifico, nell’arte antica. Ha sempre cercato di trasmettere la sua passione tramite diversi sistemi. Principalmente ha scritto libri illustrati riguardanti la storia dell’arte, ma oltre a questo si è occupato nel corso della sua carriera dell’organizzazione di mostre, viaggi culturali, visite guidate, trasmissioni radiofoniche, spinto sempre dal desiderio di raccontare e coinvolgere un vasto pubblico.

Occupandosi di storia dell’arte, Stefano Zuffi è sempre stato coinvolto nella creatività, anche se afferma di non potersi definire una persona molto creativa. Tuttavia, ciò che più gli piace è cercare di raccontare e poter far vivere alle persone le storie dei quadri, degli artisti, delle città, dei monumenti, le storie dei musei e delle situazioni. Egli afferma di sentire molta gratitudine nei confronti della creatività, che è un grande dono che viene trasmesso attraverso le generazioni e i diversi secoli, oltre che attraverso i continenti. Di fatto, la creatività non ha confini. Questo concetto per lui è fondamentale e poterlo trasmettere rappresenta la sua passione.

 

Ottavia: Che cos’è per lei la creatività?

Stefano Zuffi: La creatività è l’essenza dell’essere umano. Io ritengo che la specie umana si sia qualificata e staccata dalle altre specie animali nel momento in cui ha cominciato a produrre delle opere d’arte.

Ma cosa sono le opere d’arte? Sono degli oggetti sostanzialmente inutili, cioè degli oggetti che non hanno una immediata praticità. Non servono per catturare un altro animale, non servono per migliorare concretamente l’esistenza in fondo ad una caverna, non ti rendono più forte del tuo rivale con cui devi contenderti il territorio, non fanno crescere i frutti sugli alberi o l’acqua in un ruscello. Tuttavia, l’arte è qualcosa che ha fatto crescere l’essere umano. L’arte è un’espressione della creatività nel fatto di creare qualche cosa che prima non c’era.


Le grotte di Lascaux

E che cos’è la creatività? La creatività vuol dire creazione, è un atto divino. È Dio che crea il mondo, le stelle, i vegetali, gli animali e poi alla fine di tutto crea anche l’uomo.

Parlare di creatività vuol dire fare qualcosa che prima non c’era, anche se è diverso dall’inventare. Infatti, la parola “invenzione”, dal punto di vista etimologico, significa trovare qualcosa che c’era già: colui che inventa ha l’abilità, l’intelligenza, la fortuna di trovare qualcosa che c’era già prima e metterla in luce. Invece la creatività è qualcosa di molto diverso perché significa aggiungere al mondo una possibilità completamente nuova.

Leonardo da Vinci ha scritto una frase stupenda: “Il pittore è signore e padrone di tutte le cose, perché se vuole le può creare”. Creare significa proprio potersi immaginare tutto ciò che si desidera. Egli, infatti, fa poi una serie di paragoni dicendo che se l’uomo vuole bellezze che lo facciano innamorare, egli è padrone di crearle, se vuole cose veramente buffonesche o risibili, egli è padrone di crearle; se quando fa freddo e vuole immaginare una spiaggia di sabbia dorata e calda la può creare e se, quando fa caldo, vuole una montagna piena di neve la può creare. Questa frase dà proprio l’idea della libertà. La creatività è libertà: libertà di lasciare la propria mente, le proprie mani e andare verso nuove scoperte, verso nuovi orizzonti.


Les demoiselles d’Avignon, Pablo Picasso

Leonardo dopo di tutti questi esempi dice: “alla fine, tutto ciò che c’è nell’universo, nella realtà e nell’immaginazione il pittore ce l’ha prima nella testa e poi nelle mani, e quelle fanno in un istante un’armoniosa bellezza, come fa la natura”. Infatti, tutto quello che di meglio può fare un artista, la natura lo fa spontaneamente.

La creatività per me è proprio questo: fare qualcosa che prima non c’era.

 

Asia: Quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Stefano Zuffi: Prima di tutto un elemento indispensabile è la curiosità, che significa non limitarsi a ciò che è già noto e conosciuto e fermarsi a questo. Se invece, con un po’ di fiducia nelle nostre capacità usciamo da questa comfort zone, ecco che scatta un percorso di attenzione e di ricerca di stimoli. La creatività, infatti, ha bisogno di stimoli: l’intuizione scatta nel momento in cui cominciamo a guardarci intorno e a ricevere degli stimoli.

Anche in questo caso vorrei citare Leonardo. Egli era un grande camminatore, gli piaceva fare delle lunghe passeggiate nella natura, che per lui erano sempre occasioni per ricevere stimoli e spunti. Leonardo racconta di aver fatto una passeggiata d’estate in un bosco che non conosceva, ad un certo punto arriva davanti all’imboccatura di una caverna e si ferma: non sapeva niente di questa grotta, si è piegato in avanti cercando di scorgere il fondo, ma non vedeva niente perché la caverna era molto profonda e scura. Egli narra che subito nacquero in lui due cose: paura e desiderio. Paura per la minacciante e oscura caverna, desiderio di vedere se là dentro ci fosse qualcosa di miracoloso.


La vergine delle rocce, particolare – Leonardo da Vinci

Leonardo ci mette di fronte a questi due sentimenti, che sono proprio quelli tra i quali si crea un corto circuito che porta alla creatività. Il primo sentimento è quello della paura, la paura per l’ignoto, e molte persone si fermano davanti a questa paura. Ma Leonardo dice no perché c’è un altro sentimento, forse ancora più forte, che è il desiderio: il desiderio della conoscenza, la curiosità. Non è detto che vincendo la paura dell’ignoto si scoprirà davvero un tesoro in fondo alla caverna, ma vale la pena di tentare.

La creatività è quella molla che ti spinge a cercare e a metterti alla prova.

 

Ottavia: Che cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

Stefano Zuffi: Da una visione esterna, io svolgo un’attività particolarmente creativa perché lavoro nei musei, organizzo mostre. Si direbbe che io abbia una fortunata occasione di lavorare con la creatività.

Si può dire che la mia creatività è un po’ parassitaria perché mi baso sulla creatività altrui. Io cerco di unire la struttura del mio mestiere con il tentativo di fare sempre qualcosa di nuovo. Tempo fa mi hanno chiesto come facessi a scrivere sempre qualcosa di nuovo visto che ormai ho scritto centinaia di libri. Qui c’è l’aspetto della creatività: nel cercare ogni volta un percorso diverso, un approccio che proponga qualcosa di nuovo e che magari vada a toccare qualcuno che fino a quel momento era stato indifferente.


L’assenzio – Edgar Degas

 

Asia: Che conseguenze ha sulle sue emozioni e il suo stato d’animo la produzione creativa?

Stefano Zuffi: Secondo me è l’opposto: io riesco ad essere creativo se ho delle emozioni. A volte ho delle scosse molto forti, io sento la voce delle opere d’arte, che cercano di raccontarmi la loro storia. Quando avverto questa consonanza ed entro in sintonia con la vita di un’artista, allora a quel punto mi sento autorizzato ad agire con creatività nei suoi confronti per cercare di trasmettere le mie riflessioni anche ad altri.

Il ritorno del figliol prodigo – Rembrandt

 

Ottavia: Come incide l’atto creativo sulla percezione di sé?

Stefano Zuffi: Senza creatività l’uomo non esisterebbe. Sarebbe solamente spinto da bisogni primari, sarebbe ancora più violento e cattivo di quanto già non sia. Per fortuna c’è questa umanità che è la creatività. Se non avessimo avuto la creatività veramente saremmo ancora nelle caverne.

Bisogna però riflettere sul fatto che la creatività non sempre raggiunge buoni risultati: è stato un atto creativo anche la creazione della bomba atomica. Alla fine, bisogna essere molto creativi anche per inventare cose micidiali. Esiste quindi anche una creatività diabolica. Non bisogna idealizzare il termine “creatività”, che non è di per sé un valore positivo. La creatività come tutte le doti può essere incanalata verso scenari diversi. Io per fortuna mi occupo della creatività positiva, dell’arte.


I bari – Caravaggio

 

Asia: Nel rapporto con gli altri cosa determina l’atto creativo?

