Protagonista è la famiglia

Dimitrij, tra i quattro fratelli Karamazov, è quello che più fatica a trovare un minimo di stabilità, vivendo costantemente in balia delle proprie emozioni che non riesce a dominare. Egli, a differenza dei suoi fratelli, non riesce a trovare un punto di equilibrio:  Alëša ha trovato pace nella fede lasciandosi guidare dal proprio padre spirituale del quale si fida cecamente; Ivan si rifugia nella ragione, negando l’esistenza di un Dio che non trova ed incolpa; Smerdjakov, taciturno ed ostile verso gli altri, dedica la propria esistenza a servire il padre.

Dimitrij, invece, è inquieto, prova collera verso il padre, sentimento che emerge tanto chiaramente da portare il lettore a credere che sarà lui il parricida nel romanzo. Il credito che Dimitrij ritiene di vantare nei confronti della figura paterna è un peso troppo grande ch’egli fatica a gestire, vivendo una vita superficiale, frivola e che lo rende quanto mai simile al padre tanto disprezzato.

Sinteticamente, sono queste le ragioni per le quali alla domanda “chi è il protagonista dei fratelli Karamazov” ho risposto, di getto, Dimitrij. Ad una riflessione più ponderata, però, sono giunta a ritenere che in realtà tutti e quattro i fratelli sono i protagonisti del romanzo. O forse, ancora meglio, è l’intera famiglia Karamazov ad essere protagonista: lo stesso Fëdor – senza il quale la famiglia Karamazov non esisterebbe così come non esisterebbero i complessi e sfaccettati rapporti tra il padre e i quattro figli – insieme a Dimitrij, Alëša, Ivan e Smerdjakov, sono coessenziali al romanzo, ognuno con i propri tratti caratteriali e con le proprie fragilità.

Approfitto dell’occasione per condividere con il gruppo l’obbiettivo della mia ricerca, così sintetizzabile: imparare ascoltando l’altro e mettendosi in discussione. Ognuno di noi porta con sé le proprie esperienze, le proprie convinzioni, la propria sensibilità… in sintesi, il proprio vissuto.  Tutti noi dobbiamo esserne consapevoli nel momento in cui prendiamo posto nel teatro del carcere di Bollate in occasione dei nostri incontri settimanali e ci mettiamo all’ascolto.

“Bisogna aver visto”, è il j’accuse di Piero Calamandrei in uno dei suoi primi interventi parlamentari del 1948. Richiamando le sue parole, io aggiungo che oltre ad avere visto, occorre avere ascoltato e compreso, tenendo viva la luce della ragione e della solidarietà umana e rammentando che prima di essere detenuti, vittime, studenti, avvocati, magistrati… siamo tutti uomini che condividono la stessa dignità.

Margherita Viglione

I Conflitti della famiglia Karamazov

Qualcosa capisco, dove non capisco…

Alla domanda “qual è l’obiettivo che io mi pongo in questa ricerca”, dopo alcuni giorni di riflessione per cercare di trovare il mio vero motivo, scavando più a fondo, ho capito di voler provare a guardare oltre le sbarre, di ferro, del cuore e della mente, per scoprire cosa c’è dietro, ma soprattutto cosa c’è dentro.

Ho sempre amato andare oltre le apparenze e l’immagine, cercando di non cogliere solo il bianco o il nero, il bene o il male, il giusto o lo sbagliato, ma provando a lasciarmi stupire da tutte le sfumature che stanno nel mezzo e che sono il collegamento tra estremità di qualsiasi genere, il ponte che unisce, superando un concetto di dualità.

Ci sono alcuni punti che più di altri mi hanno colpito e che mi sono rimasti dentro. E forse questo è un altro dei motivi per cui ho scelto di essere qui: assorbire il più possibile, come una spugna, non soltanto ciò che viene detto, ma soprattutto ciò che viene trasmesso da sguardi, gesti, sorrisi, pianti e tutto ciò che le parole non sempre possono esprimere.

Il primo riferimento che vorrei fare è alla speranza, che dal mio punto di vista è strettamente connessa alla forza e al coraggio. Questa capacità è ciò che permette di andare avanti, lottare e vedere con gli occhi del cuore e della mente qualcosa che ancora non c’è. È crederci prima di chiunque altro o al di là di chiunque altro e avere fede, in se stessi, negli altri, nella vita.

L’ho ritrovata nella lettera di Stefano indirizzata a se stesso, così come ho percepito un grande impegno nel cercare di perdonarsi e di perdonare.
Anche nel caso del perdono penso che tutto parta dalla propria persona, dal fatto di riuscire a perdonarsi prima di poter perdonare qualcun altro. Mi chiedo infatti come sarebbe possibile riuscire a perdonare qualcuno senza essere prima riusciti a perdonare se stessi e se ci siano casi in cui questo sia invece accaduto.

Il secondo riferimento riguarda l’empatia. Tra le varie domande ci è stato chiesto quali, secondo noi, potrebbero essere degli strumenti utili ed efficaci per mettere in atto una vera e propria trasformazione. La mia risposta a questa domanda ha a che fare con programmi di educazione/rieducazione emotiva, all’empatia, alla comprensione degli stati d’animo altrui. Mostrare in modo concreto quali possono essere le conseguenze delle proprie azioni, cercando di vestire i panni di chi si ha di fronte, sia concretamente (laddove possibile) sia usando il grande potere che hanno gli esercizi immaginativi.

Penso che anche empatizzare sia qualcosa che si possa imparare a fare, con l’aiuto di una guida, tanta pratica e una corretta psicoeducazione sull’argomento. Il tutto affiancato a programmi di regolazione delle emozioni, per imparare a gestirle ed esprimerle nel modo più adatto ed efficace a sé, ma senza ledere qualcun altro.

