Il desiderio dei miei nonni

Ciao a tutti voi del gruppo. Voglio contribuire a quello di cui si è parlato in queste settimane, partendo dal diritto al rancore. Nella maggior parte dei casi il rancore si acquisisce quando uno viene maltrattato, come nel mio caso, che da piccolo sono stato maltrattato dai miei fratelli, i quali non mi ritenevano di famiglia, ma solo una minaccia, per il semplice motivo che mia mamma dopo avermi messo al mondo non mi ha accettato, affidandomi nelle mani dei nonni paterni, i quali, con quel poco che avevano, non mi hanno mai fatto mancare niente, partendo dalla scuola a tutto il resto che poteva servirmi per essere accettato in una società onesta.

Non appena sono cresciuto, all’età di 13 anni avevo desiderio di giocare con i miei fratelli, in un parco frequentato per la maggior parte da ragazzi senza istruzione, né una guida paterna, come io l’ho avuta dai miei nonni.

Ma a me non importava tanto quello che i miei nonni avevano fatto per me, cioè tenermi lontano dalle cattive compagnie, compreso i miei fratelli, i quali ogni volta che mi presentavo a casa di mia mamma, oltre a rifiutarmi, qualche volta mi hanno anche picchiato. Così, io dopo poco ho iniziato a sfogare il mio rancore andando ad immischiarmi in gruppi che mi facevano sentire intoccabile, e mi davano la possibilità di sfogarmi nei confronti di chi mi capitava a tiro.

In più la mia soddisfazione era quella di dimostrare ai miei fratelli che io non ero stupido come loro credevano, anzi, spesso gli ho anche risolto tanti problemi che avevano con altre bande di quartieri diversi, fino ad arrivare al punto di non ritorno.

Per prima cosa, ho procurato il male inguaribile ai miei genitori che erano e rimarranno, fino alla fine dei miei giorni, i miei nonni, poi alle persone a cui ho procurato dolori ed infine a mia moglie e alle mie figlie, le quali sono cresciute senza una figura paterna, come è capitato a me con mia mamma, che non mi ha mai accettato fino ad oggi, mentre mio padre, stando sempre in carcere, ogni volta che usciva, l’unico suo obbiettivo era quello di farmi credere che ero il figlio prediletto, dandomi tutto quello che i miei fratelli non hanno mai avuto, cioè soldi, macchine e rispetto.

Ma tutto questo non era altro che per i suoi scopi, i quali mi hanno rovinato la vita completamente, non solo per quello che ho fatto ma pure per quello che non ho fatto. Infatti, dopo essere stato in carcere dal 2006 al 2018, il giorno in cui sono ritornato in libertà, ho avuto il coraggio di dire NO a lui e a quella vita che si era impossessata di me.

Concludo con questa sintesi della mia vita facendovi sapere che la coscienza che avevo preso nella detenzione dal 2006 al 2018, oggi è viva anche grazie a voi del gruppo, che mi state aiutando a riflettere su quella strada sbagliata che avevo preso. In questo modo riesco a dare un significato alla mia vita e sto trovando anche un motivo per tutte le cose sbagliate che ho fatto.

Oggi voglio poter dare un mio contributo a chi ne ha bisogno per evitargli di cadere nei miei stessi errori, e per consigliare di accettare una mano quando ti viene data per ritrovare la legalità.

Io l’ho avuta dai miei nonni, solo che non l’ho mai afferrata per il troppo male che avevo dentro. Oggi posso dire che il rancore non va combattuto con altro rancore ma solo con chi ti tende una mano e ti aiuta a combatterlo, perché la vendetta produce effetto contrario e il paradosso della mente ubriaca è proprio quello di sfogare la rabbia pure con chi non centrava niente.

In virtù di questo, oggi il mio contributo non è solo aiutare il prossimo con i miei errori, ma aiutare i magistrati a sciogliere i nodi che c’erano nelle mie vicende per dare una svolta alla mia coscienza come, tra parentesi, sto facendo.

