Cara Emanuela

Cara Emanuela,  sono trascorsi 36 anni, una vita,  da quella triste sera e quest’oggi vorrei rassicurarti, e con te Carlo Alberto, che i tuoi nipoti, quelli che a malapena hai carezzato e quelli che non hai mai conosciuto, hanno il tuo stesso sguardo limpido ed aperto verso il mondo, la tua stessa curiosità verso il diverso, libera della paura che in questi giorni attanaglia una parte del Paese. Essi hanno, quale più, quale meno, l’età che avevi quando ci hai lasciato, sono uomini e donne maturi, onestamente consapevoli, come lo eri tu, delle loro fortune e dei privilegi di cui godono, e capaci di riconoscere in ogni essere quel tratto di umanità che ci distingue tutti e che ti ha portato a restituire al prossimo meno fortunato parte della forza e dell’amore di cui godevi.

Come te essi sanno valorizzare il contributo che ognuno deve e può dare alla costruzione della società civile, ciascuno con la sua individualità, secondo le sue capacità, senza settarismi, superando con lo slancio generoso, di cui anche tu sei stata capace, i ristretti limiti degli interessi familiari, di clan, di campanile, aprendosi verso un orizzonte molto più ampio ed elevato di comunità e di Paese.

Essi coltivano la cultura del rispetto, cui sono stati educati, che nasce dal rispetto delle culture, ciascuna con la sua dignità, a dispetto delle naturali diversità, ed in ciò mi ricordano il tuo entusiastico abbraccio della natura e del mondo siciliano.

E, lasciami aggiungere, benché piuttosto silenziosi, poiché non usi a berciare e sopraffare, essi non sono soli, ma rappresentano una quota consistente della nostra travagliata gioventù.

Vorrei anche dirti quanto è stato duro, difficile e spesso doloroso combattere in silenzio e col silenzio i tentativi, anche se umanamente comprensibili, di stravolgere la tua semplice umanità per farne un modello fuori dall’ordinario, elegiaco, a rimarcare una distanza inesistente dal tuo prossimo, elevandoti a icona, perfetta ed irraggiungibile, laddove, viceversa, la tua naturale e disarmante bontà, la tua essenza generosa, erano più che sufficienti a qualificare la tua indole semplice e comune.

Siamo stati educati alla generosità, all’attenzione al prossimo, allo sguardo verso la diffusa sofferenza umana, e mi piacerebbe che anche tu sapessi quanto ho saputo e potuto fare per i miei pazienti, in Italia e all’estero, continuando, benché in modo diverso, i tuoi progetti di vita solidale.

E come non ricordare in questi giorni, in cui incultura ed incompetenza paiono eretti a valori, che nel ’68 hai nuotato contro corrente, contro le semplificazioni estreme del sapere, contro l’opportunismo dell’egualitarismo esasperato, anticamera del disimpegno individuale e dell’irresponsabilità, propugnando il valore dello studio e dell’impegno, della conoscenza e dell’apprendimento.

Vorrei rassicurarti che non ho mai smesso, neppure un giorno, di studiare, di approfondire, di sforzarmi di capire, di ricercare, di migliorarmi perché i beneficiari del mio agire medico e umano potessero e possano godere dei frutti del mio sapere, per poter restituire alla comunità, di cui godo i benefici, almeno una parte di quel che ne ottengo, nella piena consapevolezza del piacere e della gioia che me ne derivano nell’immediato. So di dirti cose che voi ben conoscete, che avete praticato, per cui vi siete consapevolmente sacrificati. Ma non di meno oggi desidero ricordarlo a tutti noi.

E voglio infine ricordarti che, come voi, non ho mai smesso di sognare, né di credere nella possibilità di cambiare la realtà a partire dall’impegno, dal sacrificio, dall’accoglienza e dall’amore.

Con l’affetto e la dolcezza di sempre ti stringo forte, Paolo.