Ci sono infine due frasi che mi piacerebbe condividere e che mi è capitato di sentire nel corso degli anni, dal momento che sono state di grande aiuto per me nei momenti di difficoltà. La prima è questa: “Pensa ai tuoi genitori e a come avresti voluto che fossero stati con te, come avresti voluto che si fossero comportarti con te, le parole che avresti voluto sentirti dire, i gesti che avresti voluto ricevere e poi diventa quel genitore. Prima per te stesso e, dopo, per tutti gli altri”.

La seconda, invece, è questa: “Qualcosa capisco. Dove non capisco, arrivo con l’amore”.

Ognuno può scegliere di usarle e adattarle a sé, di interpretarle come meglio crede e di lasciarsi trasportare dal loro significato in totale libertà. Sono doni che mi sono stati fatti e che oggi vorrei donare a voi.

Ruben Corbellini

I Conflitti della famiglia Karamazov

I Violini del mare contro l’indifferenza

Concerto Trsg.Band – 18/11/2023
Teatro della casa di reclusione di Milano-Opera

Come un’onda che risveglia le coscienze

Dal carcere di Milano-Opera e poi in giro per l’Italia, una serie di concerti che partono dalle parole di Don Luigi Ciotti (l’indifferenza nei confronti del male lo alimenta) e che, attraverso le canzoni di Fabrizio De André e gli interventi dei detenuti del Gruppo della Trasgressione, danno voce alla fragilità negata e all’importanza di riconoscerla come tratto che accomuna tutti gli uomini.

Le canzoni di Fabrizio De André vengono eseguite con gli arrangiamenti della Trsg.band e con alcuni degli strumenti ad arco che la liuteria de La Casa dello Spirito e delle Arti ha ricavato dal legno dei barconi dei migranti.

Ingresso gratuito; prenotazione obbligatoria entro il 10/11/2023.
Per prenotarsi, inviare fotocopia del proprio documento di identità a coord.liberamilano@gmail.com e ad associazione@trasgressione.net

I minorenni possono entrare solo se accompagnati da uno dei genitori o autorizzati  con una dichiarazione firmata da uno dei due.

Presentarsi all’ingresso del carcere di Opera alle 18:45. Per sveltire le operazioni di ingresso è meglio non avere con sé cellulari e oggetti elettronici.

Nei giorni immediatamente precedenti il concerto verrà pubblicata su questa stessa pagina la lista delle persone autorizzate.

Perché “aprire le porte” al carcere

di Francesca Radaelli

Vale ancora la “pena”? Al di là del gioco di parole, c’è tutto il problema del senso della giustizia penale nella domanda con cui si è aperta la serata organizzata dall’associazione “Carcere Aperto” lo scorso 13 ottobre al Binario 7 di Monza. Pensato per la cittadinanza, l’evento – che ha visto tra gli organizzatori anche le Acli di Monza e di Vimercate, in collaborazione con il ‘Gruppo della Trasgressione’ e con il patrocinio del Comune, ha registrato una grandissima partecipazione di pubblico, a dimostrazione dell’interesse dei monzesi per quello che è stato definito nel corso della serata “uno dei quartieri” della loro città: la Casa Circondariale di via San Quirico.

Il pubblico

A confrontarsi e dialogare sul palco in merito alla possibilità e ai modi per ricucire lo “strappo” che ogni reato causa all’interno della società sono stati Felice De Chiara, comandante dirigente della polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Monza, Fabrizio Annaro, giornalista del Dialogo di Monza, Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela, vittima di strage di mafia, Adriano Sannino e Antonio Tango, ex detenuti.

La discussione, condotta da Angelo Aparo, psicoterapeuta e fondatore del Gruppo della Trasgressione, e da Francesco Cajani, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, ha preso le mosse dalla proiezione di alcuni spezzoni del documentario intitolato proprio “Lo strappo” di cui lo stesso Cajani è stato co-autore.

Andreina Fumagalli, assessore alla partecipazione, politiche abitative, giovani e pari opportunità, introduce la serata

Il punto di vista delle istituzioni

In rappresentanza delle istituzioni, il comandante De Chiara si sofferma su quella che deve essere la missione di ogni operatore carcerario: “restituire alla città persone migliori”. De Chiara ha spiegato che la durata media della permanenza in carcere è di un paio di anni e che quando i detenuti escono tornano a frequentare la città e la società. “Per questo in carcere è necessario promuovere la cultura della legalità, del rispetto delle regole e dei propri doveri”.

Da sinistra: Angelo Aparo, Felice De Chiara, Fabrizio Annaro

Nel corso della serata vengono interpellati anche due altri rappresentanti delle istituzioni presenti in platea: Massimo Parisi, ex direttore del carcere di Monza e attualmente direttore generale del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a livello nazionale, e il sindaco di Monza Paolo Pilotto.

“Al di là della retorica della “rieducazione”, l’aspetto decisivo è l’intervento sulle persone: per noi è cruciale avere il personale educativo che sia in grado di attivare un percorso di cambiamento nei detenuti”, ha sottolineato Massimo Parisi.

Alla domanda su cosa chiedano i cittadini alle istituzioni carcerarie, Parisi risponde che da una parte l’istituzione deve essere “credibile”, anche agli occhi dei detenuti, ma dall’altra diventa però importante creare una cultura del carcere diversa e parlare di carcere con la cittadinanza. Per esempio attraverso progetti come il ristorante del carcere di Bollate, aperto a tutti i cittadini e voluto dallo stesso Parisi quando ne era direttore.