Grazie a tutti voi, non solo come gruppo, ma come una vera famiglia che sta dando un senso a tutto quello che i miei nonni hanno sempre desiderato per me.

Ciro Perillo

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Con chi me la piglio?

Credo di aver iniziato a provare rancore verso la vita in generale e poi, nei confronti di un altro individuo, per la prima volta ad otto anni. Da piccola non avevo realizzato di essere nata con una patologia agli occhi che avrebbe potuto rappresentare un ostacolo per la mia vita. 

Un giorno di tanti anni fa invece accadde qualcosa che me lo fece comprendere, come succede quando una persona ti schiaffeggia in pieno viso, senza che tu abbia avuto modo di rendertene conto e, soprattutto, senza che l’altro abbia alcun motivo valido per schiaffeggiarti. Quando te ne rendi conto è ormai troppo tardi e la faccia ti brucia per il dolore, per l’umiliazione di non aver saputo parare il colpo, ma anche per la consapevolezza di non aver provocato per tua colpa questa reazione spropositata da parte dell’altro.

Ero alle elementari e la mia scuola ci portava a lezioni di nuoto. L’insegnante di nuoto non era la mia insegnante, ma un’istruttrice esterna ed era ignara del fatto che io, senza occhiali, non vedevo quasi nulla (sono nata con una miopia degenerativa e di fatto, senza occhiali, vedevo solo ombre). Dopo che aveva mostrato a tutti noi alunni quali movimenti avremmo dovuto fare, vedendo che non mi muovevo, aveva iniziato ad urlarmi addosso le istruzioni che dovevo eseguire perché si era convinta che mi fossi distratta. Io, dal canto mio, non mi ero distratta, ma semplicemente non ero in grado di ripetere ciò che lei aveva mostrato perché senza occhiali non vedevo a un palmo dal mio naso e non avevo idea di cosa avesse mostrato agli altri. I miei compagni dell’epoca sono stati degli ottimi alleati in quell’occasione, mi hanno difesa subito spiegando all’insegnante quale fosse il mio problema. Quindi l’umiliazione, se vogliamo, è durata poco, ma non posso affermare di esserne uscita fuori altrettanto velocemente. Avevo sentito mortificazione e rabbia per essere stata sgridata davanti a tutti per una cosa di cui non avevo colpa. 

Da quel momento ho iniziato a provare parecchio rancore e lo indirizzavo di volta in volta verso chi mi faceva sentire umiliata come mi aveva fatto sentire quell’insegnante. Credo di aver iniziato ad avere un pessimo rapporto con l’Autorità a partire da quel giorno. Potrei fare tanti esempi per far comprendere cosa intendo: ogni volta che a scuola o in università o sul lavoro, sentivo di aver subito un’ingiustizia, cercavo in tutti i modi lo scontro con la mia controparte… e ci riuscivo. So essere determinata, quando mi ci metto! 

Ma negli anni ho imparato anche un’altra tecnica: sparisco. Punisco l’altro che mi ha ferita, semplicemente sparendo dalla sua vita, senza dare alcuna spiegazione. Non ne vado fiera, ma era il modo con il quale ho imparato a difendermi e che mi faceva sentire meno il dolore. Ad essere sinceri, il dolore rimane, quindi posso affermare che questa modalità nel tempo si è rivelata fallimentare. Oggi, infatti, non scappo più. Quantomeno, sono molti anni che non lo faccio più.

Inoltre, in quegli anni ho iniziato ad avere un pessimo rapporto con la mia fisicità. C’è da dire a mia discolpa che, mio padre e mia madre, essendo belli, a mio avviso, avrebbero potuto impegnarsi un pochino di più… e invece hanno elargito tutte le qualità ai miei tre fratelli…

C’è stato solo un periodo in cui mi sono sentita bene con me stessa ed è stato nel 2007, dopo che mi sono operata agli occhi, ma è durato pochi mesi e nel 2008 nel periodo in cui ho conosciuto il ragazzo che poi è diventato mio marito, Lorenzo, e non credo sia un caso. Oggi oscillo tra il farmi schifo ed il piacermi, non saprei dirlo nemmeno io onestamente.