Gli occhi grandi color di foglia

Lunedì 26/11/18
Teatro De Sica, Peschiera Borromeo (MI)
Prenotazioni non obbligatorie, ma utili

La serata prende il nome da un verso di Via del campo, una delle prime e più note canzoni di De André. Una bambina e una puttana vivono entrambe in Via del Campo, tanto vicine l’una all’altra da far germogliare fiori, illusioni e speranze d’amore in chi va a trovarle. La prossimità fra l’una e l’altra c’è, ma per coglierla occorrono occhi grandi color di foglia, capaci di accettare parentele nascoste fra personaggi apparentemente incompatibili.

Scritta in collaborazione con Enzo Jannacci, Via del campo invita al dialogo con ciò che a una prima lettura sembra distante e privo di valore; la canzone è un’anticipazione del tema che rimarrà il filo conduttore di tutta la produzione poetica di De André: l’importanza della comunicazione con le proprie parti dimenticate o negate, cioè con quegli errori, fragilità, insicurezze o, come dice la canzone, con quel letame da cui possono nascere progetti e riconoscimento reciproco fra persone diverse. 

Juri Aparo dal 2005 incrocia le canzoni di De André con i temi e la ricerca del Gruppo della Trasgressione  che opera a Milano dentro e fuori dal carcere e di cui è il coordinatore.

Giancarlo Parisi, poli-strumentista, con i suoi flauti, sax e fiati etnici, ha partecipato a molti dei tour di Fabrizio de André ed è oggi leader di diverse iniziative collegate al mondo del cantautore di Genova.

Tonino Scala è un musicista eclettico e un compositore, conoscitore come pochi altri delle canzoni italiane dagli ’60 a oggi e in particolare della musica d’autore.

Nel corso della serata le canzoni di Fabrizio De André, arrangiate e interpretate dalla Trsg.band, vengono incrociate con i complessi percorsi dei componenti del Gruppo della Trasgressione, i quali, dopo anni di lavoro sui propri errori, partecipano oggi a progetti in favore del bene collettivo che in passato avevano offeso.

Noi non siamo nulla se non ricordiamo chi siamo stati

“Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io”. 

[Luigi Pirandello]

Scendere sottoterra è come morire, e io non sono ancora pronto.

Tuttavia all’improvviso inizia a piovere a dirotto e io, in questo tardo pomeriggio lavorativo a Tirana, ho solo due ore d’aria e di libertà. Quindi non mi rimane altra scelta, e mi avvio lungo i gradini di questa strana scala al contrario.

Che sia un bunker balza subito agli occhi. Avanzo lungo lo stretto corridoio e, in sottofondo, sento rumori di passi veloci e latrare di cani. Mi accompagneranno, da una serie di altoparlanti nascosti, fino all’uscita: è Arte, dice il cartello all’ingresso. E’ Memoria per le vittime del terrore comunista, capisco sempre più mentre percorro le varie stanze.

L’immagine degli occhi persi di Hatlije Tafai, morta dopo indicibili crudeltà. L’odore dei vestiti di lana, appesi alle pareti, dei prigionieri politici. Il suono della macchina da scrivere nella sala buia degli interrogatori. L’aria pesante che a tratti ti svuota i polmoni. …

Questa “esperienza di immedesimazione”, così forte per me quanto non programmata, mi rafforza nella idea che da lì a pochi giorni dovrà necessariamente diventare realtà.

Al carcere di Opera arriva “Lo strappo” e io – fino a quel momento – ero più che mai convinto che queste “Quattro chiacchiere sul crimine” dovessero necessariamente, in quel luogo così significativo, partire proprio dall’inizio. Per consentire a tutti i presenti di fare i conti con quella realtà inenarrabile.

Ma come riprodurre, appunto, una ferita mortale? Come rappresentare quel dramma che, all’improvviso, cambia le vite per sempre?

Convinto sì ma ancora dubbioso: il pericolo di una spettacolarizzazione del dolore e di una mancanza di rispetto per le vittime stesse mi sembrava sempre dietro l’angolo.

Eppure conobbi Manlio Milani il 20 Marzo 2010, a Milano…. arrivò alla Camera del Lavoro con alcuni files da caricare sul mio computer prima del suo intervento: alcune fotografie e l’audio originale dello scoppio della bomba in Piazza della Loggia, quella mattina del 28 maggio 1974 a Brescia. Rimasi colpito da questa sua intenzione e sollevato dal fatto che, per una serie di eventi, non ce ne fu poi l’occasione.