Da sinistra: Angelo Aparo, Paolo Pilotto, Massimo Parisi, Felice De Chiara, Fabrizio Annaro, Paolo Setti Carraro

“Come sindaco e come cittadino io mi aspetto dalle istituzioni carcerarie un avvicinamento, una riconciliazione”, risponde a sua volta il sindaco Paolo Pilotto. “Però nella mia esperienza di tutti i giorni l’attesa maggiore che i cittadini hanno verso il carcere è quella di una separazione netta”. La sfida, anche per le istituzioni, è quella di scardinare i luoghi comuni: “L’obiettivo a cui lavorare dev’essere quello della convergenza e dell’incontro, che può essere favorito anche dalle relazioni tra istituzioni”.

Il punto di vista dei giornalisti

Spesso, di fronte a un reato, il giornalismo si limita al racconto del fatto di cronaca nei suoi particolari più terribili. “E’ importante, però, raccontare anche ciò che avviene dopo”, sottolinea Fabrizio Annaro, parlando del docufilm girato qualche anno fa all’interno della casa circondariale di Monza. “Il titolo che abbiamo scelto è “Tempo libero” perché proprio il tempo vuoto del carcere favorisce il pensiero. E proprio dalle realtà di fragilità come il carcere emergono pensieri critici e valori che possono essere un’ancora di salvezza per noi tutti nei momenti di crisi”. L’idea di raccontare la fragilità, e tutto il bello che da essa può scaturire, fa parte di un movimento che sta crescendo nel mondo dell’informazione, che lavora per un giornalismo che sia costruttivo e che dia spazio anche alle buone notizie.

Da sinistra: Angelo Aparo, Felice De Chiara, Fabrizio Annaro

Il punto di vista dei detenuti

A cosa serve la pena?” domanda provocatoriamente Angelo Aparo, per introdurre il punto di vista dei detenuti. “Secondo la nostra Costituzione serve a migliorarsi. La pena è quindi una condanna a migliorarsi”, conclude. Ma come si ottiene questo miglioramento? “Si ottiene”, risponde Aparo, “con la coscienza di sé e dell’altro e con la consapevolezza della propria fragilità, che permette di aumentare la consapevolezza del bisogno dell’altro”. Il problema, spiega lo psicoterapeuta, sono gli strumenti attraverso cui può procedere questo miglioramento. Nel documentario “Lo strappo” un detenuto racconta che per lui diventare adulto significava diventare forte al punto di picchiare suo padre. “Per chi commette reati non esiste nessuna autorità credibile”, spiega Aparo. “L’autorità è considerata come una maschera per coprire il desiderio di potere di singole persone. E se l’autorità non vale nulla, anche le regole dell’autorità non valgono nulla”.

Da sinistra: Antonio Tango, Adriano Sannino, Angelo Aparo, Felice De Chiara

La parola passa ai due ex detenuti, che sottolineano come l’incontro in carcere con il Gruppo della Trasgressione abbia messo in moto in loro un cambiamento. “Sono riuscito a sentire me stesso come una persona, a sentire la mia fragilità, a non sentirmi più una vittima dell’autorità ma un colpevole”, racconta Adriano Sannino. “Oggi sono libero ma mi sento colpevole di ciò che ho fatto. Io ho scontato 30 anni di carcere, ma chi perde un familiare vive un ergastolo a vita”.

Gli fa eco Antonio Tango: “Inizialmente ho deciso di frequentare il Gruppo solo per avere dei vantaggi rispetto alla pena che stavo scontando. Però le parole che sentivo erano come un sasso in un lago, si espandevano in tanti cerchi dentro di me. Cominciarono a martellarmi in testa. E alla fine, grazie a questi incontri, sono riuscito a guardare la debolezza dentro di me e, attraverso il dolore che provavo io sono riuscito a comprendere il dolore delle vittime. È stato così”, conclude, “che ho smesso di sentirmi defraudato dalla vita e dall’autorità che mi ha condotto in carcere. Ho capito che, nel corso della mia vita, la galera me l’ero costruita io stesso. Così ho cominciato a sentirmi libero, proprio quando in carcere”.

Il punto di vista della vittima

Lo strappo per il familiare della vittima di un reato consiste nel congelamento improvviso della propria esistenza. Lo spiega bene Paolo Setti Carraro: “Un dolore così forte rischia di condannarti a camminare nella vita con la testa rivolta all’indietro, ti sottrae energie emotive e psichiche, ti fa sentire come ingabbiato, prigioniero in una ragnatela”. Anche le vittime hanno bisogno di emanciparsi: “Questo cambiamento richiede tempo, ma un percorso di dialogo con gli autori di reato può portare a un cambiamento. Il dolore è ciò che ci unifica e da lì bisogna ripartire. Purtroppo però molti familiari di vittime vivono in un carcere psicologico costruito sull’odio e il risentimento”. Paolo Setti Carraro rimarca poi il concetto della sicurezza in relazione all’educazione del detenuto: “Se vogliamo vivere in maggiore sicurezza bisogna che il carcere restituisca alla società dei cittadini migliori”.

Da sinistra: Francesco Cajani, Antonio Tango, Adriano Sannino, Angelo Aparo, Felice De Chiara, Fabrizio Annaro, Paolo Setti Carraro

Adriano e Antonio, i due ex detenuti, oggi hanno un lavoro che ha dato loro un posto nella società: il primo lavora in una cooperativa, l’altro come “tuttofare” in una scuola brianzola. Ma, chiedono dal pubblico, come si fa a credere nella rieducazione di fronte alla reiterazione di un reato?

Angelo Aparo a questo proposito precisa che spesso in carcere non si tratta di ri-educare la persona ma di “inventarla” da zero, soprattutto nei casi in cui la storia personale, educativa e familiare in cui il detenuto è cresciuto non gli ha permesso di avere gli strumenti per comprendere i suoi errori. Questo passa attraverso incontri e dialoghi con persone capaci di ascoltare e guidare verso percorsi di cambiamento vero: “La creatività dovrebbe avere maggior spazio in carcere. Non esiste la rieducazione, ma il nutrire in queste persone la fiducia che si possa credere in qualcuno che si spende per te!”