Come dicevo, i compagni di classe dell’epoca mi avevano difesa, ma purtroppo, dopo aver cambiato classe, non è più stato lo stesso. Quei primi compagni erano sempre stati gentili con me perché mi avevano sempre conosciuta con quegli occhiali così spessi; per loro quegli occhiali non erano un problema perché me li avevano sempre visti addosso. Ma l’estate prima che io frequentassi la quinta elementare, io e la mia famiglia ci trasferimmo  in un altro paese e, di conseguenza, dovetti cambiare scuola.

Spoiler: fu un trauma per me (messaggio per mia mamma e mio papà: non me ne vogliate, oggi capisco le vostre ragioni, che erano molto serie e valide, ma all’epoca non le accettavo).

La quinta elementare e le medie sono state letteralmente un inferno per me. Non solo venivo discriminata per il mio aspetto, ma avevo l’aggravante di essere pure una che si impegnava a scuola, quindi venivo schifata, salvo che a qualcuno servissero i miei appunti. Credo di aver affinato in quel periodo le mie tecniche e le mie capacità di attrice comica (uno dei pochi talenti che mi riconosco). In quel periodo mi ero convinta che, visto che non potevo essere la figa del gruppo per manifesti motivi, mi conveniva puntare su altre qualità per farmi notare, tipo la simpatia. A guardarmi, nessuno avrebbe pensato che fossi una bambina tremendamente infelice, ma vi posso assicurare che lo ero; semplicemente avevo imparato molto bene a nascondere la sofferenza dietro ad un sorriso, per tanti motivi.

Primo fra tutti perché sono una persona orgogliosa, non avrei mai pianto di fronte a quegli idioti. E così ho fatto. Mi limitavo a piangere a casa perché io piango un sacco, ancora oggi. Oggi non mi vergogno di più di piangere davanti ad altri, quantomeno non mi vergogno più da morire, ma solo un poco. Secondariamente non volevo arrecare un dispiacere ai miei genitori perché sono sempre state le persone più importanti della mia vita; mia madre mi diceva giustamente di infischiarmene, mi ripeteva che ero bellissima e che quelli erano solo una manica di sfigati. Oggi, da mamma a mia volta, la capisco; ma comprendo anche che le parole di quegli idioti hanno lavorato tanto nel mio subconscio, perché ho passato anni a sminuirmi oppure a sentirmi quella strana e quella anormale, oggi lo so. 

Come so che ho passato anni a sentirmi un cesso a pedali, tanto che, anche quando ho capito che non ero più così cessa, continuavo a credere fosse impossibile che io potessi piacere a un ragazzo. 

Ho iniziato a odiare i miei bulli, ma c’era una parte di me che, in realtà, li ammirava o, meglio, li invidiava. Avrei tanto voluto avere la loro faccia tosta. Nella mia testa, inscenavo un teatro continuo in cui ero la protagonista della storia e non la sfigata, ho sempre lasciato briglia sciolta alle mie fantasticherie; ancora oggi mi sparo tanti di quei film nella mia testa che, a pensarci bene, avrei dovuto fare la sceneggiatrice.

Negli anni sono state diverse le occasioni in cui ho provato del rancore verso gli altri; di recente, per esempio, mi sono arrabbiata moltissimo con Dio e l’ho minacciato seriamente che avrei cambiato religione (sono cattolica). Non posso dire con certezza se le mie minacce abbiano funzionato o meno perché mi pare che il canale di comunicazione con Lui sia ancora molto disturbato, ma attendo riscontri. Chi lo sa che non si decida a inviarmi dei segnali!