 Stefano Zuffi: Credo sia un gesto di generosità: se cerco di inventare nuovi argomenti e nuove prospettive, cercando di essere creativo e propositivo uscendo dalla comfort zone, metto a disposizione delle persone con cui interagisco opzioni nuove e inaspettate. È importante essere proattivi e non chiusi e passivi. Il rapporto con gli altri è sempre dialettico e dialogico, devo essere pronto a recepire la creatività altrui, ci dev’essere una reciprocità ma non è sempre facile.

Sisifo – Tiziano

 

Ottavia: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

 Stefano Zuffi: Il riconoscimento degli altri è ciò che distingue una vera opera d’arte da qualcosa che non lo è. Tuttavia, è molto difficile dare una definizione di “opera d’arte”: chi stabilisce se l’oggetto che ho in mano, in questo momento, è un’opera d’arte oppure no? È una semplice matita. Eppure, se questa matita venisse conficcata in questo punto da Cattelan, allora sarebbe un’opera d’arte. È difficile dare una definizione di “opera d’arte”, soprattutto nell’arte contemporanea, che prescinde dalla qualità del manufatto. Il giudizio degli altri è fondamentale. Io penso che i sogni siano molto creativi e capitano a ogni persona. Ma, se un’idea, anche la più brillante, non viene condivisa, allora non ha molto senso; invece, diventa importante quando viene condivisa nella relazione con gli altri perché saranno proprio questi a giudicare se la proposta creativa funziona oppure no.

 

Asia: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

 Stefano Zuffi: Tutti coloro che non sono indifferenti. La nostra cultura ha privilegiato molto la creatività, basti pensare alla pubblicità. Il creativo è colui che lavora nella pubblicità, cercando di mettere insieme delle dinamiche sociali, creando dei bisogni e riuscendo a sfondare il muro dell’apatia e dell’indifferenza. A questo proposito, penso alla nebbia delle persone indifferenti. È molto importante riuscire a superare il muro dell’indifferenza raggiungendo le persone, anche quelle avvolte nella nebbia.

La chiamata di San Matteo – Caravaggio

Per fare un esempio di creatività, pensiamo ad alcuni calciatori che sono più bravi di altri perché sono creativi, cioè hanno delle intuizioni. Riescono a vedere in una situazione di gioco una possibilità, un’alternativa che gli altri non vedono. La creatività è allora fare qualcosa di inaspettato, non banale, che non era previsto, qualcosa di non ripetitivo e di fuori-campo. Basti pensare a Maradona: nessuno avrebbe mai pensato che con il suo fisico sgraziato potesse essere un’artista impressionante. Una volta, vedendo che il portiere era un po’ lontano dai pali, gli è venuto in mente di tirare da 50 m di distanza un pallone che è finito in rete… quello è stato un momento di creatività.

 

Ottavia: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

 Stefano Zuffi: Penso a quando 20 000 anni fa un nostro antenato, con la mano sporca, si è appoggiato su una parete di roccia di una caverna lasciando la sua impronta. Egli ha guardato l’impronta, ha intinto la mano nel fango e l’ha rimessa sulla parete della caverna. Perché l’ha fatto? Era una forma di sortilegio? Di rito propiziatorio? Secondo me questa è stata l’origine dell’atto creativo.

Grotte di Lascaux

 

Asia: Pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

 Stefano Zuffi: Sono sicuro di sì e questo lo dice un grande artista come Albrecht Dürer il quale ha vissuto a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento ed è stato un formidabile creatore di immagini non solo nella pittura ma anche nelle incisioni; ed era certamente una persona depressa. All’epoca non esisteva il termine “depressione” ma si parlava di “melanconia” e lui diceva di soffrirne. È una condizione esistenziale che lo portava a essere solitario, a non cercare i contatti umani chiudendosi in una solitudine pensierosa che aveva conseguenze anche sul piano fisico (raccontava di soffrire di travasi di bile nera). Però diceva che tutto questo soffrire gli era indispensabile perché per cercare di superare il malessere creava e nell’arte concentrava le sue forze. La creatività è stata per lui la cura della depressione.

 

Ottavia: Per lei quando un prodotto creativo è davvero concluso?

 Stefano Zuffi: Mai. Il prodotto creativo, per definizione, è qualcosa che viene messo a disposizione. Se pensiamo a un libro pubblicato o a una canzone, diamo per scontato che il prodotto creativo sia giunto al termine. Ma quando rileggiamo un libro o riascoltiamo una canzone, queste creazioni ci possono riproporre un dialogo creativo. Pensiamo, ad esempio, a un quadro che finisce in soffitta e viene dimenticato o alle centinaia di milioni di libri che sono stati pubblicati e poi sono stati dimenticati: l’atto creativo ha esaurito il suo ciclo vitale. Ma, quando un oggetto, sia esso un quadro, un libro o un brano musicale, vengono riguardati, riletti o riascoltati, il ciclo creativo ricomincia e l’atto creativo riprende. L’atto creativo è in funzione quando intercetta lo sguardo dell’altro.


Amor vincit omnia – Caravaggio

 

Asia: Pensa che la creatività possa avere una funzione sociale? Se sì, quale?

 Stefano Zuffi: Penso che ciò che è brutto e degradato abbia delle conseguenze sociali rilevanti. Noi ci illudiamo di vivere in un Paese meraviglioso in cui siamo circondati dalla bellezza: il mare, le montagne, le opere d’arte, ecc. ma la verità è che più della metà degli italiani vive in posti orribili, anonimi, in quartieri sorti frettolosamente e con materiali inadeguati, con progetti urbanistici gretti e cupi. È indispensabile che questi contesti in cui vivono milioni di persone vengano rivitalizzati dal tocco della creatività e della bellezza. Ad esempio, uno dei miei figli ha dato vita a un’associazione con cui ridipingono la pavimentazione dei playground dei campetti di pallacanestro soprattutto nelle periferie grigie e anonime. Questi campetti sono per i giovani un tocco di colore e allegria, di speranza. Più che dire che la creatività abbia un ruolo sociale, direi che l’assenza di creatività ha delle pesanti conseguenze sociali.


La scuola di Atene – Raffaello

 

Ottavia: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o una competenza accessibile a tutti che può essere allenata?

 Stefano Zuffi: Penso che il talento sia un dono naturale, c’è qualcuno che è più bravo degli altri in determinati campi. Ognuno ha il proprio talento, è più portato per alcune cose piuttosto che per altre, non tutti hanno la stessa dose di talento. Tuttavia, la creatività può essere allenata e fatta crescere; non esistono grandi artisti che siano semplicemente spontanei: anche gli artisti più precoci hanno avuto la pazienza e il metodo di far crescere la loro creatività. Per fare un esempio, Mozart è stato baciato da un talento incredibile, era un bambino che suonava il clavicembalo meglio dei professionisti, aveva un talento naturale spontaneo. Mozart però ha studiato per tutta la vita, prendeva lezioni di contrappunto, studiava a memoria le composizioni altrui, cercava di acquisire nuove informazioni, viaggiava ed era curioso degli sviluppi tecnici degli strumenti musicali del suo tempo.

 

Asia: La creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività per il recupero dei detenuti?

 Stefano Zuffi: Si, se si riesce a trovare la combinazione tra l’espressione dei propri sentimenti e della propria natura e la cura per la forma con cui vengono espressi determinati concetti. Qualunque cosa esprimiamo attraverso la pittura, la cucina, la musica, ecc., non ci dobbiamo accontentare della semplice spontaneità, come se il medium non fosse importante. Il modo in cui la creatività viene espressa è parte integrante del messaggio che viene proposto. Creatività è anche sapersi rivolgere a qualcuno cercando di far pervenire quello che vogliamo dire nel modo più coinvolgente possibile.


Mangiatori di patate – Vincent Van Gogh

Sarebbe grave porre dei vincoli troppo rigidi alla creatività. Vincent Van Gogh è stato ricoverato in un sanatorio per disturbi mentali da cui non poteva uscire ma ha avuto la fortuna di trovare un bravo medico che si è reso conto che per lui la vera cura fosse legata alla possibilità di esprimere la propria arte. Per questo il medico gli ha messo a disposizione degli strumenti per poter dipingere. Van Gogh, però, era chiuso entro quattro mura: non sapeva proprio che cosa dipingere. Chiese allora di poter uscire accompagnato a vedere la natura per trovare degli stimoli. Alla fine, si sa che Van Gogh è morto suicida, ma l’aver potuto dare sfogo alla sua creatività, in quel determinato periodo della sua vita, è stato indispensabile.