Da sinistra: Francesco Cajani, Antonio Tango, Paolo Pilotto, Massimo Parisi, Felice De Chiara, Fabrizio Annaro, Paolo Setti Carraro

Al termine di una serata ricchissima di riflessioni ed emozioni, ciò che rimane è un “senso” di complessità. Per far cambiare le persone che commettono reati e spingerle a seguire le regole della legalità non bastano le pene più dure. Dall’altra parte, la punizione dei colpevoli non “risolve” la sofferenza delle vittime.

Nella complessità dello “strappo” causato da ogni crimine, l’unica via percorribile sembra essere proprio quella più difficile, quella lunga e tortuosa del dialogo con l’altro, della riflessione su sé stessi e del tentativo di comprendersi. Una strada che passa attraverso il dolore delle vittime e quello dei colpevoli, attraverso il riconoscersi fragili, attraverso il riconoscere la fragilità dell’altro.

E, per avvicinarsi gli uni agli altri, occorre per prima cosa aprire le porte, anche quelle del carcere, e provare ad entrare. Non può che essere questo il primo passo per provare a ricucire lo “strappo”.

Per il documentario www.lostrappo.net

 

Noi, tra il rogo che brucia e la danza che ci chiama

And the Court will rise
while the pillars all fall

[Peter Gabriel, The Court]

 

Racconta Peter Gabriel che inizialmente, alla ricerca di una immagine artistica da abbinare al lancio della sua nuova canzone “The Court”, quello che lo attrasse in quell’ intenso bruciore fu la sensazione di un qualcosa che restituisse visivamente “the result of the jugdment” (“l’esito della sentenza”).

Solo dopo scoprì ciò che si celava dietro questo scatto fotografico: un frammento dell’ennesima straordinaria visione artistica dello scultore inglese Tim Shaw, creata in risposta a quanto accaduto all’interno della Royal Academy of Arts all’inizio del 2022. E precisamente in risposta alla lettera di dimissioni inviata dagli artisti Gilbert e George, avente il seguente tenore: “Con la presente restituiamo le nostre medaglie e i nostri certificati … Malediciamo la Royal Academy e tutti i suoi membri”.

Ecco dunque il commento dello stesso Tim Shaw:Che si tratti di parole irriverenti o di energia tossica mirata, è una cosa seria maledire qualcuno. Essendo uno dei maledetti, sento l’obbligo di affrontare questo atto con una risposta vigorosa”. E così quel fuoco assume in realtà un significato diverso da una esecuzione, costituendo invece un passaggio necessario in un processo che dà il titolo alla sua installazione artistica: “togliere la maledizione”.

Questo si realizza attraverso un vero e proprio rituale collettivo ideato dall’Artista, originatosi già prima dell’accensione del rogo e confluito – dopo che le fiamme si spensero – in una processione danzante che sfilò verso il fiume alla luce delle torce: “una foschia fumosa si mescolava all’inebriante odore di campanule e aglio, mentre le ceneri venivano gettate cerimoniosamente nell’aria, nell’acqua e nella terra”.

 

Sono rimasto anche io estremamente colpito da tale cerimonia e da questo aneddoto che non conoscevo, pur avendo già apprezzato in passato lo scultore in altre sue famose opere, fortemente influenzate dalle sue origini irlandesi. Testimone diretto – all’età di 8 anni – dell’esplosione di una bomba al piano inferiore di un ristorante di Belfast dove si trovava con sua mamma (durante le tensioni dei primi anni ’70 a me solamente note grazie ad una delle prime canzoni degli U2 che ho amato), Tim Shaw è stato capace di restituire forma artistica anche alla “alternative justice” denunciando quella espressione di umiliazione pubblica, utilizzata nell’Irlanda del Nord nel medesimo periodo storico ma anche in epoca più recente, tramite l’uso di catrame e piume cosparsi su corpi di donne e uomini presi a bersaglio.

Tutto questo mi ha fatto ritornare alla mente un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”, quando il Giudice Marco Maiga con una mirabile sintesi afferma:

Lo scopo del processo non è quello di risarcire la vittima, di assicurare un colpevole alla vittima. Lo scopo del processo è quello di esercitare la cosiddetta pretesa punitiva dello Stato, cioè la pretesa di sanzionare, l’esigenza di sanzionare quelli che hanno violato le regole della comunità.  Il processo va avanti anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata se è ritenuta responsabile anche se la vittima non vuole”.

Ne discende una domanda, apparentemente innocua: e dunque, se la pretesa punitiva non è appannaggio del singolo individuo ma deve essere esercitata (solamente) dallo Stato, che ne è invece della cosiddetta “esecuzione della pena”?

In altre parole: possiamo dunque tutti noi, quali componenti della società civile, ritenerci ugualmente esonerati dal fornire alcun contributo nella fase che necessariamente segue alla comminazione della condanna?

Le traiettorie di questi ultimi 6 anni, che hanno portato alcune vittime dei reati della criminalità organizzata all’incontro con le persone detenute del Gruppo della Trasgressione, forse potrebbe suggerire una risposta di senso. E riportarci tutti a quell’immagine del rogo che, con gli occhiali che ci ha regalato l’Artista, può assumere un significato ben diverso da quello tradizionale di dannazione eterna.