Contemporaneamente però ho iniziato ad alimentare e a nutrire un forte rancore anche nei confronti di me stessa. Il rancore verso me stessa era ed è diverso da quello che provavo nei confronti degli altri, lo definirei più subdolo. Quando provi del rancore nei confronti di qualcuno diverso da te, puoi permetterti di cercare lo scontro se lo vuoi e ti autorizzi a ferire l’altro, senza pensare troppo alle conseguenze di ciò che fai o, almeno, mi è sembrato di aver agito così. Quando il bersaglio del tuo rancore sei tu, ti autodistruggi alle volte anche inconsapevolmente, altre volte ne sei consapevole, ma non riesci a fermarti. A me succedeva e succede che, nei confronti dell’altro prima o poi mi stancavo di provare rancore, mentre al rancore che provo nei confronti di me stessa quasi quasi mi ci sono affezionata, anzi togliamo il “quasi”.

Mi ha fatto più male la rabbia che ho provato nei confronti di me stessa, che nei confronti degli altri perché è diventata parte della mia identità e mi dispiace quasi lasciarla andare via, ma mi ha tarpato le ali, mi ha impedito di esprimermi, di vivere con spensieratezza, di relazionarmi in modo costruttivo con alcuni, di farmi conoscere davvero e potrei andare avanti ancora e ancora.

Nei momenti più difficili, criticarmi e distruggermi psicologicamente diventa la mia prima reazione. Devo lavorare un sacco per riuscire a fermarmi. Verrebbe quindi spontaneo domandarsi: ma tu vuoi fermarti o vuoi continuare a farti del male? Risposta sincera: Certo che lo voglio! Ma ci sono volte in cui non riesco a fermarmi e ho bisogno di aiuto, di riconoscere che ne ho bisogno, oggi lo so.

Dal momento che non ne sono ancora uscita, sulla carta non sono la persona migliore per suggerire o ipotizzare cosa avrebbe potuto aiutarmi a farmi meno male, ma ci tengo ad individuare, condividere e chiamare per nome, le cose che hanno funzionato e mi sono state d’aiuto.

Ad esempio, avere una funzione all’interno del Gruppo della Trasgressione mi ha aiutata ad essere più indulgente nei miei confronti, quantomeno la maggior parte delle volte. Il riconoscimento di vari componenti del Gruppo è stato un altro grande alleato. L’affetto sincero di alcune persone, da me ricambiato, è stato altrettanto importante. La tentazione di distruggermi è spesso presente al mio fianco, ma riconosco anche che fa più fatica ad attecchire di fronte al lavoro che faccio insieme ad altri in questo strambo Gruppo.

Alessandra Cesario

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

 

Rancore e paradossi

Il convegno è un’occasione per ascoltare le testimonianze di chi ha attraversato esperienze difficili e ha trovato la forza di cambiare, ma anche per raccogliere le domande di studenti, cittadini e di chiunque desideri capire di più la complessità dei percorsi della devianza.

Il Gruppo della Trasgressione, fondato nel 1997 dal dott. Angelo Aparo, lavora da 27 anni su questi temi per risvegliare nei detenuti un senso di responsabilità che li motivi a ricostruire la propria vita e le relazioni con gli altri.

Durante l’incontro vengono affrontate domande che toccano tutti noi da vicino, come: Quali sono gli strumenti utili per una effettiva evoluzione del condannato? Come nasce il rancore e quali sono le strategie per dissolverlo? Come può una persona passare dal disconoscere gli altri al riconoscersi in loro? Come si può trasformare un’identità segnata dal rancore e dall’abuso in una capace di vivere in armonia con la comunità?

Il rancore, insieme col desiderio di rivalsa, può diventare una delirante licenza per atti violenti e persino un tratto dominante della propria identità. Scioglierne i nodi è essenziale per aiutare il condannato a passare dalla sensazione d’essere vittima della società e delle istituzioni al sentirsi finalmente risorsa e parte attiva della comunità di cui non si sentiva membro.

La tavola rotonda del 6 novembre sarà un’opportunità per chiederci se e come una persona possa trasformare il rancore in consapevolezza della propria storia. Detenuti, magistrati, giornalisti, docenti universitari, studenti, familiari delle vittime di reato e cittadini comuni si confronteranno per cercare insieme strade e strumenti utili a riconoscere la prossimità che esiste tra autori e vittime di reato, nonostante gli strappi e gli abusi del passato, subiti e inflitti.

Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria.
Per partecipare, è necessario compilare
questo modulo 

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca

Nominare il rancore

Credo sia proprio vero che, se per anni si costruisce la propria identità sul rancore, abbandonare quest’ultimo è un’impresa: equivale a concedere a sé stessi di lasciar andare uno scheletro che, per molto tempo, ha sorretto la propria persona; fa paura l’idea di doverlo sostituire e ricostruire su basi differenti; si corre il rischio di rimanere o sentirsi privi di un appoggio al quale aggrapparsi in momenti di difficoltà. Se provo rancore nei confronti di qualcuno, posso contare su di esso per non smarrirmi quando la persona in questione mi ferisce. Il rancore è un’armatura che sì, protegge dal dolore, ma che in ogni caso limita la libertà di chi la indossa.

Nel momento in cui si manifesta, il rancore trova espressione nel male, che sia esso prodotto a danni di altri o di sé; un male che, gradualmente e in maniera inconsapevole, diventa parte della quotidianità di chi lo esercita. Il rancore è, insomma, una trappola che promette sicurezza in cambio della distruzione dell’individuo, del suo rapporto con gli altri e con la realtà.

Il rancore, oltretutto, induce la persona a trovare delle giustificazioni valide per poterlo sentire come un proprio diritto e questo porta a stravolgere l’esame delle cose (a volte, le ragioni che vengono accampate possono risultare comprensibili, ma valide non lo sono mai). Ma in definitiva, con o senza giustificazioni, il rancore è doloroso, fa star male, ci si sente pidocchi, per citare Dostoevskij.

Io, per esempio, sento di provare il timore di un confronto con mio padre; è una duplice paura: da un lato, c’è il rischio di sentirmi ferita per l’ennesima volta, un dolore al quale non saprei davvero come reagire; dall’altro, però, c’è il timore che invece il confronto porti a qualcosa di arricchente, a un punto in comune dal quale partire per costruire una relazione sana; vorrebbe dire dover ammettere con me stessa che mio padre non si merita il rancore che provo nei suoi confronti, e magari realizzare che non se lo è mai meritato. Spaventoso!

E intanto che scrivo, mi rendo conto di provare, oltre alla frustrazione, un fondo di ”simil soddisfazione” ogni volta che trovo giustificazioni al mio senso di tradimento da parte sua, giustificazioni che ho, appunto, timore di perdere dopo un dialogo con lui. Me ne vergogno, lo trovo orribile, è conseguenza dell’attaccamento al rancore di cui si è parlato recentemente al gruppo.

Eccolo un primo strumento per iniziare a sciogliere i nodi del rancore: nominare le cose rendendole più tangibili, trovargli una collocazione nella realtà; è il lavoro che si svolge al tavolo del Gruppo, che ciò derivi dal dialogo tra i vari componenti o dalla produzione di uno scritto sul quale, poi, confrontarsi insieme.

In relazione all’argomento in questione, si è parlato anche di bilance tarate male: in un conflitto, ogni persona coinvolta possiede una propria bilancia per pesare il “diritto alla vendetta” che il male inflitto e subito “autorizza”, e le due (o più) tarature non coincidono mai tra loro.

Credo che un altro strumento utile a slegare i nodi sia proprio un confronto, in un primo momento, sulle due bilance difettose, e, a seguire, la ricerca di una bilancia comune. É impossibile rinunciare al rancore nei confronti dell’altro se non ci si concede di interagirci, per comprenderlo e per tentare di farsi comprendere; non si può crescere scegliendo di rimanere all’oscuro del sentire dell’altro, sia il conflitto tra padre e figlia o tra istituzione e delinquente.

É dalla condivisione dei diversi punti di vista che nasce, poi, la possibilità di adottare una nuova bilancia, ben funzionante e leggibile per tutti.

Beatrice Ajani

Il diritto al rancore e il paradosso della mente ubriaca
Genitori e figli

I miei cento passi

Non ho memoria dei miei primi passi, ma ricordo la mano di mia madre che mi sosteneva; sapevo dentro di me che quella mano non mi avrebbe mai lasciato. Un giorno che non saprei descrivere smisi di camminare e incominciai a correre.

