di Francesca Radaelli
Vale ancora la “pena”? Al di là del gioco di parole, c’è tutto il problema del senso della giustizia penale nella domanda con cui si è aperta la serata organizzata dall’associazione “Carcere Aperto” lo scorso 13 ottobre al Binario 7 di Monza. Pensato per la cittadinanza, l’evento – che ha visto tra gli organizzatori anche le Acli di Monza e di Vimercate, in collaborazione con il ‘Gruppo della Trasgressione’ e con il patrocinio del Comune, ha registrato una grandissima partecipazione di pubblico, a dimostrazione dell’interesse dei monzesi per quello che è stato definito nel corso della serata “uno dei quartieri” della loro città: la Casa Circondariale di via San Quirico.
A confrontarsi e dialogare sul palco in merito alla possibilità e ai modi per ricucire lo “strappo” che ogni reato causa all’interno della società sono stati Felice De Chiara, comandante dirigente della polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Monza, Fabrizio Annaro, giornalista del Dialogo di Monza, Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela, vittima di strage di mafia, Adriano Sannino e Antonio Tango, ex detenuti.
La discussione, condotta da Angelo Aparo, psicoterapeuta e fondatore del Gruppo della Trasgressione, e da Francesco Cajani, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, ha preso le mosse dalla proiezione di alcuni spezzoni del documentario intitolato proprio “Lo strappo” di cui lo stesso Cajani è stato co-autore.
Il punto di vista delle istituzioni
In rappresentanza delle istituzioni, il comandante De Chiara si sofferma su quella che deve essere la missione di ogni operatore carcerario: “restituire alla città persone migliori”. De Chiara ha spiegato che la durata media della permanenza in carcere è di un paio di anni e che quando i detenuti escono tornano a frequentare la città e la società. “Per questo in carcere è necessario promuovere la cultura della legalità, del rispetto delle regole e dei propri doveri”.
Nel corso della serata vengono interpellati anche due altri rappresentanti delle istituzioni presenti in platea: Massimo Parisi, ex direttore del carcere di Monza e attualmente direttore generale del personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a livello nazionale, e il sindaco di Monza Paolo Pilotto.
“Al di là della retorica della “rieducazione”, l’aspetto decisivo è l’intervento sulle persone: per noi è cruciale avere il personale educativo che sia in grado di attivare un percorso di cambiamento nei detenuti”, ha sottolineato Massimo Parisi.
Alla domanda su cosa chiedano i cittadini alle istituzioni carcerarie, Parisi risponde che da una parte l’istituzione deve essere “credibile”, anche agli occhi dei detenuti, ma dall’altra diventa però importante creare una cultura del carcere diversa e parlare di carcere con la cittadinanza. Per esempio attraverso progetti come il ristorante del carcere di Bollate, aperto a tutti i cittadini e voluto dallo stesso Parisi quando ne era direttore.
“Come sindaco e come cittadino io mi aspetto dalle istituzioni carcerarie un avvicinamento, una riconciliazione”, risponde a sua volta il sindaco Paolo Pilotto. “Però nella mia esperienza di tutti i giorni l’attesa maggiore che i cittadini hanno verso il carcere è quella di una separazione netta”. La sfida, anche per le istituzioni, è quella di scardinare i luoghi comuni: “L’obiettivo a cui lavorare dev’essere quello della convergenza e dell’incontro, che può essere favorito anche dalle relazioni tra istituzioni”.
Il punto di vista dei giornalisti
Spesso, di fronte a un reato, il giornalismo si limita al racconto del fatto di cronaca nei suoi particolari più terribili. “E’ importante, però, raccontare anche ciò che avviene dopo”, sottolinea Fabrizio Annaro, parlando del docufilm girato qualche anno fa all’interno della casa circondariale di Monza. “Il titolo che abbiamo scelto è “Tempo libero” perché proprio il tempo vuoto del carcere favorisce il pensiero. E proprio dalle realtà di fragilità come il carcere emergono pensieri critici e valori che possono essere un’ancora di salvezza per noi tutti nei momenti di crisi”. L’idea di raccontare la fragilità, e tutto il bello che da essa può scaturire, fa parte di un movimento che sta crescendo nel mondo dell’informazione, che lavora per un giornalismo che sia costruttivo e che dia spazio anche alle buone notizie.