Solo anni dopo, avendo occasione di conversare a lungo con lui durante la registrazione della sua intervista per il nostro documentario, mi fu tutto più chiaro. Del resto le fotografie in bianco e nero dei minuti immediatamente successivi allo scoppio di quella bomba, come scrive Benedetta Tobagi e a differenza di quelle di altre stragi della storia del nostro Paese, “brulicano di persone. Gente che grida, corre, scappa, piange, resta impietrita. Manifestanti che soccorrono le vittime”. Immagini queste “simili soltanto alle incisioni di Goya o alla carne urlante delle crocifissioni di Bacon”.

Eccomi qui: mentre ripenso a tutte queste cose sono seduto  dietro ad un mixer accanto a Salvatore, detenuto al carcere di Opera con ergastolo. E’ con lui che sto prendendo accordi sempre più fitti, perché mancano 10 minuti e la sala del teatro è quasi tutta piena.

Lui – nel mio immaginario – dovrebbe essere l’esperto, anche di bilanciamenti di suoni e di accensioni di luci, ma alla fine la parte che avrei voluto evitare tocca proprio a me.

Schiacciare quel tasto.

Scorrono sullo schermo le frasi di bambini di 10 anni ma, nonostante questa speranza di un futuro migliore, tutto per me rimane difficile. Oggi come ieri.

Cosa si prova a far saltare per aria delle persone? In una piazza, o lungo la strada che costeggia Pizzolungo una mattina di 33 anni fa, o Capaci? Oppure in un teatro, che sia durante una rappresentazione come a Dubrovka oppure durante un concerto come al Bataclan?

Buio in sala.

Schiaccio, a fatica, quel tasto perché non c’è altro modo per far sentire a tutti quell’audio.

Sono 67 i secondi prima dello scoppio. Ripenso a mio figlio quando, raccontandogli di quelle persone che in carcere “stanno pensando agli errori che hanno fatto”, mi chiede: “papà, ma le persone in cielo sono contente che loro stanno pensando?”.

Non riesco a trovargli, ancora oggi, una risposta.

Ma poi ritorno a quella sera a Tirana quando, ringraziando all’uscita del ristorante lo chef Aldo per quelle superbe delicatezze di mare che aveva cucinato appositamente per noi, mi ero emozionato vedendo che aveva messo in vetrina – accanto ad un Dom Pérignon di una annata incredibile – una bottiglia di Hiso Telaray.

Dalla terra bagnata di sangue l’uomo saggio può provare a far crescere qualcosa.

Mi aggrappo a questo. Manca 1 secondo. Io sono pronto a fare questo passo verso il 21 marzo 2018, mettendomi le scarpe di Manlio Milani e di Margherita Asta.

Grazie a voi e a tutti gli altri Familiari che ho avuto il dono di conoscere in questi ultimi 8 anni: per aver illuminato drammi che non riuscivo a vedere ed amplificato voci che non riuscivo a sentire (come pure la tecnologia – ostile anche al carcere di Opera – ha teatralmente fatto capire a tutti…. Alex che inizialmente non vedeva la pagina del libro Sola con te in un futuro aprile, Chiara che inizialmente non riusciva a farsi sentire sul testo di Vittime per sempre).

Ma soprattutto per aver avuto la forza di lasciare che le scarpe di quel giorno non appartenessero più (soltanto) a voi, evitando che diventassero sempre più pesanti ed insostenibili, come cemento che fa annegare.

Le luci in sala si riaccendono.

A distanza di più di venti giorni ancora mi rimangono – di tutta questa serata intorno al fuoco – emozioni forti. E contrastanti, quantomeno nella mia pancia, come l’effetto di quelle letture iniziali (scritte da alcuni Familiari di vittime) riflesse nelle parole che tutti hanno sentito uscire sincere dalla bocca di chi ha ucciso.

Ma quel buio, ora, forse fa meno paura a tutti.