Per farmi meglio intendere ho bisogno qui, necessariamente, di chiedere aiuto a quella “capacità collettiva di costruire orizzonti sociali di speranza e di affermazione” alla quale questa estate la filosofa Rosi Braidotti ci ha nuovamente richiamati (dopo averne diffusamente trattato nel suo libro “Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte) attraverso le pagine del Corriere della Sera:

L’affermazione non è il rifiuto del dolore, ma una maniera consapevole e propositiva di trasformarlo in materia vivente e creativa. L’affermazione è gioia, qualità ontologica, derivata dalla capacità condivisa da tutti noi, di attivare una memoria incarnata, cioè legata all’esperienza vissuta, anche quella del dolore. Attivarla per meglio esprimere il nostro nucleo vitale, che altro non è che il desiderio fondamentale di continuare a esistere attraverso le relazioni”.

Ai miei occhi quindi l’etica affermativa sembra imporre ineludibilmente, a ciascuno di noi, di essere parte attiva in quello che, nei termini giuridici, viene definito il percorso trattamentale del condannato detenuto. Per cercare di dare un contributo nel trasformare il dolore, che necessariamente il reato commesso ha causato non solo alle vittime dirette ma all’intero tessuto sociale, in qualcosa di diverso: qualcosa che assuma sempre più i caratteri ontologici di una riparazione.

E in questo l’esperienza del Gruppo della Trasgressione – tramite il lavoro sulle coscienze delle persone detenute che in esso si riconoscono – si identifica proprio in quel lento procedere, verso il fiume della trasformazione (il famoso πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός di Eraclito).  Un movimento collettivo che potrebbe ben essere appena uscito dal famoso quadro di Matisse:

In una danza che anche l’intelligenza artificiale, nel videoclip di “The Court” capace di trarre ispirazione (e trasformazione) dal linguaggio scultoreo di Tim Shaw e dalla lirica di Peter Gabriel, ripropone in un frame ugualmente efficace:

Accompagnando per mano vittime e rei, la sfida che attende ciascuno di noi è dunque quella di contribuire ai percorsi riparativi dello strappo che il reato ha causato: perché, parafrasando il Poeta (Baudelaire), solo la danza può rivelare tutto il mistero che la vita tiene nascosto.

Monza – Teatro Binario7, 13.10.23

 

GIUSTIZIA E CARCERE

Indifferenza e metamorfosi

Il giorno 13 giugno, presso il teatro del carcere di Opera di Milano, il gruppo della Trasgressione con la collaborazione della direzione del carcere, della Fondazione Casa delle Arti e dello Spirito, dell’associazione Libera, della Fondazione Fabrizio De André e del progetto “Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine” ha tenuto un incontro intitolato “I violini del mare contro l’indifferenza“.

Due sono i concetti che hanno tracciato il filo rosso dell’intera serata: l’indifferenza e la metamorfosi.

L’indifferenza è neutralità, ostentata assenza di partecipazione ed interesse. L’indifferenza è oggi tra gli atteggiamenti preferiti della maggior parte dei consociati, soprattutto nei confronti del male. E così come c’è stata e ancora oggi persiste indifferenza verso migliaia di vittime dei naufragi, verso coloro che hanno perso la vita, ma non la speranza; così anche c’è e continua ad esserci indifferenza nei confronti del carcere, più precisamente, nei confronti dei ristretti, che lo popolano.

Proprio come i migranti, non hanno avuto la possibilità di scegliere dove nascere, così anche, molti detenuti hanno scelto la strada della criminalità, non avendo avuto la possibilità di sviluppare un pensiero e strategie d’azione diverse da quelle che purtroppo hanno tenuto. Eppure, dalle ceneri è sempre possibile risorgere. Anche i fatti irreversibili, come la morte, sia essa derivata da un naufragio o da un assassinio, possono conoscere sviluppi positivi.

Il maestro liutaio Enrico Allorto ci ha infatti insegnato che a volte “l’impossibile è possibile”. Nessuno credeva nella possibilità di recuperare il vecchio e inzuppato legno dei barconi, eppure, grazie alla speranza e dedizione di chi ci ha creduto, la stessa è stata lavorata e trasformata in strumenti musicali.

Questi strumenti oggi, non sono più mezzo di distruzione, ma di creazione. Creazione di unità e sintonia tra tutti coloro, che ascoltano i suoni emessi dal delicato tocco di chi li sa suonare.

In molti negano la possibilità di un cambiamento da parte dell’essere umano: “un uomo che ha ucciso, non potrà mai essere una persona normale”. E invece “l’impossibile è possibile”. Numerose sono le testimonianze di ex criminali, tra cui assassini e affiliati ad organizzazioni criminali a dimostrare che il cambiamento non è un’utopia, bensì realtà. Sono sufficienti gli stimoli, i luoghi, le parole e gli incontri con le persone giuste, affinché tutto ciò si realizzi.

L’obiettivo è quello di demistificare le narrazioni diffuse sulla realtà carceraria, narrazioni che provengono da parte degli indifferenti, da parte di chi il piede in carcere probabilmente non lo ha mai messo, lo sguardo verso un detenuto non l’ha mai rivolto, privandosi così della possibilità di scorgere dietro a quel “mostro”, un essere umano che ha sbagliato. Un essere umano che ha scelto il male, ma che è ancora in grado di scegliere il bene.

A tal proposito, è doveroso acquisire la consapevolezza che non esistono persone crudeli in assoluto, bensì persone che sbagliano, e che in quanto tali, non sono uno scarto da buttar via. In quest’ottica il carcere potrà essere l’occasione, che la vita non è stata in grado di dare a queste persone: una seconda possibilità, in cui attraverso lo studio, il dialogo e l’apprendimento di una professione nuova possono crearsi il loro spazio nel mondo.

Il carcere non deve mai rappresentare un parcheggio in cui attendere inermi, la soluzione privilegiata per eliminare dalla società il disagio, che non si vuole vedere e nemmeno risolvere.