Intervista ed elaborazione di
Asia Olivo e Ottavia Alliata

Interviste sulla creativitàCaravaggio e la Chiamata
Alcuni libri di Stefano Zuffi

Carmelo Carrubba

Carmelo Carrubba – Intervista sulla creatività

Carmelo Carrubba, pittore da decenni, da qualche anno si dedica con maggiore assiduità a quella che è stata la sua passione fin da piccolo, ovvero la scultura di pietre, metalli e materiali vari che raccoglie durante le sue passeggiate, una passione che ha ereditato dal nonno paterno, un pittore figurativo discretamente riconosciuto a Catania.

Il ritorno alle origini è stato attivato qualche anno fa da una pietra che “lo guardava” mentre Carrubba era a passeggio per le campagne di Ragusa. Nel volgere di poche ore ne è nata l’opera che egli definisce come la più spontanea e la più sorprendente delle sue. In conseguenza della estemporaneità della sua ispirazione, egli definisce la sua creatività merito soprattutto del suo istinto primitivo.

 

Elisabetta: Che cos’è per te la creatività?

Carmelo Carrubba: come prima cosa, credo utile distinguere fra creatività spontanea e quella indotta:

  • La prima comprende, ad esempio, gli episodi in cui, camminando per strada, vedo un oggetto che mi ispira e dà vita a un particolare progetto. Comincio ad immaginarmi cosa potrei fare con questo elemento naturale e in un secondo momento, mentre metto mano sull’elemento che mi ha attirato e procedo con il mio lavoro, esso si trasforma in un prodotto che non avevo previsto, che non corrisponde totalmente all’idea iniziale e che non sarei riuscito ad immaginare. In generale nell’arte, tranne per gli artisti che si dichiarano seguaci di una pittura piuttosto classica e sono quindi tenuti a seguire determinati canoni artistici, nessuno parte con un’idea precisa e un piano che viene seguito pedissequamente durante la produzione. Questo perché, in corso d’opera, ci sono tanti cambiamenti che portano ad un’idea diversa rispetto a quella da cui si era partiti. Paradossalmente, la creatività può prendere vita a partire da un errore, per esempio un colpo di scalpello inflitto troppo forte sulla pietra, che causa la rottura del naso sul viso che sto realizzando, e ciò costringe a rivedere e ripensare il prodotto creativo, il quale alla fine sarà differente da ciò che avevo immaginato all’inizio. È questo tipo di creatività spontanea che caratterizza in maggior misura la mia produzione artistica.
  • Con creatività indotta, invece, mi riferisco a quel tipo di curiosità verso un ambito preciso dell’arte, che nasce per esempio nel momento in cui l’individuo rimane colpito dalla visione di un documentario riguardante artisti molto particolari, e questo fa scattare l’interesse dell’artista.

 

Alice: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Carmelo Carrubba: credo siano principalmente due: da un lato, troviamo la capacità di trasformare degli stimoli ambientali in un’opera personale, processo reso possibile da un’immaginazione fervida; dall’altro, la soddisfazione che deriva dalla creazione dell’opera una volta portata a termine.

L’immaginazione è una qualità fondamentale, in quanto è ciò che permette di creare un progetto a partire da qualcosa che ci colpisce. Per esempio, l’immaginazione gioca un ruolo fondamentale quando, camminando per strada, vedo un cartellone pubblicitario sbiadito e rovinato dagli agenti atmosferici e, osservandolo bene e andando al di là del mero oggetto di carta, mi rendo conto che all’interno di esso riesco a distinguere un’immagine astratta che mi ispira.

Tuttavia sono convinto che la capacità di immaginare non sia prerogativa esclusiva dell’artista e che tutti possano cimentarsi nel processo di immaginazione. Per esempio, se si domanda ad una persona naïf (artisticamente parlando) cosa vede nell’opera che sta osservando, ella risponderà guidata da ciò che la sua immaginazione le permette di vedere, immagine che quasi certamente sarà diversa da ciò che ci vedo io.

Un altro aspetto che mi piace sottolineare è che la soddisfazione che deriva dalla realizzazione del prodotto creativo, permette l’attivazione di un circolo virtuoso che spinge alla produzione continua di nuove opere.

 

Elisabetta: cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Carmelo Carrubba: sicuramente una condizione molto importante che porta allo sviluppo del processo creativo è la spontaneità citata poco fa. L’atto creativo, infatti, prende avvio in maniera molto spontanea, come se ci fosse un fattore scatenante che mi stimola e mi spinge ad attivarmi, a muovere le mani e a produrre qualcosa di nuovo. È come se fossi guidato da un istinto che mi induce ad esternare ed a concretizzare il mio estro creativo, attraverso la lavorazione di un elemento naturale che mi colpisce e che io raccolgo per poi lavorarlo.

Per esempio è da due anni che sto cercando di portare a termine un’opera, la quale, pur non essendo ancora finita, non corrisponde all’idea iniziale su cui ho basato il mio progetto. La scintilla per la realizzazione di quest’opera è nata da un oggetto piuttosto singolare che ho trovato in campagna, ovvero un semicerchio incurvato di metallo che ho poi lavorato con la cartapesta. Da questo oggetto abbandonato e dimenticato ha preso forma un uomo stilizzato che cerca di scappare – una delle caratteristiche delle mie opere è che non realizzo mai le figure in maniera dettagliata ma le lascio piuttosto stilizzate –. Ad un certo punto però, mi sono reso conto che più aggiungevo elementi, meno l’opera mi soddisfaceva. Allora ho cominciato ad eliminare vari elementi e l’opera cominciava ad appagarmi di più. Tuttavia non sapevo come portare a termine il mio prodotto creativo, in quanto non riuscivo a realizzare la testa di quest’uomo e, per quanto ci provassi, non trovavo la giusta ispirazione per concluderla. Per fortuna qualche giorno fa, per caso, ho notato un oggetto da me realizzato precedentemente: ho preso un bicchiere di plastica all’interno del quale ho versato della ceramica in polvere che, dopo essersi indurita, ha dato forma ad un elemento dalla forma molto particolare, che ho usato appunto come testa dell’omino stilizzato. Ora, quando guardo la mia scultura, mi sento finalmente gratificato e soddisfatto, in quanto percepisco che mi comunica qualcosa. Oltre ad un’ispirazione improvvisa, non credo ci siano altre particolari condizioni necessarie alla creatività.

 

Alice: che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Carmelo Carrubba: sono cresciuto in un ambiente molto prolifico nel campo creativo e questo mi ha indotto a percepire la creatività come una qualità a cui aspirare. La produzione creativa mi dà forza e sapere di poter creare qualcosa mi appaga e mi fa sentire potente. È una soddisfazione personale, profonda ed intima, che nasce proprio dall’ispirazione non programmata ed improvvisa che vi sta alla base. Inoltre, quando sono impegnato nel processo creativo, mi sento permeato da un profondo senso di tranquillità.

Un altro aspetto molto interessante è che, quando realizzo un prodotto creativo, mi sento contemporaneamente estraneo e partecipe: estraneo, perché sto dando vita ad un oggetto su cui ho un progetto iniziale ma di cui non conosco il prodotto finale; partecipe, perché sto creando un’opera grazie alla sola forza delle mie mani e della mia immaginazione. In un certo senso, durante la concretizzazione del progetto, percepisco un distacco dal pubblico del mercato artistico, nel senso che non produco per piacere agli altri e quindi vendere, ma per rispondere ad un mio moto interno che mi ispira.

 

Alice: e nel rapporto con gli altri cosa determina?

Carmelo Carrubba: credo che il confronto approfondito con gli altri sia ristretto ad una cerchia di artisti con le conoscenze e le competenze necessarie per comprendere ciò che produco. Il rapporto con le persone che non appartengono al mondo artistico è più difficile. In generale, percepisco tra le persone una diffusa ignoranza artistica, causata dalla mancanza di un’adeguata educazione in tal senso. Non mi stupisce che i figli di registi, pittori e scrittori facciano, a loro volta, gli stessi lavori dei propri genitori. Questo avviene perché, fin da piccoli, sono stati educati e hanno vissuto in un ambiente artisticamente prolifico.