Io, tra vittime e carnefici

Documentario Dieci78 GIF

“Mercy but murders, pardoning those that kill”
[W. Shakespeare – Romeo and Juliet: Act 3, Scene 1]
[1]

Solo da poco ho ripreso in mano un libro che il mio Professore di diritto penale, Federico Stella, tentò di farmi leggere all’età di 23 anni. Non poteva essere diversamente: è già difficile per un giovane studente di giurisprudenza comprendere il senso del diritto, figuriamoci quello della punizione… “Da millenni gli uomini si puniscono – e da millenni si domandano perché lo facciano”: inizia così il saggio di Eugen Wiesnet su “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita” e Stella, nella prefazione, ben sottolinea come “iniziare un cammino richiede che si vada alle radici”.

Ma quale sia stata l’idea che mi ha portato a tentare il concorso in magistratura è difficile indicarla in poche parole. Un embrione mi pare di trovarlo nelle pagine di un taccuino del 1994 quando, terminate le sessioni di esame, avevo l’abitudine di recarmi a Novo Mesto con alcuni amici ed amiche. Non certo in vacanza perché, all’epoca, era in corso un conflitto bellico e lì si trovava un campo profughi, nei pressi del confine tra Slovenia e Croazia.

Dietro quella abitudine la necessità, mia personale, di restituire “valore” al tempo che – all’epoca – ritenevo lo studio mi stesse sottraendo. E fu proprio in una di quelle occasioni che, per la prima volta, una persona mi raccontò – in un salone teneramente addobbato a discoteca con alcune luci natalizie – cosa avesse provato ad uccidere un proprio simile.

Quando poi nell’estate del 2001, durante un campo di formazione antimafia organizzato da Libera a Villa di Briano, il nostro pullman diretto verso Casal di Principe fu scortato da quattro macchine blindate della Polizia capìì finalmente che non c’era più bisogno di andare oltre frontiera, perché la guerra l’avevo anche sotto casa.

Cercai allora più vicino alla città dove sono nato…. fui subito colpito dal fatto che, proprio in quel periodo, avessero trovato nell’hinterland milanese un uomo all’interno di una scatola di legno: forse pensava che il mondo potesse essere racchiuso in quelle sue quattro mura, o che lui stesso potesse chiuderlo fuori da quella scatola. E (forse così pensando) è morto.

Chiedendomi quante di quelle scatole ci fossero in giro nelle case di Milano, trovai sul mio cammino Angelo (chiamato Juri) Aparo e il “suo” Gruppo della Trasgressione: “officina, laboratorio, palestra[2] frequentata da studenti di giurisprudenza, professori, magistrati e detenuti riuniti tutti intorno ad una comune esigenza dell’uomo, e cioè quella di condividere i propri (sia pure, a volte, diversi) punti di vista.

Giocando, paradossalmente, d’anticipo (per chi crede ancora che dovrebbe essere la società ad aprirsi al carcere, e non viceversa), dalla casa circondariale di San Vittore alcune persone chiedevano sottovoce a “chi sta fuori” di uscire dai soliti luoghi comuni che identificano il detenuto con la pena da scontare (riportata tra parentesi, come avviene ancora oggi su qualche articolo di stampa).

Accadde così che con “il dott. Aparo” suggellai quello che, in altre occasioni, ho definito “un patto tra macellai”. Nella mia incoscienza di educatore scout proposi uno scambio di prigionieri: carne giovane di ragazzi in cerca d’autore vs. carne meno giovane ma ugualmente interessante. Gli uni prigionieri dei preconcetti tipici dei loro 19/20 anni, gli altri prigionieri di mura troppo strette. Entrambi però desiderosi di evasione e – sia pure in quella prima fase inconsapevolmente – di mettersi a nudo fino al punto di farsi tagliare a piccoli pezzi da questa prospettiva di cambiamento interiore.

L’idea risultò vincente: partimmo nel marzo del 2003 con il primo incontro in carcere e da quel momento non abbiamo mai smesso di vederci “dentro e fuori”, organizzando – da ormai 15 anni con l’apporto di numerosi educatori scout e altri esperti del settore[3]  – un workshop capace ogni anno di restituire ad una trentina di giovani partecipanti una chiave di lettura di quanta complessità possa esserci intorno alla parola “Giustizia”.