Ecco, “i violini del mare contro l’indifferenza”, costituisce uno dei tanti progetti, che si inserisce in un percorso più ampio, necessario ad attuare un grande cambiamento, che richiede uno sforzo da parte dell’intera collettività, la quale non può rimanere neutrale, non può rimanere indifferente. Questo grande cambiamento, a cui si ambisce, potrà dirsi pienamente raggiunto, soltanto quando ciascun cittadino prenderà veramente consapevolezza di ciò che vuol dire vivere in un Paese democratico e si impegnerà nel diffondere e promuovere i valori su cui la democrazia si fonda, senza lasciare ai margini nessuno.

Per concludere con le parole del protagonista virtuale (Fabrizio de André) del progetto, bisognerebbe farsi “carico di interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello”. E’ questa la missione di ciascun uomo che non vuole essere indifferente.

Giulia Varisco

  • Lucilla Andreucci
Da Andrea Spinelli

I violini del mare contro l’indifferenza

Esercizi di emancipazione reciproca tra persone ristrette

Chi ha avuto occasione di partecipare a qualche riunione del gruppo della Trasgressione (Trasgressione.net), sa che ho deciso, un anno fa, di entrare in carcere ad Opera per essere più vicino ai detenuti, per dialogare non solo con coloro che avevano già raggiunto un livello di consapevolezza e ristoro della propria coscienza tale da godere di permessi e benefici, ma anche con coloro che per qualsivoglia motivo si trovano all’inizio del percorso ovvero nel mezzo del guado. Mi ero infatti detto che è più utile e stimolante mettere mani in pasta là dove c’è ancora materia da sbozzare, piuttosto che contribuire ad affinare contorni ormai definiti di un qualcosa che già presenta un solido aspetto.

Non a caso la scelta è stata quella di entrare in un mattino di luglio, quando la caldazza spingeva i più verso freschi lidi o valli di montagna, in quel periodo dell’anno in cui le vacanze si impongono a governare tempi, destinazioni e occupazioni del mondo esterno, mentre quello interno, segregato e abbandonato, può solo continuare a spuntare i giorni a venire e dotarsi di pazienza, maledicendo le ferie che impongono pause, smorzano gli entusiasmi, minano fragili abbozzi di certezze precarie, restringono ulteriormente gli spazi di libertà. Sentivo l’urgenza della continuità di una presenza vitale, che non merita e non vuole pause. E soprattutto non ne ha bisogno.

Mettere mano al magma è come lavorare con la sabbia sulla battigia, giocando con quello spirito infantile che mi è stato dapprima sottratto, e che più tardi mi sono negato, per apparire maturo e responsabile. Occorre farlo con mente sgombra dai pregiudizi che ti attendono al varco dietro ogni svolta, e con la voglia di costruire assieme attraverso il dialogo, a partire da riflessioni, sentimenti, umane emozioni tra loro anche molto diverse: è in quella prossimità che si matura assieme.

L’emancipazione dal trauma e dal dolore è un’esperienza a due facce, che vale per il colpevole e per la vittima, poiché entrambi ne hanno bisogno. Non c’è nulla da insegnare, occorre solo attivare il racconto e l’ascolto, e nutrirsi a vicenda di tutto il potenziale disponibile dei compagni di viaggio. Non c’è nulla da travasare, né lezione da esporre, né nozione da infondere, c’è solo da scoprire dentro ognuno di noi il meglio che vi alberga. Non mancano consigli, ma il percorso lo si fa scegliendo di volta in volta il cammino, spesso su erba fresca, alta, rigogliosa, che serra la vista, raramente seguendo un sentiero già abbozzato. Non ci sono stelle a guidare il cammino, né punti di riferimento prestabiliti. E non a caso il tavolo del gruppo somiglia molto a un letto ostetrico, ad una sala parto, dove la maieutica regna sovrana.

Ognuno, esterno o interno che sia, porta spontaneamente il suo fardello, il suo contributo, le sue riflessioni, le esperienze di un’esistenza più o meno sofferta, la malattia del suo vivere, le cure dolorose, le cicatrici, le lunghe convalescenze, le rinascite, le gioie: uno scambio, un’esperienza di dialogo e di riconoscimento reciproco. Riflessioni che vengono esposte, osservate, accolte, accarezzate, curate, e abbracciate. E’ una pratica di mutuo ascolto, sostegno, soccorso, accoglienza e conforto. Attenzione senza pregiudizi.

Paradossalmente è qui che il mio dolore si è svolto pienamente, le mie fragilità si sono esposte, le sofferenze comuni si sono confrontate, le scelte fortunate, quelle possibili e quelle azzardate e salvifiche sono state esposte, in una narrazione tra pari, sempre più consapevoli delle proprie fortune e miserie, delle loro cause, delle responsabilità di ognuno e il ruolo di ogni cosa nel destino personale. La mia vita profondamente, irrimediabilmente segnata dall’evento, come la vostra, quella di ciascuno di voi; le vostre vite parimenti distrutte, le vostre famiglie, i vostri figli e a cascata nipoti, amici, parenti. Dolori diversi, per natura e per fonte, benché simili per conseguenze e per intensità. Con la consapevolezza, lentamente acquisita, che le nostre sofferenze si sommano, non si elidono, che la vostra sofferenza non mi porta sollievo, nulla sottrae al mio dolore. Che è il cambiamento osservato e praticato a soddisfare l’umano bisogno di dare un senso ed un valore al dolore comune. Che si corre il rischio di tradire la propria carne, o di esserne accusati, e che queste accuse arriveranno comunque e dovranno trovarci forti, saldi e sereni nella nostra pratica onesta e consapevole.