Il punto di vista dei detenuti
“A cosa serve la pena?” domanda provocatoriamente Angelo Aparo, per introdurre il punto di vista dei detenuti. “Secondo la nostra Costituzione serve a migliorarsi. La pena è quindi una condanna a migliorarsi”, conclude. Ma come si ottiene questo miglioramento? “Si ottiene”, risponde Aparo, “con la coscienza di sé e dell’altro e con la consapevolezza della propria fragilità, che permette di aumentare la consapevolezza del bisogno dell’altro”. Il problema, spiega lo psicoterapeuta, sono gli strumenti attraverso cui può procedere questo miglioramento. Nel documentario “Lo strappo” un detenuto racconta che per lui diventare adulto significava diventare forte al punto di picchiare suo padre. “Per chi commette reati non esiste nessuna autorità credibile”, spiega Aparo. “L’autorità è considerata come una maschera per coprire il desiderio di potere di singole persone. E se l’autorità non vale nulla, anche le regole dell’autorità non valgono nulla”.
La parola passa ai due ex detenuti, che sottolineano come l’incontro in carcere con il Gruppo della Trasgressione abbia messo in moto in loro un cambiamento. “Sono riuscito a sentire me stesso come una persona, a sentire la mia fragilità, a non sentirmi più una vittima dell’autorità ma un colpevole”, racconta Adriano Sannino. “Oggi sono libero ma mi sento colpevole di ciò che ho fatto. Io ho scontato 30 anni di carcere, ma chi perde un familiare vive un ergastolo a vita”.
Gli fa eco Antonio Tango: “Inizialmente ho deciso di frequentare il Gruppo solo per avere dei vantaggi rispetto alla pena che stavo scontando. Però le parole che sentivo erano come un sasso in un lago, si espandevano in tanti cerchi dentro di me. Cominciarono a martellarmi in testa. E alla fine, grazie a questi incontri, sono riuscito a guardare la debolezza dentro di me e, attraverso il dolore che provavo io sono riuscito a comprendere il dolore delle vittime. È stato così”, conclude, “che ho smesso di sentirmi defraudato dalla vita e dall’autorità che mi ha condotto in carcere. Ho capito che, nel corso della mia vita, la galera me l’ero costruita io stesso. Così ho cominciato a sentirmi libero, proprio quando in carcere”.
Il punto di vista della vittima
Lo strappo per il familiare della vittima di un reato consiste nel congelamento improvviso della propria esistenza. Lo spiega bene Paolo Setti Carraro: “Un dolore così forte rischia di condannarti a camminare nella vita con la testa rivolta all’indietro, ti sottrae energie emotive e psichiche, ti fa sentire come ingabbiato, prigioniero in una ragnatela”. Anche le vittime hanno bisogno di emanciparsi: “Questo cambiamento richiede tempo, ma un percorso di dialogo con gli autori di reato può portare a un cambiamento. Il dolore è ciò che ci unifica e da lì bisogna ripartire. Purtroppo però molti familiari di vittime vivono in un carcere psicologico costruito sull’odio e il risentimento”. Paolo Setti Carraro rimarca poi il concetto della sicurezza in relazione all’educazione del detenuto: “Se vogliamo vivere in maggiore sicurezza bisogna che il carcere restituisca alla società dei cittadini migliori”.
Adriano e Antonio, i due ex detenuti, oggi hanno un lavoro che ha dato loro un posto nella società: il primo lavora in una cooperativa, l’altro come “tuttofare” in una scuola brianzola. Ma, chiedono dal pubblico, come si fa a credere nella rieducazione di fronte alla reiterazione di un reato?
Angelo Aparo a questo proposito precisa che spesso in carcere non si tratta di ri-educare la persona ma di “inventarla” da zero, soprattutto nei casi in cui la storia personale, educativa e familiare in cui il detenuto è cresciuto non gli ha permesso di avere gli strumenti per comprendere i suoi errori. Questo passa attraverso incontri e dialoghi con persone capaci di ascoltare e guidare verso percorsi di cambiamento vero: “La creatività dovrebbe avere maggior spazio in carcere. Non esiste la rieducazione, ma il nutrire in queste persone la fiducia che si possa credere in qualcuno che si spende per te!”
Al termine di una serata ricchissima di riflessioni ed emozioni, ciò che rimane è un “senso” di complessità. Per far cambiare le persone che commettono reati e spingerle a seguire le regole della legalità non bastano le pene più dure. Dall’altra parte, la punizione dei colpevoli non “risolve” la sofferenza delle vittime.
Nella complessità dello “strappo” causato da ogni crimine, l’unica via percorribile sembra essere proprio quella più difficile, quella lunga e tortuosa del dialogo con l’altro, della riflessione su sé stessi e del tentativo di comprendersi. Una strada che passa attraverso il dolore delle vittime e quello dei colpevoli, attraverso il riconoscersi fragili, attraverso il riconoscere la fragilità dell’altro.
E, per avvicinarsi gli uni agli altri, occorre per prima cosa aprire le porte, anche quelle del carcere, e provare ad entrare. Non può che essere questo il primo passo per provare a ricucire lo “strappo”.
Per il documentario www.lostrappo.net