Scriveva Aparo tre anni dopo: “in carcere è entrato un fiume vitale, capace di moltiplicare le possibili combinazioni del desiderio di riconoscersi”. Questo fiume vitale condusse, quale dono della moltiplicazione, all’approdo del Gruppo della Trasgressione in molti istituti scolastici. Ed impagabile fu per me il piacere di constatare che un manipolo di criminali riusciva ad incidere sull’indole di adolescenti, in 3 ore di “lezione” nelle classi, molto più di quanto gli insegnanti in un triennio.

Ma nonostante questa nuova forza (e, con essa, una sempre maggiore “dispersione positiva di energie”), con il Gruppo continuammo a progettare insieme nuove possibili combinazioni. Fino ad allargare quel “desiderio di riconoscersi” alle vittime di reato.

Ma come si può passare dall’attenzione per chi deve essere punito all’attenzione verso chi ha subito un danno da colui che ha commesso un reato?

L’origine di questa domanda, che poi – a riguardarsi indietro – è il primo filo della trama di questo documentario sullo strappo generatosi da un fatto criminale, la ritrovo nel convegno sugli “obiettivi della punizione”, organizzato proprio dal Gruppo della Trasgressione il 30 giugno 2005.

Negli atti preparatori a quell’incontro[4] ricordavo come, fin dalla mia tesi di laurea, mi aveva molto affascinato il pensiero di Duccio Scatolero[5] sulla necessità di scoprire, praticare ed affermare una “giusta punizione” – intesa come vero e proprio diritto del reo minorenne – perché questa contribuisce a dare dignità alla persona in crescita, a patto però che tutti gli altri diritti che lo riguardano (e in primis quello di essere educato) siano egualmente rispettati e fatti rispettare.

E proprio quella mia positiva esperienza a contatto con il Gruppo della Trasgressione mi aveva consentito di percepire come davvero imprescindibile la necessità (anche culturale) di recuperare il vero significato di educazione per adattarlo così a tutti coloro che hanno, in particolari momenti della loro vita, necessità che sia qualcun-altro-da-loro a “trarre fuori”[6] qualcosa di utile.

Dove allora punire bene implica necessariamente un interrogarsi sul soggetto da punire, indipendentemente dalla sua età, instaurando con esso una relazione che continua anche dopo l’irrogazione della pena, nel momento in cui – tramite l’atto del punire – riusciamo finalmente a prenderci idealmente carico del suo esito e della sua efficacia. In questo senso la punizione acquista anche significato dell’essere presente, laddove altri (la famiglia, la società, le Istituzioni) non ci sono stati. O ci sono stati ma in modo non del tutto soddisfacente, o parziale[7].

Ritenevo dunque, allora come oggi, di portarmi dentro un sentimento di continua preoccupazione circa gli effetti che scaturiscono dal mio operato, proprio per la difficoltà insita nel “punire bene” (che presuppone, in ogni caso, l’esistenza effettiva di un motivo per essere punito, all’esito delle indagini svolte e alla conseguente richiesta di punizione attuata dal Pubblico Ministero con l’esercizio dell’azione penale).

Tutto questo mio interesse, al momento dunque sbilanciato soprattutto su chi punisce/viene punito, divenne ancora più complesso quando – proprio a quel convegno – conobbi Walter Vannini.

Fu sostanzialmente lui a condurmi su una analoga traiettoria esperienziale, questa volta però tutta incentrata sul tema delle vittime del reato: perché effettivamente, come una volta ebbe efficacemente a dire ai ragazzi del workshop scout, noi “siamo più probabilmente vittime che probabilmente criminali[8].

E fu così che poi, alla fine di questo nuovo percorso, il 19 marzo 2010 mi ritrovai – insieme a lui – con una richiesta, confusa tra timore e pudore, di aver accesso a zone di sofferenza immensa, a me peraltro quasi del tutto ignote: infatti proprio a Milano, quel giorno di marzo, la XV Giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera si apriva con un incontro a porte chiuse tra i Familiari delle vittime di mafia.