 

Elisabetta: quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Carmelo Carrubba: Ogni volta che si fa qualcosa e la si propone agli altri, è bello ricevere dei complimenti, se questi ultimi sono sinceri. È giusto che ci sia il riconoscimento, perché ognuno crede nelle sue opere e per questo è bello ricevere un riconoscimento anche da chi non condivide la tua forma di espressione; a maggior ragione quando questo proviene da persone dello stesso settore.

La mia soddisfazione, comunque, non è rivolta alle persone che guarderanno la mia opera, prima di tutto devo  essere io ad apprezzarla.

 

Alice: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo? Come ne traggono giovamento?

Carmelo Carrubba: I fruitori possono essere tutti e tutti ne potrebbero trarre giovamento, ma tutto dipende dall’educazione e dall’ambiente in cui si è nati. Se si ha avuto la possibilità di entrare in contatto con persone che apprezzano l’arte, sarà più facile fruire dei prodotti creativi e, di conseguenza, trarne giovamento. Il problema, a mio avviso, è la scarsità di cultura artistica, ma tutti possono ottenere e portare beneficio attraverso questa o quella forma d’arte. Ciascuno a suo modo cerca di trasmettere anche agli altri quello che sente. Qualcuno giunge all’espressione artistica solo in età adulta, senza aver avuto un percorso artistico alle spalle, e penso che questa sia una cosa bella, che tutti dovremmo fare. Tutti dovremmo avere uno scopo diverso dalla solita giornata lavorativa.

 

Elisabetta: Quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Carmelo Carrubba: Mi viene in mente un’immagine che ho visto ultimamente in un bel film su Michelangelo. Quasi alla fine del film, Michelangelo si ritrova con una grande mazza in mano e una colonna di marmo; in quel momento dice: “mi stai distruggendo” ed era proprio ciò che io volevo fare.

 

Donna

Alice:  pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

Carmelo Carrubba: Nel mio caso no, ma tanti altri artisti, grandi artisti, avevano dentro di loro una grande depressione. Tra questi Van Gogh, la cui depressione ha sicuramente influito sulla sua arte, sulla sua espressione ad alto livello. Dunque non escludo che possa esistere questo legame e che alcune persone possano ovviare alla depressione grazie alla loro creatività.

 

Elisabetta: quando per lei un prodotto creativo è davvero concluso?

Carmelo Carrubba: per me l’atto creativo è concluso quando io stesso sono soddisfatto; quando mi rendo conto che il risultato è quello che all’inizio cercavo, anche se non me ne rendevo conto.

 

Alice: secondo lei, la creatività può avere una funzione sociale?

Carmelo Carrubba: certo, la creatività ha una funzione sociale in tutte le sue espressioni. L’arte permette dicomunicare qualcosa agli altri, di fornire qualcosa da cui si possa trarre ispirazione.

C’è anche chi vede l’arte come uno strumento al solo scopo di lucro, di vendita, ma per me questo non è il veroobiettivo dell’arte: l’arte prima di tutto deve ispirare, fornire dei punti di riferimento.

 

Elisabetta: lei crede che la creatività sia un dono della natura, un privilegio di pochi oppure una competenza accessibilea tutti che si può acquisire ed allenare?

Carmelo Carrubba: non so se la creatività sia un privilegio di pochi, ma sicuramente può essere allenata. Se qualcuno che non ha mai preso un pennello in mano si mette davanti ad una tela ed comincia a impastare i colori, può scoprire di avere un talento. Sicuramente ci sono state tante persone che hanno avuto il dono innato della creatività; grandi artistiche già da piccoli riuscivano a riprodurre delle figure in maniera perfetta, senza aver mai preso lezioni di arte, che hanno imparato  da completi autodidatti.

Nel mio caso, pur essendo io un autodidatta, l’arte mi ha portato a vedere le cose in modo diverso da come le vedevo istintivamente, a scoprire la piccola scintilla che ognuno di noi ha dentro e che, se viene accesa, si può sviluppare.

 

Alice: la creatività può avere un ruolo utile nelle scuole? E nelle attività di recupero del condannato?

Carmelo Carrubba: certamente, sia nelle scuole, che nelle carceri! Se alle persone che non hanno più uno scopo si dà come obiettivo quello di creare un prodotto artistico o di fruirne, il recupero sociale è sicuramente facilitato. L’arte aiuta a sviluppare la consapevolezza di essere su una strada diversa da quella percorsa in precedenza, di poter essere utili a sé stessi e agli altri. Quando l’arte porta ad ottenere il riconoscimento e la stima degli altri, aiuta a capire che ciò che si ha dentro può essere investito anche in questa direzione che, sicuramente, da tanta soddisfazione.

L’arte, di qualsiasi tipo, dovrebbe essere utilizzata per prevenire, anche nelle scuole. Parlando con i ragazzi, spesso noto che sono molto preparati sull’arte. L’altro ieri, è venuto a farmi visita un ragazzino di tredici anni insieme a sua madre; ha visto un’opera in vetro-resina che avevo riassemblato  perché era caduta, creando così un’opera nuova. Prima di andarsene, il ragazzino mi ha detto: “Carmelo, dovresti fare altre opere così. Prendi un palloncino, lo riempi con del gesso, lo fai gonfiare, poi lo rompi e riassembli tutto”.

Questo vuol dire che l’arte permette di vedere il mondo per quello che è ma anche e forse soprattutto di immaginarlo come vorresti che diventasse e di adoperare le tue mani, nei limiti di ciò che per te è possibile, per farlo andare in quella direzione… che, oltretutto, è anche gratificante. L’unico vincolo è che, per operare nell’arte, bisogna avere qualcosa dentro di sé che dia la spinta e occorre fare attenzione a percepirne i segnali. Tante volte, infatti, ci si lascia distrarre dal frastuono intorno e non si captano i segnali che hai dentro te stesso o che ti comunica una pietra che incontri per strada.

 

Intervista ed elaborazione di 
Alice Viola ed Elisabetta Vanzini

La galleria di Carmelo Carrubba – Interviste sulla creatività

Francesco Scoccimarro

Francesco Scoccimarro – Intervista sulla creatività

Franco Scoccimarro ha lavorato nell’ambito della produzione industriale, ma al cuore della sua attività, fin da bambino, ci sono sempre stati il disegno e la pittura. Ricorda con simpatia che alle scuole elementari ebbe anche un premio per un disegno raffigurante il Duomo di Milano. La consapevolezza della sua passione per l’arte figurativa, tuttavia, si fa chiara molto più tardi, quando comincia a collezionare i numeri de “I maestri del colore”. Da adulto, ha seguito la sua passione spesso lavorando di notte, riuscendo a volte a vedere i colori nella luce naturale soltanto nel fine settimana.

 

Alice: Cos’è per lei la creatività?

Franco: La creatività può essere diverse cose: un percorso che produce una novità; la capacità di connettere categorie estranee tra loro; l’invenzione di antichi strumenti di sopravvivenza per rispondere ad una emergenza; possiamo anche dire che è  selvaggia dell’intelligenza.


Ciro – Franco Scoccimarro

 

Ottavia: Cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

Franco: Premesso che per me non esiste un ambito preferenziale per esercitare questa specie di gioco, mi capita in ogni momento di avvicinare idee o cose di genere diverso, di assemblarle, rivoluzionandone finalità, architettura e logica, e questo per creare un oggetto nuovo. Forse le migliori occasioni in cui scatta l’impulso creativo sono quelle in cui scoppia il conflitto che a volte vivo con il “comune sentire”. Altre volte nasce da un contrasto fra l’oggetto che ho davanti e quello di cui avrei bisogno. A quel punto si attiva una ricerca di soluzioni per farlo diventare quello che desidero.


Disordine e armonia – Franco Scoccimarro

 

Ottavia: c’è un’immagine che per lei rappresenta bene l’atto creativo?