Sentivo una spinta interiore che mi spingeva a correre sempre più veloce. Sono passati gli anni e oggi ho solo un vago ricordo di cosa provavo quando smettevo di correre e riprendevo a camminare. Quei ricordi sono la mia vera vita vissuta. Camminando, assaporavo i dettagli del mondo che mi circondava, vedevo e sentivo le persone…

Ma erano solo pochissimi passi, poi l’urgenza di correre riprendeva senza che ne sapessi il perché. Sono cresciuto correndo all’impazzata senza comprendere il mondo che mi circondava, ma soprattutto senza capire perché correvo.

Poi in una pausa dalle mie corse sei arrivato tu, figlio mio. Assistere alla tua venuta al mondo è stato ed è ancora oggi il più grande evento della mia vita. Ma a quel tempo quella gioia è durata un battito di ciglia. Ripresi di nuovo a correre, ma questa volta le mie corse non erano più tanto frequenti e lunghe come le altre volte. Così ricordo bene il tuo respiro mentre ti stringevo forte, ti osservavo mentre dormivi, ti sussurravo di fare sogni belli che papà era lì con te. Ricordo i tuoi primi passi sostenuto da me e dalla mamma e quando andavi per casa con il girello.

Ed ecco che di nuovo quella maledetta spinta mi fa correre sempre più veloce. Stop! Mi hanno fermato, arrestato per l’ennesima volta. Ma questa volta c’eri tu e io ti ho abbandonato per correre. Ci sto male, sento di aver bisogno di aiuto per comprendere il mio male, ma l’orgoglio e l’arroganza, che insieme al rancore sono stati la mia quotidianità, non lo accettano.

Ma la stessa spinta inconsapevole che mi aveva fatto correre mi spinge adesso a cercare di capire, a chiedermi il perché. E così ho conosciuto il gruppo della trasgressione e il suo coordinatore. All’inizio non riuscivo a comprendere la mia nuova spinta, anzi cercavo con tutte le forze di respingerla. Ma per mia fortuna non ci sono riuscito e mese dopo mese diventava una mia nuova inconsapevole ossessione comprendere il perché delle mie corse.

Incominciai a non correre quasi più. Incominciai a camminare sostenuto dal gruppo e dal dott. Aparo e con loro cominciai a riconoscere che quella spinta che mi faceva correre aveva dei nomi ben precisi: dolore, rancore, arroganza, mancanza di punti di riferimento, cancellazione dell’altro. Ho compreso che le mie corse non erano altro che il risultato del mio disagio interiore e che il mio rancore mi portava dove voleva lui senza che io potessi impedirlo. Ero un burattino nelle mani dei miei stati d’animo.

Tu, figlio mio, sei stato, insieme alla mia voglia di vivere con te, quella fiammella che con l’aiuto di del gruppo mi ha permesso di fermarmi. Adesso il mio stato d’animo è sereno. Oggi cammino, vivo e mi incuriosisco della vita. Ora di fronte a me ci sono tante scelte e strade da percorrere… e non bastano cento passi. Nel mio futuro ci sono mille e poi ancora mille passi con te, figlio mio.

GENITORI E FIGLI

La lotta con il Leviatano

La lotta con il Leviatano
Alessandro Crisafulli

Non c’è dubbio: l’uomo ha la tendenza al tradimento. Spesso lo attua per negligenza, superficialità o perché assillato da incombenze che gli sottraggono tempo ed energie da destinare, ad esempio, al proprio figlio; altre volte tradisce inconsciamente, adottando un comportamento che ha origine dal tradimento che a sua volta ha subìto. Ma c’è anche chi tradisce colpevolmente, con spirito vendicativo, nella convinzione che è arrivato il momento di far provare agli altri le sofferenze che ha patito. Come dice il dott. Angelo Aparo, “In ogni criminale c’è un bambino tradito che desidera proiettare sugli altri il proprio dolore”.