Fu proprio l’esito di quell’accesso che impiantò in me il seme per una ulteriore crescita personale. Ed è così che da alcuni anni – insieme al Centro per la giustizia riparativa e la mediazione del Comune di Milano – cammino a fianco ad alcuni Familiari di vittime di mafia: un percorso che ci ha portati fino a quella silenziosa lettura dei nomi dei loro cari all’interno del carcere di Opera[9], il 21 marzo del 2017.

Si spiega allora come, quantomeno nella mia testa, questo documentario nasce – sostanzialmente – dall’esperienza ormai quindicennale del workshop scout. E da una serie di “incastri” lungo il mio percorso esistenziale che, alla fine, hanno portato le nostre riflessioni a trarre nuova linfa vitale anche dalla sensibilità professionale di Carlo Casoli, con il quale per anni mi sono confrontato nei corridoi del Palazzo di Giustizia (perché nel mio ufficio non lo facevo entrare) sulla reale funzione dei media.

E si capisce dunque che siamo oggi di fronte ad un “noi” molto numeroso, non più limitato a detenuti da una parte e ragazzi dall’altra[10].

In mezzo a questo “noi” ci sono (e ci sono sempre stato) anche io… io che pensavo di “essere dalla parte delle vittime” solo per il fatto di essere poi diventato, nel 2004, un Pubblico Ministero. Senza, in realtà, aver mai riflettuto seriamente[11] su quanto esse fossero un territorio da me completamente inesplorato. Fino a quando poi arrivò, anche per me, il primo processo per omicidio e quella lettera di una giovane donna (che, nello stesso tempo, aveva perso padre e fratello) che ancora conservo tra le cose più preziose….. stava ottenendo Giustizia, ma a lei questo interessava poco: lei invece voleva parlare con l’assassino.

Ecco dunque che nel ritornare alle radici di questo percorso, occasione per voltarmi a rivederlo limpidamente, riscopro il tesoro dei miei ultimi 15 anni passati insieme a questi miei tre preziosi compagni di viaggio…. perché – altro tema ricorrente del coach Aparo e che ho riscritto sul mio taccuino di strada anche il 7 settembre 2016 nel carcere di Opera seduto accanto a Marisa Fiorani[12] – “la riflessione è un lusso che non sempre l’essere umano si vuole concedere”.

Da buon macellaio che volevo essere, il primo che si è “fatto tagliare a pezzetti” da tutta questa storia sono stato io.

Perché, da un lato, il Gruppo della Trasgressione è stato una palestra vitale anche per il mio essere Pubblico Ministero, e di questo esercizio porto ancora con me il peso della maggior fatica nell’affrontare il mio ruolo istituzionale ogni giorno.

Perché, dall’altro, i Familiari delle vittime interrogano nel profondo la mia coscienza di uomo, nei momenti in cui tende ad essere assonnata e pigra. Le loro parole, vive perchè non vogliono arrendersi al lutto e al ritornello del “tanto nulla può cambiare”[13], mi riportano prepotentemente – come un pugno nello stomaco – al concetto di distacco, che illumina di luce nuova i loro volti ma che invece troppo spesso noi tendiamo a dimenticare, a partire da quello apparentemente più semplice: il distacco da sé stessi. Ossia comprendere che è possibile fare qualcosa di più per gli altri che ci stanno accanto, ogni giorno.

Ri-svegliarmi dunque e non rimanere invece quel giudice dormiente, ben raffigurato da Thomas Couture.

Ed essere così in grado di ri-comprendere, insieme al reo, anche la vittima. Perché non esiste solo un diritto riconosciuto dall’art. 27 della nostra Costituzione al reo, ma anche un preciso dovere verso le vittime: quello di mettere in campo forze positive in grado di “scongelare”[14] il dolore affinchè possa, per quanto possibile, ri-trasformarsi in qualcosa di vivo.

In tutto questo non posso però non ripensare, ancora una volta, alle tante cose che, per un lunghissimo attimo, hanno bussato alla mia pancia tutte insieme, inaspettate, durante il dialogo che è seguito a quella lettura dei nomi delle vittime di mafia ad Opera.