Franco: l’atto creativo è soprattutto negli occhi di chi guarda, non sempre è clamoroso, a volte basta una piccola armonia inedita (che si può scovare, peraltro, in qualsiasi momento della vita) per rinnovare vecchi equilibri omologati o giungere, attraverso sentieri imprevisti, a una nuova consapevolezza personale. A volte l’ultimo granello di sabbia della duna, rotolando giù, innesca lo spostamento totale.


Periferie di leggerezza precaria (OTAITTAB) – Franco Scoccimarro

 

Alice: Che incidenza ha l’atto creativo sulle emozioni e sulla percezione di se stesso?

Franco: Mi piace e mi fa star bene costruire uno scaffale con vecchie imposte o una lampada con il cocco a far da paralume e un tendicavo per alzarla ed abbassarla. Questo stesso meccanismo si ripete con i concetti e le idee; allora vengono le battute, gli accostamenti trasgressivi. E’ bello scoprire contraddizioni, oppure, se le cose vanno troppo lisce, inventarle. Pensiamo, ad esempio, ai tagli di Fontana. Da parte mia, Quando finisco un’opera sono contento perché mi sono impegnato nel portare avanti una sfida. In linea generale, riconosco che mantenere una certa continuità con la mia attività artistica e tentare di fare al meglio ciò che faccio mi aiuta a stare in pace con me stesso…  anche nei periodi in cui con me stesso non sono in ottimi rapporti.

Schegge – Franco Scoccimarro

 

Ottavia: E che effetto ha nel rapporto con gli altri?

Franco: Non sempre la mia creatività entra nel rapporto con gli altri. Ho figli e nipoti, un soddisfacente e normale rapporto con gli altri. Se la conversazione si sposta sui miei lavori, il discorso ha ogni volta le sue peculiarità e prende pieghe diverse.

 

Alice: Quanto è importante il riconoscimento degli altri verso il suo prodotto

Franco: È importante perché mi gratifica, indubbiamente, ma non è un’ossessione, non è la ragione per cui dipingo. Non penso mai a come una mia opera possa essere accolta. Io stesso sono critico con i miei lavori e capisco che anche gli altri possano esserlo.


Frammenti – Franco Scoccimarro

 

Ottavia: pensa che esista una relazione tra depressione e creatività?

Franco: Non mi sembra che mia creatività sia correlata in un senso o nell’altro con la depressione, parlo della depressione che in qualche misura tutti vivono di tanto in tanto. Ma penso che entro certi limiti possa esistere fra le due cose una relazione. La depressione è entrare di più in sé stessi ed evitare, per diverse ragioni, la comunicazione con l’esterno per periodi più o meno lunghi. Questo, a volte, è anche il mio atteggiamento: l’atteggiamento di chi frequenta la creatività. Dunque, ci sono delle analogie. Ma che io sappia, nel mio caso, non ci sono ricadute negative: non considero il mio cercare in me stesso un modo per escludermi dall’ambito sociale. Ognuno ha le sue attitudini.

 

Alice: Quando un prodotto creativo è concluso?

Franco: Mai. Molte volte, anche a distanza di anni, torno a mettere le mani su miei lavori vecchi.


Tangenze – Franco Scoccimarro

 

Alice: secondo lei la creatività è un dono naturale o una competenza che si può allenare?

Franco: La creatività non è un dono, come non lo sono i peli del naso o l’intestino cieco; tutti noi siamo l’esito del sacrificio selettivo di chi ci ha preceduto; la creatività è l’eredità della selezione di cui siamo potatori e beneficiari e alla quale siamo giunti, una generazione dopo l’altra, mentre alcuni dei nostri antenati venivano sopraffatti dalle avversità e altri riuscivano a venirne a capo. La creatività è una delle nostre abilità e certamente può essere stimolata e allenata.

 

Ottavia: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo?

Franco: penso che ogni lavoro artistico abbia dentro di sé la capacità di coinvolgere qualcuno; ma perché ciò accada è necessario che l’osservatore abbia una sensibilità che possa entrare in comunicazione con l’opera. Cerco nell’armonia un mezzo di per comunicare. Se non fossimo in un ragionevole equilibrio fisico e armonico non potremmo esistere. Tutto l’universo è costruito su queste singolarità e tutto il resto viene di conseguenza; l’armonia è il linguaggio dell’universo e, forse, come sostengono i fisici, l’universo è linguaggio.


Coriandoli – Franco Scoccimarro

 

Ottavia: secondo lei la creatività può avere una funzione sociale? Se sì, quale

Franco: Si, eccome! Spesso le immagini e le sintesi creative arrivano molto più rapidamente ed efficacemente al destinatario. Ad esempio, il quadro “La zattera della medusa” – di Géricault – esprime il dramma di un naufragio come nessun’altra descrizione.

Non è possibile trasmettere così direttamente il senso di un naufragio raccontandolo a parole.

Anche il “Guernica” di Picasso rappresenta un dramma come delle parole non riusciranno mai ad esprimere.

 

Allo stesso modo, la foto di Robert Capa del soldato sulla collina che sta per cadere a terra dopo essere stato colpito da un proiettile.

Oltretutto, un linguaggio attraente spesso è fondamentale nella comunicazione, come ben sanno i pubblicitari che hanno il creativo come figura professionale…

 

Ottavia: la creatività può avere un ruolo nelle scuole o nelle attività di recupero del condannato?

Franco: Si, sicuramente. La creatività può contribuire all’autoconsapevolezza, alla capacità di apprezzare, riconoscere e alimentare il proprio impegno nei confronti della società, delle relazioni. Chiunque si ponga nei confronti delle relazioni in modo consapevole ha una chance, una carta in più. Riconoscere, educare e allenare le proprie capacità cambia profondamente la propria immagine e concorre considerevolmente a positive relazioni sociali.


Residui – Franco Scoccimarro

Credo che la creatività, intanto che viene coltivata, permetta all’individuo sia di migliorare il rapporto con se stesso sia di avere una relazione funzionale con la collettività. Sono importanti entrambe le cose anche se qualche volta l’una si sviluppa in contrasto più o meno aspro con l’altra. A volte, la spinta che motiva a ottenere il riconoscimento degli altri va a discapito del rapporto con le nostre peculiarità e l’esplorazione delle nostre risorse.

Intervista ed elaborazione di 
Alice Viola e Ottavia Alliata

Galleria F. ScoccimarroInterviste sulla creatività

Tonino Scala

Tonino Scala – Intervista sulla creatività

Tonino Scala è un musicista, scrive canzoni, commedie musicali e parodie. La sua passione per il mondo delle musica emerge da bambino, quando si esercitava in casa con il pianoforte della sorella. Ha studiato architettura, ma quella non era la sua strada. Ha sempre fatto il musicista suonando in diversi gruppi.

 

Arianna: che cos’è per lei la creatività?

Tonino Scala: La creatività è la capacità che ognuno di noi ha di creare con la fantasia, con il proprio estro. Tutti siamo in possesso di fantasia e ognuno di noi la manifesta in un modo diverso: chi con il disegno, chi con la musica, chi con la scrittura.

 

Asia: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Tonino Scala: Gli ingredienti per aver un buon prodotto finale sono innanzitutto l’ispirazione, la ricerca delle cose che ti fanno stare bene e la fantasia. Un altro ingrediente principale è la tecnica che si usa per dare forma e organicità alla parte creativa, quindi lo studio. Lo studio permette di acquisire tecniche per realizzare la propria opera: ad esempio, nel mio campo devo sapere la teoria musicale, come si accostano le note in modo da creare un motivo melodioso.

 

Arianna: che cosa avvia, come si sviluppa la sua creatività e in quali condizioni?

Tonino Scala: Il mio non è un lavoro di ufficio; non mi alzo al mattino e dico “adesso creo una canzone”, ma devo essere ispirato. Anche solo guardando un quadro, ascoltando una canzone, mi metto a creare qualcosa. Non ho un orario preciso e dei vincoli, non è schematico il mio lavoro, ma devo trovare ispirazione. In questo periodo ad esempio non sono ispirato, sono arrabbiato con il mondo intero, e quindi non potrei scrivere della buona musica. Guardo delle foto, ascolto la radio e ogni tanto mi viene l’ispirazione. A Luigi Tenco, un cantautore, avevano chiesto perché scrivesse cose tristi e lui ha risposto ‘Perché quando sono allegro esco e vado a divertirmi’. Lo stesso vale per me: quando ascolto qualcosa che mi ispira scrivo, però deve essere il momento adatto.