L’emancipazione è reciproca, speculare: anche le vittime hanno bisogno di essere aiutate ad emanciparsi dal male subito, dalla logica della vendetta, a liberarsi dal risentimento e dal rancore, mentre l’autore di reato si fa responsabile non solo di qualcosa, o per qualcosa ad  appagare l’ordinaria logica retributiva, ma anche verso qualcuno e qualcosa, allargando progressivamente il suo orizzonte di responsabilità consapevole verso i figli, la famiglia, il nucleo sociale, la vittima ed i suoi familiari, la società nell’orizzonte più ampio. Emergendo dal carapace egoistico ed autoreferenziale che raffigura il vissuto di molti autori di reato, sordi da sempre all’ascolto del dolore inferto.

Ed è quella stessa società che vorrebbe attribuirci una funzione penale, chiedendoci di giudicare della congruità delle pene irrogate, di valutare l’autenticità del percorso di rieducazione dei colpevoli o la possibilità di accordare loro il perdono comunitario. Richieste sbagliate ed improprie: compiti che non competono ai familiari di vittime, poiché attengono alla funzione pubblica, e che si vorrebbe delegare per non assumersene la responsabilità, velando la delega di falsa sensibilità ed ipocrita rispetto, riproponendo nei fatti la visione arcaica e privata della giustizia, tutta interna al vissuto vittimario, viscerale, succube del cortocircuito rancore-odio-vendetta. All’opposto, se un qualcosa è giusto da un punto di vista civico, se è previsto dalle leggi, lo si faccia. Se non lo è, non lo si faccia, e non è che non lo si fa per non dispiacere ai familiari delle vittime. Della loro opinione o risentimento allo Stato non deve importare, deve esserne indipendente.

L’emancipazione della vittima, oltre a sottrarsi a queste ambiguità e tranelli, chiede di evadere dal ruolo vittimario, di liberarsi dello stigma da cui si è segnati, di rinunciare a vivere passivamente i benefici della condizione di vittima, tra cui l’innocenza oracolare o il credito perenne. Richiede di arrivare a cancellare il debito, che rimane comunque insoluto, purificando attivamente il ricordo della violenza subita, purgandolo del suo potenziale perennemente divisivo e distruttivo: liberare la memoria dal rancore, dalla zavorra di violenza vendicativa. Si tratta, spiccando il volo, di rinunciare spontaneamente al diritto al risarcimento ancestrale, che è l’unico modo per accostarsi al perdono in forma personale, per chi ci crede, lo pratica o lo cerca, oppure per partecipare alla più corale riparazione della lacerazione del tessuto sociale, pur conservando traccia e memoria degli eventi. Volgere il capo in avanti, al futuro, a nuova vita, poiché noi familiari di vittime siamo vivi, rimanendo pur sempre ancorati al ricordo del passato, ed additando percorsi felici di virtù da sperimentare consapevolmente, e gioiose, sorridenti imitazioni responsabili, anziché indossando plumbee corazze, zavorre soffocanti e paralizzanti. Consci di essere stati condannati ad un ergastolo emotivo da cui è difficile evadere, consapevoli che viviamo innocenti una vita molto diversa da quella che avevamo sognato, serenamente certi che nessuno si salva da solo.

Per i responsabili, emanciparsi significa dapprima lambire, poi lentamente apprendere ed infine condividere rimorso e pentimento, ri-scoprendo sentimenti ignoti, allontanati, rimossi, acquisendo coscienza e responsabilità sempre negate o rifiutate, prendendo cognizione del proprio e dell’altrui dolore, causato con scellerate pratiche di abuso, arroganti e narcisistiche. E lentamente, progressivamente, accettare nuove regole, riconoscere autorità finora ripudiate, contribuire ad emancipare il carcere dall’interno, con responsabilità e coscienza. Il cambiamento non è un compito, né uno scopo del gruppo, è semplicemente un’opportunità offerta; non si pensa di dover cambiare nessuno, ma esso è per certo il più fecondo risultato osservabile, consapevoli che non tutto dipende dal nostro lavorare assieme, e che probabilmente saranno altri a raccogliere il frutto del nostro lavoro di oggi.

In passato ho immaginato orgogliosamente di voler essere, con la mia presenza, macigno sulle vostre coscienze, ma ho anche sinceramente temuto di soffocarle. Meglio essere levatrice umile e gentile, felice osservatore della vita che nasce, del cuore che si risveglia, della coscienza che ritorna alla luce. Non si sa mai che cosa sarà, ma si sa che è vita, che può, fiorendo, dare il meglio di sé.

In molti mi avete detto che essere qui con voi è un insperato segno di vicinanza, di riconoscimento e di rispetto della vostra dignità. Quello che voglio dirvi con queste righe è che io stesso sono stato profondamente cambiato dal dialogo con voi, dal vostro lavoro ho appreso molto, mi avete arricchito più di quanto pensassi e mi aspettassi, pur senza confondere i ruoli e dimenticare: questa prossimità non vuole né guidare né assolvere, né plagiare né redimere. La salvazione è personale, la ricchezza del rapporto pure. Dal lavoro comune ognuno colga il meglio che può dare, traendolo da dentro di sé.

Giustizia Riparativa, dare senso al dolore delle vittime
Paolo Setti Carraro

Chi siamoNote sul metodo

I violini del mare contro l’indifferenza

Il 21 marzo scorso, dal palco di piazza Duomo, don Luigi Ciotti, ricordando le vittime del naufragio di Cutro, ha lanciato anche un intenso messaggio contro l’indifferenza al male. Angelo Aparo e Silvio Di Gregorio hanno voluto rilanciare quel messaggio con un progetto che ha coinvolto rapidamente altri partner e che è stato presentato ad Opera il 13 giugno.