Al fatto che, come si è lasciato sfuggire un detenuto, “certo, non tutte le carceri sono come Opera…quello che riusciamo a fare qui difficilmente si può fare in altre realtà”. E al fatto che, come si è lasciato invece sfuggire un Familiare, “in carcere ho trovato una umanità che fuori spesso non riesco a trovare”. Affermazioni entrambe vere. Ma considerazioni, per me, terribilmente amare. Come cittadino, prima che come magistrato. Ma, a dire il vero, anche come magistrato: perché non capisco come sia possibile che la fecondità dell’idea del Gruppo della Trasgressione, e con essa le fatiche quotidiane e molto spesso neppure retribuite di Juri Aparo, non venga doverosamente considerata dalle Istituzioni come un Patrimonio dell’Umanità intera.

Ma ancora una volta la strada da percorrere me la indicano con forza proprio quei Familiari che – nonostante la ferita, che resta sempre aperta – fanno memoria[15] senza retorica[16], richiamando inesorabilmente tutti noi alla indicazione di Peppe Diana: “non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di avere paura, il coraggio di fare delle scelte”. E a quel concetto di rivoluzione dell’agire umano[17], nel senso che intendeva Gaber quando invece dissacrava quelle “tante cose belle” che abbiamo “nella testa ma non ancora nella pelle”.

E per questo che, seduto accanto a Marisa, quel giorno rileggevo ad alta voce: “Per farsi coraggio, allora bisogna restare in contatto con sè stessi, con la propria autenticità, e averne cura, per non rischiare di inaridirsi. È necessario, poi, coltivare la speranza e mantenere lo sguardo su un futuro desiderabile nel nome del quale agire e vivere, serve custodire e nutrire la passione per qualcosa, perché sarà il bacino a cui abbeverare il coraggio quando vorremo lottare proprio in nome di quella passione, circondandoci di coloro che condividono e sostengono questo stile di vita e questo modo di vedere il mondo. Per questo serve anche riconoscere dei modelli di coraggio positivi per noi, da imitare guardando i valori che esprimono, per poterli incarnare a nostra volta”[18].

Anche se il documentario volutamente non vuole prendere posizione sul tema dello strappo ma solo restituirne l’estrema complessità, tutto nella mia testa ora – finalmente – torna. Così i quaderni dei fratellini di Margherita Asta, che ancora oggi ci parlano di una “primavera” che “si avvicina”, di “mani… piccole” per lasciare un segno sulla “mia terra”, sono anche per me pungolo per un rinnovato impegno come magistrato e cittadino. Ora a Milano come allora a Novo Mesto, quando alla fine su quel taccuino ricopiavo – per tenerla bene a mente – questa strofa di De Gregori: “… e adesso per favore dimmi quando finirà la guerra. Sono stufo di stare nella mia trincea di lusso”[19].

 

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[1] contributo tratto dalla Guida alla visione del documentario Lo strappo. Quattro chiacchiere sul crimine

[2] Così efficacemente Carmelo I. definisce, nel documentario, il Gruppo della Trasgressione.

[3] Cfr. www.vocidalponte.it/2017/05/13/la-storia-siamo-noi.

[4] www.trasgressione.net/pages/trasgressione/int_teorici/Cajani.html (nov. 2004-feb. 2005).

[5] D. Scatolero, Atti delle giornate nazionali di studio e di riflessione sulla applicazione del nuovo codice di procedura penale, Milano, 23-24 ottobre 1991, p. 136; ID, La questione punitiva in “Punire Perché. L’esperienza punitiva in famiglia, a scuola, in istituto, in tribunale, in carcere: profili giuridici e psicologici” a cura di M. Cavallo, Franco Angeli Editore, 1993, p. 19.

[6] Cfr. Platone, “Teeteto” (in particolare: 149 a-151 d).

[7] Cfr. A. Aparo, Il giudice, un padre mutilato: (1998).

[8]www.ilworkshopsulcarcere.wordpress.com/2012/04/21/siamo-piu-probabilmente-vittime-che-probabilmente-criminali.

[9] www.vocidalponte.it/2017/03/31/fiori-per-un-fiore-2.