 

Asia: che conseguenze ha sulle sue emozioni e il suo stato d’animo la produzione creativa?

Tonino Scala: Io sono una persona che vive tranquilla, con la mia famiglia, ho una moglie, due figli fantastici, è tutto bello. Ho vissuto una gioventù fantastica in Sicilia, in un posto bellissimo sul mare. Quindi il mio stato d’animo è tranquillo e pulito e questo secondo me è fondamentale per fare musica. Quando scrivo musica lo faccio perché vivo delle sensazioni positive, anche quando può sembrare che scriva una canzone triste. La musica è l’espressione dell’animo, quindi scrivendo musica esprimo il mio stato d’animo. Io vivo dei momenti belli con la mia famiglia, con i miei amici e scrivo di conseguenza. L’animo è importante per esprimere la propria parte creativa.

Arianna: che incidenza ha, che conseguenza ha l’atto creativo sulla percezione di se stesso o dell’autore in genere?

Tonino Scala: Quando creo qualcosa che piace agli altri e che suscita in loro delle emozioni io sto bene. Vuol dire che ho creato un buon prodotto e ho fatto una bella cosa. Gli altri usufruiscono della mia musica e questo è un successo, mi fa stare bene. Se invece faccio qualcosa che agli altri non piace cerco di capire dove ho sbagliato e cerco di correggermi. Se faccio qualcosa che agli altri piace e fa stare bene loro allora sto bene anche io. Io ho fatto per tanti anni l’animatore nei villaggi turistici e la cosa fondamentale era divertirsi per fare divertire gli altri, perché se io mi diverto riesco a far divertire gli altri. Allo stesso tempo se faccio una bella canzone, che piace agli altri, io sto bene.

 

Asia: nel rapporto con gli altri la sua musica che cosa determina?

Tonino Scala: Mi permette di dialogare con gli altri, mi permette di confrontarmi. Quando faccio ascoltare una mia canzone agli altri, non mi importa che la ascoltino e basta, per me è importante che la ascoltino e che poi se ne parli insieme. Ieri, ad esempio, ero in studio a registrare e siamo stati più di quattro ore a discutere e confrontarci su una frase. È giusto che ci sia un confronto, perché altrimenti scriverei solo per me stesso. Invece secondo me il successo sta nel confrontarsi con gli altri sui propri prodotti.

 

Arianna: e quindi quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Tonino Scala: Il riconoscimento degli altri è importante. Ci sono stati dei periodi, quando ero più giovane, in cui scrivevo ma non facevo ascoltare le mie canzoni. Ancora oggi quando devo far ascoltare ad altri la mia musica ho una certa apprensione, ad esempio quando suono nei locali: le altre persone ascoltano la mia musica ma non mi conoscono davvero. Quindi per me è importante che gli altri ascoltino le mie canzoni, ma soprattutto che mi conoscano, che capiscano quello che penso, quello che sento, quello che vivo. Penso che se non conosci questi aspetti di me non puoi realmente apprezzare il brano che ho scritto. Tuttavia, in generale il fatto che gli altri ascoltano la mia musica e si emozionino per me è molto importante.

 

Asia: Chi sono i suoi principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Tonino Scala: Direi quelli che vengono nei locali in cui suono e gli amici. Quando confeziono un brano lo mando soprattutto ai miei amici per avere un giudizio prima ancora di inviarlo al pubblico che non conosco. Quindi i miei amici, coloro che mi conoscono e che sanno cosa faccio, sono i miei principali ascoltatori da cui voglio un’approvazione prima di pubblicare un brano. Allo stesso tempo suono anche nei locali, dove c’è gente che non mi conosce e a cui magari non interessa ascoltare la mia musica. Però se c’è anche solo una persona che mi sta ascoltando per me è importante; possono anche essere uno o due su mille, ma l’importante è che ci sia qualcuno che ascolti perché significa che sto comunicando qualcosa.

 

Arianna: quale immagine le viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Tonino Scala: Penso al mio cane che ho perso da due mesi, mi ispirano tanto le sue foto. Mi piace in generale guardare le foto e farmi ispirare dai ricordi, quindi un’immagine di una persona cara, di un amico… Ora l’immagine di Maki, il mio labrador bellissimo che non c’è più. L’immagine è importante.

Asia: pensa che possa esistere una relazione tra depressione e creatività?

Tonino Scala: La depressione è una brutta cosa, non penso che aiuti la creatività. Quando mi capitano momenti di depressione non ho la testa per creare, l’unico pensiero che ho è di stare bene. Non credo ci siano delle persone depresse che abbiano prodotto delle belle cose, la depressione per me non favorisce la creazione. Nei momenti depressivi una persona deve pensare a curarsi soltanto, non credo ci sia una relazione con la creatività. In questo periodo ho scritto “Si troverà una sera”, perché spero che si tornerà presto a condividere momenti tutti insieme; non ho scritto altro perché non ho voglia di pensare ad altro, ho desiderio di stare bene e per me stare bene significa tornare a lavorare.

Arianna: quando il suo brano può dirsi davvero concluso?

Tonino Scala: Quando lo cantano gli altri. Quando un prodotto arriva agli altri, lo cantano, lo usano per un documentario, quel prodotto è finito. Se invece lo tengo in casa mia è finito ma non concluso del tutto perché per poterlo definire tale devono usufruirne gli altri provando le emozioni che ho sentito io mentre lo scrivevo.

 

Asia: pensa che la creatività possa avere una funzione sociale, e se sì, quale?

Tonino Scala: La creatività deve avere una funzione sociale, tutti dovremmo avere la possibilità di esprimerci con creatività, soprattutto i giovani nelle scuole. La creatività è importante perché, come la musica che è lo specchio dell’animo, fa entrare in contatto con la propria essenza. La creatività aiuta a comunicare, per cui tutti dovremmo avere la possibilità di creare ed essere aiutati in questo. Ad esempio, nelle scuole la musica è importante perché aiuta a creare, unendo delle note si crea un brano. È importante aiutare tutti a crescere con della creatività.

 

Arianna: la creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Tonino Scala: È accessibile a tutti e deve essere allenata. Tutti abbiamo la possibilità di creare, anche quelli che creano delle cose brutte sono allenati per questo; in base agli allenamenti che si fanno si creano delle cose più o meno belle. Il Gruppo della Trasgressione si occupa di recuperare degli allenamenti giusti e di portare delle persone che hanno creato in passato delle cose sbagliate, per allenarsi a creare delle cose positive. L’allenamento è importante. È fondamentale aiutare tutti a creare degli allenamenti positivi.


Dentro ognuno di noi“, eseguita da Juri Aparo e da Tonino Scala (che ne è l’autore) e commentata da Roberto Cannavò al Festival dell’Arte Negletta del 2017.

Asia: la creatività può avere un ruolo utile a scuola e/o nelle attività di recupero del condannato?

Tonino Scala: Certo, la creatività è importante a scuola. Gli insegnanti devono aiutare i ragazzi a creare delle cose belle nella vita, non solamente ad assimilare le nozioni scolastiche; non serve imporre il proprio insegnamento, l’insegnante deve aiutare a far crescere l’alunno. La stessa cosa vale per il condannato, occorre aiutarlo a crescere, a cambiare stile di vita, a fargli capire che qualunque persona può creare qualcosa di buono. L’allenamento va fatto da piccoli, ambienti malsani producono allenamenti negativi, per cui in questi casi devono intervenire la scuola e la società.

Intervista ed elaborazione
di Arianna Picco e Asia Olivo

Tonino Scala Facebook –  Interviste sulla creatività

Adriano Avanzini

Adriano Avanzini – Intervista sulla creatività

Adriano Avanzini divide la sua produzione creativa in due ambiti differenti: il primo relativo al campo professionale, in particolare quello di art nel settore grafico-pubblicitario, che lo vede impegnato da 40 anni; il secondo comprende l’attività di cui si occupano coloro che solitamente vengono definiti “artisti”, i quali, secondo l’intervistato, rientrano nel mondo della creatività pura e semplice, non strettamente vincolato dalle regole rigide della vendita e del mercato. È all’interno di quest’ultimo campo che Adriano produce quadri e, più in generale, lavori creativi.