Partner del progetto sono:

  • Issei Watanabe con due suite di Bach al violoncello
  • Don Luigi Ciotti, presidente di Libera
  • Dori Ghezzi, presidente della Fondazione Fabrizio De André
  • Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Casa dello spirito e delle Arti
  • Enrico Allorto, maestro liutaio della liuteria del carcere di Opera
  • Lucilla Andreucci, referente e anima frizzante di Libera Milano
  • Francesco Cajani, co-autore de Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine
  • Cristina Cattaneo, Medico legale, Coordinatrice scientifica del MUSA
  • Paolo Setti Carraro e Marisa Fiorani, entrambi familiari di vittime della criminalità e ponti tra Libera e il Gruppo della Trasgressione
  • Juri Aparo con la Trsg.band e il Gruppo Trsg
  • Le canzoni di Fabrizio De André

Servizio RAI NEWS

E nulla perisce nell’immenso universo, credete a me, ma ogni cosa cambia e assume un aspetto nuovo (Ovidio, Metamorfosi)

La trasformazione è anche l’attività principe del Gruppo della Trasgressione, con i detenuti che avevano fatto del disconoscimento dell’altrui fragilità il proprio mestiere e che oggi, in collaborazione con le istituzioni e con i diversi componenti del gruppo, si impegnano per riconoscerla dentro di sé, nelle scuole e sul territorio.

San Vittore, Reparto La Chiamata

A San Vittore  nasce il ‘Reparto La Chiamata’ per i ragazzi reclusi, mai così tanti

Giovani tra i 18 e i 25 anni hanno presentato nel carcere milanese i frutti del primo mese di un progetto nato nel momento in cui registra “il record assoluto” di presenze dei giovani adulti 

di Manuela D’Alessandro – Da AGI > AGENZIA ITALIA

AGI – Hamadi ha poco più di 20 anni, è alto, indossa una felpa nera e i pantaloni bianchi. E’ qui perché ha ucciso una persona. Ma è qui anche perché è il “capostipite” del reparto ‘La Chiamata’ di San Vittore, un luogo che non c’è ancora fisicamente e non si sa se un giorno sarà davvero ritagliato nei raggi del carcere ma esiste da 10 settimane, ogni giovedì mattina, quando una decina ragazzi tra i 18 e i 25 anni si ritrova per immaginarlo e, di fatto, a costruirlo.

“Il record assoluto di ragazzi detenuti”

A consegnare ad Hamadi il ruolo di ‘primo’ è Juri Aparo, lo psicologo inventore del ‘Gruppo della Trasgressione’, un ‘sarto’ visionario che da decenni prova a cucire strappi: quelli tra chi commette reati e chi li subisce e tra i colpevoli per la giustizia e il mondo fuori, a cominciare dalle scuole. I primi frutti della ‘Chiamata’ ancora acerbi ma promettenti sono stati mostrati sul palco della ‘Rotonda’ di San Vittore, la ‘piazza’ da cui si dipanano i raggi della prigione, dove sono arrivati dalle celle Hamadi e i compagni.  Il direttore Giacinto Siciliano spiega: “Ci sono tantissimi giovani adulti a San Vittore, siamo al record assoluto e molti sono alla loro prima esperienza in carcere. Ci siamo chiesti: come possiamo esserci?”.

“Un fiore al posto del dolore”

Ed ecco Francesco Cajani, magistrato che con un sorriso dice di essersi “un po’ stufato di mandare in carcere le persone” che estrae da una borsa gli ‘strumenti’ del giovedì mattina per raccontare cosa succede a metà di ogni settimana di pene lunghe o brevi da scontare. Ci sono un leggio di cartone, “per valorizzare i lavori”, uno “specchio magico” “per guardarsi dentro scavando sempre più in profondità la propria buca” e una candela “per fare luce” in tutta quell’oscurità.

E i ragazzi uno a uno, affiancati dai volontari di ‘Libera’ e degli scout di Milano e dintorni, hanno portato in dote il loro raccolto poetico. Versi come schegge che tagliano l’aria claustrofobica riempiendola di scintille  mentre li declamano. “Me ne fotto del calmante/ e di una vita barcollante/. Non mi basta un’altalena/mano buona sulla schiena. /Vorrei l’alba chiara e un fiore/al posto del dolore/. “Delinquo e quindi sono, non mi servono/catene/. Ho ammesso i miei reati e il carcere non mi appartiene”.

Aparo ha scelto Hamadi come ‘primo’ perché in lui scorge “la mostruosa polarità tra l’intensità della sua intelligenza e quello che ha fatto”. E lui non si tira indietro: “Attraverso un percorso psicologico ho acquisito la conoscenza di me stesso e preso le mie responsabilità. Nel reparto della ‘Chiamata’ il mio compito sarebbe quello di aiutare i giovani detenuti”.

La moneta dei talenti

Ai ragazzi spetta mettere in fila le richieste per il Reparto al direttore Siciliano, al magistrato Cajani, alla comandante della polizia penitenziaria Michela Morello, alla presidente della Sorveglianza Giovanna Di Rosa, al cappello del carcere minorile ‘Beccaria’, don Burgio, che ha vissuto la rivolta di qualche mese fa. Sono tutti in ascolto nella ‘Rotonda. Hamadi lo sa: “Io vorrei che l’offerta culturale non fosse un optional e che si potesse dialogare per conoscersi e farsi conoscere”.

Di Rosa osserva che “il denominatore comune” nei primi incontri “è la ricerca di una guida e poi anche il bisogno di dare un ‘senso’ al reato’”.

Nella borsa dei giovedì c’è anche una moneta: “la moneta dei talenti”, se la gira tra le mani con cura Cajani perché è la carta che può cambiare il destino. Oggi si sono visti brillare tanto da ricevere il ringraziamento dei familiari di tre vittime della mafia che, il giorno prima della giornata in memoria dei caduti, hanno sentito nelle loro giovani voci la speranza, semplice ma enorme, “di un mondo migliore”.

AGI -Agenzia ItaliaL’evento nella registrazione di Radio Radicale

Reparto La Chiamata  – Inverno e PrimaveraLo StrappoLibera