[10] www.ilworkshopsulcarcere.wordpress.com/2010/03/06/dialogo.

[11] Per questo motivo il mio personale ringraziamento va anche a Federica Cantaluppi e Luana De Stasio del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione del Comune di Milano.

[12] Madre di Marcella Di Levrano (ritrovata uccisa, in un bosco tra Mesagne e Brindisi, il 5 aprile 1990 dopo che aveva deciso di raccontare alle Forze dell’Ordine quello che sapeva circa i traffici di sostanze stupefacenti gestiti dalla Sacra corona unita: cfr. www.vocidalponte.it/2017/04/21/a-mio-figlio), Marisa ha avuto il coraggio di incontrare ad Opera detenuti condannati per reati di criminalità organizzata e, tramite essi, sé stessa: cfr. P. Foschini, Marisa Fiorani al carcere di Opera: «Aiutiamoci parlando», Corriere della sera, 10.9.2016, p. 7.

[13] Così Stefania Grasso (figlia di Vincenzo Grasso, commerciante ucciso a Locri il 20 marzo 1989 dopo che anni prima aveva denunciato alle forze dell’ordine le richieste estorsive ricevute) ha salutato papa Francesco all’inizio della veglia del 21 marzo 2014 con i Familiari delle vittime di mafia: “Ci guardi, Santo Padre. Guardi ognuno di noi, legga nei nostri occhi il dolore della perdita di un padre, di una madre, di un figlio, di un fratello, di una sorella, di una moglie, di un marito. Guardi nel nostro volto i segni della loro assenza, ma anche del loro coraggio, del loro orgoglio, della nostra voglia di vivere. Guardi le nostre mani, il loro continuare a fare. Ci guardi, capaci di andare avanti per testimoniare il loro esempio. Ma soprattutto guardi e legga nel nostro cuore la speranza di coloro che sono certi che le cose possono cambiare.  Per questo continuano a combattere e noi guardiamo a lei, Santo Padre, per ringraziarla di essere qui adesso”.

[14] “Serve un lasciarsi andare vigile che ritroveremo confinato nel ghiaccio e il ghiaccio sarà pronto a liberarlo quando il sole avrà più forza e saremo pronti noi”: A. Ceolan, “Racconto di inverno”, Albert Ceolan edizioni, 2016, p. 15.

[15] “A molti di noi è mancato il riconoscimento sociale di quanto è accaduto alle nostre famiglie, come se fossimo figli di un’altra terra. L’indifferenza, soprattutto iniziale, delle nostre comunità ai tragici eventi accaduti alle nostre famiglie ci ha fatto sentire, spesso, soli nella nostra richiesta di giustizia. Da qui è nata l’esigenza di costruire un percorso che trasformi il ricordo individuale in memoria condivisa […] una memoria collettiva sulle vittime delle mafie”: così Daniela Marcone (figlia di Francesco Marcone, Direttore dell’Ufficio del registro ucciso a Foggia il 31 marzo 1995 dopo che alcuni giorni prima aveva presentato un esposto in Procura contro alcune truffe perpetrate da ignoti falsi mediatori che garantivano, dietro pagamento, il più rapido disbrigo di pratiche del suo stesso Ufficio) nella introduzione al libro Non a caso, Edizioni la meridiana, 2017.

[16] “Per­ché non basta ricor­dare. Le vit­time delle mafie non hanno vis­suto per essere ricor­date. Hanno vis­suto per la giu­sti­zia sociale, quindi per tutti noi. E abbiamo solo due modi cre­di­bili per ricor­darle: impe­gnarci a rea­liz­zare i loro ideali e non lasciare mai soli i loro familiari”: così Luigi Ciotti a Latina, il 21 marzo 2014.

[17] “Un’idea, un concetto, un’idea finché resta unidea è soltanto un’astrazione/ Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”: Un’idea, dall’album Dialogo tra un impegnato e un non so, 1972.

[18] L. Campanello, Diventare coraggiosi (senza essere eroi), Corriere della sera, 3 settembre 2016, p. 33.

[19] Ultimo discorso registrato, dall’album Buffalo Bill, 1976.