Nonostante realizzi in prima persona opere creative, Avanzini afferma di non potersi definire un artista vero e proprio. Questo perché, innanzitutto, non si mantiene economicamente grazie alle sue produzioni creative e non produce con costanza e continuità, a differenza di chi fa della propria arte una professione. In aggiunta, nonostante egli sia da sempre interessato all’arte e circondato da amici artisti, la sua realizzazione di opere creative inizia tardi. Le origini della sua produzione artistica risalgono a circa 15 anni fa quando, proprio grazie alla frequentazione con il Gruppo della Trasgressione, egli realizza i primi lavori, più simili a illustrazioni che a vere e proprie opere artistiche, prendendo spunto dalle canzoni di Fabrizio De André, molto apprezzate dal gruppo e spesso riprodotte durante i concerti della Trsg.Band.

La città vecchia – Adriano Avanzini

La città vecchia di Fabrizio De André, Trsg.band

In questo periodo Avanzini ha in cantiere alcuni progetti creativi con i quali si prefigge di esplorare nuove forme espressive e l’uso di nuovi materiali.

 

Arianna: che cos’è per te la creatività?

Adriano: direi che questo è un termine che si presta ad interpretazioni personali e diversificate a seconda di chi ne parla, con contenuti, preconcetti e significati tutt’altro che univoci.

La mia esperienza con la creatività mi permette comunque di affermare che esistono almeno due accezioni differenti di questa. Se si prende in considerazione l’attività creativa nell’ambito professionale, nel mio caso quello grafico-pubblicitario, la si deve considerare e analizzare come creatività fortemente finalizzata. Essa infatti ha un obiettivo preciso da raggiungere e ha come principale preoccupazione quella di essere facilmente comprensibile dal pubblico a cui è rivolta. Il suo linguaggio, immagini e parole, si deve adattare al linguaggio di che ne fruisce, pena la totale inefficacia, l’inutilità del prodotto creativo.

Quella che invece considero come creatività pura e semplice, segue un po’ il processo inverso: è il fruitore del prodotto creativo a doversi “adattare” al linguaggio dell’artista. Quest’ultimo, infatti, è detentore di una propria sintassi, un proprio idioma artistico. In aggiunta a ciò, essere immediatamente comprensibile non è la sua prima preoccupazione, anche se ovviamente, la comprensione del messaggio sotteso all’opera creativa è un desiderio dell’autore reale ed auspicabile. Il veicolo di tale comprensione, però, è e rimane il linguaggio espressivo creato dall’artista.

Natura morta – Adriano Avanzini

Quindi, nel caso di quella che chiamerei “creatività professionale”, il processo creativo segue linee guida e schemi precisi, predefiniti e comprensibili, procede sempre verso una forte e indispensabile razionalizzazione. Nel caso della creatività semplice e pura, al contrario, i contenuti del processo creativo possiedono la potente caratteristica di essere svincolati dalle regole convenzionali, sono più liberi e seguono, per così dire, una strada maggiormente diretta ed immediata per arrivare al fruitore. L’opera, anziché dire o descrivere, evoca.

Quelli che ho appena indicato sono due mondi creativi paralleli, simili per certi versi e molto differenti per altri. Pur nella loro diversità, però, pescano entrambe nelle stesse acque. Alle origini cioè, la creatività è pensabile come la capacità di trovare combinazioni e relazioni nuove tra le cose, in opposizione o nel tentativo di svincolarsi da collegamenti e abbinamenti già consolidati e/o dettati puramente dalla logica razionale.

La creatività è quell’attività psichica, e successivamente concreta, che rompe le regole della convenzione, ed è in questo senso che spesso può risultare trasgressiva. Arrivati a questo punto però, è dovere precisare che la trasgressione di per sé non è necessariamente creativa. Rompere le regole tanto per romperle, o tanto per sfidare una qualche forma di autorità, non porta a nessun tipo di risultato proficuo, tantomeno creativo. Piuttosto si può affermare che gli ostacoli e i limiti possono essere utilizzati come carburante per la realizzazione dell’atto creativo. In questo senso, la creatività è un alleato potente, che può aiutare a trovare soluzioni nuove, originali, a far fruttare gli errori, le difficoltà, a non avere paura di sbagliare ed a considerare materia creativa le proprie fragilità ed imperfezioni.

Don Chisciotte e Sancho Panza – Adriano Avanzini

Un ulteriore aspetto che trovo importante e che, apparentemente, potrebbe sembrare in contraddizione con quello che ho appena detto è che la creatività, per quanto concerne la mia esperienza, non è da pensare come un terreno stabile, sicuro, dove ci si possa facilmente orientare. Non esiste una bussola che indichi quale sia la strada giusta da seguire. Anche se con il passare degli anni ho imparato a percepire questo terreno come famigliare, accogliente e fertile, rimane comunque uno spazio in cui ci si muove con incertezza, un contesto che richiede di essere fortemente duttili e mentalmente aperti. Quest’ultimo aspetto, credo sia il carattere più importante della creatività.

 

Elisabetta: quali sono i principali ingredienti del processo creativo?

Adriano: per quanto concerne la mia esperienza, l’ingrediente principale del processo creativo è la capacità, principalmente non razionale, intuitiva, di mettere in connessione feconda immagini, forme, parole e materiali che possono essere anche molto lontani fra loro, accostandoli ad “orecchio”, per così dire. E per quanto gli elementi alla base possano essere semplici, il prodotto finito risulta innovativo, originale. Tale processo creativo si basa sulla possibilità di lasciare che le cose accadano nella piena libertà di manifestarsi, senza spingere verso un fine ultimo predefinito. È questa per me la vera bellezza dell’atto creativo, ciò che fa sì che venga vissuto come appagante e liberatorio.

Un altro aspetto del processo creativo per me importante è il continuo tentativo di mettermi in gioco, di misurarmi senza sosta con i miei contenuti mentali e con i limiti della mia psiche. È un costante confronto con immagini di me stesso e con i miei limiti e condizionamenti.


Grattacieli a vento – Adriano Avanzini

Arianna: che cosa avvia, come si sviluppa la tua creatività e in quali condizioni?

Adriano: solitamente la mia creatività prende forma in maniera inaspettata ed imprevedibile, senza che io mi sia prefissato fin dall’inizio particolari risultati. È un cammino che si fa camminando, tanto per citare una delle celebri frasi del poeta spagnolo Antonio Machado, che penso descriva bene il processo creativo: mentre si comincia a fare, prende forma qualcosa che, mano a mano, si precisa sempre più chiaramente.

Le condizioni che possono attivare la creatività sono molteplici. Esse sono legate a stimoli interni ed esterni. Prendono spunto proprio da quegli accostamenti e associazioni di immagini, idee e concetti di cui parlavo prima, che possono anche non essere molto congruenti tra di loro, e senza particolari legami con le situazioni psicologiche o ambientali che mi circondano in quel preciso momento.

A volte capita che, la creatività che apparentemente si sviluppa a partire da questi stimoli, sia il risultato di un processo lento, mentre a volte può, al contrario, prendere forma da un’intuizione istantanea, la quale non saprei spiegare in maniera limpida da dove nasca, ma percepisco che deriva da un intenso lavorio interiore.

Silenzio – Adriano Avanzini

Elisabetta: che conseguenze ha sulle tue emozioni e sul tuo stato d’animo la produzione creativa?

Adriano: generalmente la mia produzione creativa mi fa sentire bene. Mi diverte associare e mettere insieme forme, colori, materiali, in quanto questo fermento creativo ha il potere di stimolare le parti migliori di me. Inoltre, il piacere estetico che deriva dal prodotto creativo finale, mi fa sentire appagato e soddisfatto. Vivo la creatività come una grande risorsa che è lì, dentro di me, disponibile e percepibile, una specie di alleato fantasioso, imprevedibile e rassicurante allo stesso tempo.

 

Arianna: che incidenza ha l’atto creativo sulla percezione di te stesso o dell’autore in genere?

Adriano: sapere di essere in grado di creare un oggetto capace di comunicare, indipendentemente da quale tipo di prodotto si tratti, un quadro, una poesia, una scultura, dà l’idea di avere qualcosa di prezioso che ti appartiene. È come sapere di avere una sorta di potere speciale che puoi mettere in gioco in ogni momento.

Sicuramente l’atto creativo è un ingrediente importante che contribuisce a creare autostima e fiducia in sé. In fondo la creatività non è altro che un gesto di cura verso sé stessi. Durante l’atto creativo è come se si stabilisse una relazione e una linea diretta con i luoghi più profondi di sé. Il prodotto creativo finito, il quadro, la poesia o la canzone che sia, è uno specchio che restituisce all’autore un suo stesso riflesso e il creatore, pur rivedendosi in tutte le sue imperfezioni, non può che volergli bene.

 

Elisabetta: nel rapporto con gli altri il tuo atto creativo cosa determina?

Adriano: Il prodotto creativo è una chiave di accesso a parti di sé importanti, intime, più o meno profonde. Nella relazione con gli altri mette in gioco molte cose, tra cui la disponibilità a lasciar cadere barriere psicologiche, ideologiche, culturali. Nell’atto creativo sono presenti anche nodi del nostro equilibrio, aspetti della nostra intimità molto fragili e vulnerabili, anzi, per molti aspetti, questa è la parte più importante dell’opera e condividerla con gli altri espone l’autore a sguardi e giudizi a volte gratificanti, altre volte frustranti, altre volte ancora capaci di dare  avvio a crisi costruttive che inducono l’autore a esplorare nuove vie. C’è bisogno quindi di cura reciproca; se c’è questo processo, possono nascere nella relazione piani di comunicazione, più fecondi, più appaganti.


Grattacieli a vento 2 – Adriano Avanzini

Arianna: Quanto è importante il riconoscimento degli altri per il prodotto creativo?

Adriano: Il prodotto creativo non viene fatto solo per sé stessi, qualunque cosa si faccia viene inevitabilmente a far parte del mondo e quindi della relazione con gli altri. Il riconoscimento o non riconoscimento esterno incide molto. Qui si presenta una grande opportunità da cogliere: essendo una forma di comunicazione non convenzionale e connessa con l’interiorità dell’autore, il linguaggio creativo offre l’opportunità di interagire su un piano più diretto. Se si riesce a stabilire una comunicazione su questo livello, il riconoscimento reciproco risulta più immediato e gratificante, oltre che più ricco. Lo strumento creativo può contribuire a costruire relazioni produttive, coinvolgenti, socialmente utili, fertili.

 

Elisabetta: Chi sono i principali fruitori del prodotto creativo e come ne traggono giovamento?

Adriano: Quello creativo è un linguaggio universale. Chiunque, volendo, lo può comprendere, fruirne; per giovarsene basta lasciare aperte porte e finestre della testa, essere disponibili a mettere in discussione le proprie certezze, recuperando una certa freschezza dell’osservare, cercando di guardare ciò che si ha davanti da un punto di vista il meno soggettivo possibile, almeno in un primo momento. Il processo che viene messo in moto in modo automatico di gradire o sgradire, interpretare etichettando, complica e può compromettere la percezione di ciò che si ha davanti agli occhi. Se c’è disponibilità e apertura, si può trarre giovamento dallo scambio reciproco a partire proprio dal prodotto creativo.

 

Arianna: Quale immagine ti viene in mente che possa ben rappresentare l’atto creativo?

Adriano: Non c’è un’immagine particolare, forse perché una specifica immagine rischierebbe di ridurne la portata e il significato, circoscrivendoli a qualcosa di troppo riconoscibile per poter rappresentare la creatività, che per sua natura sfugge a descrizioni e definizioni. Quella che però potrebbe venirmi in mente in questo momento è l’immagine della fucina, anche perché rimanda a molti miei lavori in cui dare forma alle cose con il fuoco ha una parte importante. La fucina come luogo in cui la materia grezza viene modellata con le mani e si trasforma in cose nuove e inaspettate.

Ferro – Adriano Avanzini

Elisabetta: Pensi esista una relazione tra depressione e creatività?

Adriano: Io credo di sì. Se lo stato depressivo è quello che compromette fortemente la fiducia in sé oscurando tutto, allora non si può vedere nulla all’orizzonte, tantomeno la possibilità di creare qualcosa. Se però mi baso sulla mia esperienza della dimensione depressiva allora sì, perché la depressione per certi versi potrebbe favorire la creatività. Dopo tutto lo stato depressivo è una modalità del sentire, e dato che è differente da quello normale, può essere una fonte di stimoli creativi fecondi e nuovi.

 

Arianna: Quando un prodotto creativo è per te davvero concluso?

Adriano: Quando lo tiro fuori dal forno – quello della fucina – e vedo che ha fatto quella bella crosticina in superficie, ed è lievitato al punto giusto da farmi venire voglia da farlo assaggiare anche agli amici e agli altri, che poi magari se lo gustano pure. Fuor di metafora, il prodotto creativo deve rispondere alle mie aspettative, al mio intento di comunicare od evocare qualcosa, un’emozione, un sentimento, o anche semplicemente suscitare il piacere del puro godimento estetico.

 

Elisabetta: La creatività è un dono naturale privilegio di pochi o si tratta di una competenza accessibile a tutti e che può essere allenata?

Adriano: Si può avere un talento particolare, ma la creatività non è pensabile come privilegio di un’élite. È sicuramente accessibile a chiunque, siamo potenzialmente tutti creativi, i bambini lo sono spontaneamente, è sempre presente nel gioco, e la creatività è anche un gioco. È una qualità accessibile che ha bisogno di essere coltivata e fatta crescere. Può essere che per fattori strettamente soggettivi, che fanno parte della storia personale di ognuno, questa qualità sia particolarmente attiva già nell’infanzia, e che poi venga continuamente stimolata ed allenata nel tempo. Personalmente mi ha sempre accompagnato sin da piccolo, ma non è detto che non la si possa far fiorire negli anni, basta volere prendersene cura, coltivarla e affinarla. Ciascuno di noi, del resto, nel momento in cui riesce a combinare insieme parole, colori, forme, che comunicano con forza e originalità un’emozione, produce un atto creativo.

Luci e ombre – Adriano Avanzini

Arianna: Pensi che la creatività possa avere una funzione sociale e, se sì, quale?

Adriano: La creatività, intesa come quello specifico prodotto artistico di cui abbiamo parlato sin qui, ha sempre avuto una funzione sociale. Se pensiamo alla storia dell’arte e ai grandi artisti, si può dire che la creatività ha contribuito a modificare la nostra percezione del mondo. Anche oggi certe forme artistiche, certi artisti, concepiscono e producono arte in questa funzione. Ma, più concretamente, credo che la funzione sociale a cui ci sta riferendo sia quella calata nel concreto della realtà a noi più vicina, ad esempio quella del Gruppo della Trasgressione.

Qui la creatività può essere uno strumento potentissimo che può avere una grande funzione nella prevenzione, inclusione, crescita. Soprattutto pensando ai giovani più problematici ma anche ai detenuti. Perché la creatività è una specie di fucina che ci portiamo dentro: attivare la fucina significa attivare le parti più costruttive, l’autostima, la fiducia in sé; è un mezzo potente per educare a prendersi cura di sé e degli altri, combinando insieme le diverse parti che ci appartengono: tonalità emotive forti e fragili, luci, ombre, cose nobili e meno nobili.

Citazione – Adriano Avanzini

Aspetti come aggressività, imperfezioni, incertezze, debolezze possono diventare veramente la materia prima su cui lavorare, una materia che, messa in relazione con gli altri, può dare facilmente adito a rielaborazioni, trasformazioni e nuove creazioni che favoriscono il riconoscimento reciproco. Credo che la creatività, se bene accudita, possa costituire uno strumento per l’inclusione sociale, per la valorizzazione delle differenze, di età, cultura, identità; in generale, un modo per crescere nella diversità.

Intervista ed elaborazione di 
Arianna Picco ed Elisabetta Vanzini

La galleria di Adriano Avanzini  –  Interviste sulla creatività