Poiché quasi sempre il tradimento è stato perpetrato da persone dalle quali ci aspettavamo amore, protezione e considerazione, tornare a fidarsi è un’impresa titanica. Ritengo, infatti, che finché non si instaura un rapporto sempre più intimo e profondo con la propria coscienza, quella sorgente luminosa che in assenza di grossi traumi ci infonde la saggezza per discernere il bene dal male, sia impossibile liberarsi dell’impronta originaria del tradimento. Se si desidera trasformare i tradimenti, bisogna farsi coraggio e aprire le porte che da troppo tempo teniamo sigillate. I traumi dell’infanzia causano cicatrici indelebili che contribuiscono alla creazione di una personalità malata, incapace di affrontare le sfide della vita tenendo conto dei limiti necessari alla convivenza civile.

Non c’è bisogno di una laurea in psicologia per comprendere che tutto ciò che ci ha fatto soffrire e che non siamo stati capaci di elaborare, non è magicamente scomparso solo perché abbiamo fatto finta di nulla; quei dolorosi pezzi di vita violati sono finiti nell’inconscio, quel mondo sotterraneo e pericoloso che sembra abbia vita propria. L’inconscio è come una polveriera, basta un evento per innescare una reazione a catena in grado di provocare danni enormi.

Dopo molti anni di introspezione, ho imparato ad ascoltare il mio dolore; qualche volta, in un atteggiamento quasi masochistico, sono arrivato a crogiolarmi nella sofferenza provocata dai ricordi della mia infanzia, nella convinzione che questa fosse la maniera per depotenziare la carica negativa che è insita in ogni tradimento. Infatti, penso che solo dialogando con il male si possa trovare la chiave per rinnovarsi, ma per farlo occorre uscire dalla spirale distruttiva che il tradimento inevitabilmente porta con sé. Come affrontare, allora, questo Leviatano che ci impedisce di vivere in armonia con noi stessi e che quotidianamente esige che gli sacrifichiamo nuove vittime?

Come dice Jung: “Non ci si illumina immaginando figure di luce ma dialogando con le tenebre”. Tanto per iniziare, occorre divenirne consapevoli. Naturalmente non ci sono formule alle quali rifarci: ognuno deve seguire la strada che gli viene indicata dalla propria voce interiore. Personalmente, dopo aver rovistato per anni in solitaria tra le macerie del mio passato, mi sono reso conto che da solo non ce l’avrei fatta a superare i miei traumi: da soli si muore dentro. Pertanto ho iniziato a cercare alleati con i quali potevo condividere il mio fardello e, contemporaneamente, ascoltare le loro storie, perché è soprattutto grazie alle relazioni con gli altri che si può fare luce su episodi della nostra vita che, a causa della sofferenza che ci hanno procurato, vengono seppelliti nell’inconscio.

Avendo deciso di smettere di vivere con superficialità, ho incontrato molte persone disposte a questo salutare scambio. Sono certo, però, che  i primi  risultati  importanti  che ho raggiunto sono stati possibili grazie al profondo supporto che molti anni fa ho ricevuto da due psicologi, la dott.ssa Pasci e il dott. Giacci, i quali mi hanno tenuto per mano in questo necessario percorso a ritroso infondendomi il coraggio che mi ha permesso di rintracciare le origini del tradimento che ho subìto da mio padre, il quale non solo non voleva che nascessi ma è arrivato al punto di non rivolgermi, sostanzialmente, la parola finché non sono diventato un criminale…come voleva lui… Non è un tradimento questo?!

Ho portato questo enorme macigno per una vita; il peso era così reale che sino a una decina di anni fa avevo un blocco al plesso solare. Naturalmente a quei tempi non ne ancora ero consapevole; tale disvelamento, come ho detto, non sarebbe stato possibile senza il lavoro, durato un anno e mezzo, fatto assieme agli psicologi, ai quali sarò per sempre grato. Solo successivamente sono stato in grado di mettere a fuoco anche i molti tradimenti da me commessi ai danni di un’infinità di persone alle quali ho tolto la gioia di vivere.

Ritengo che solo bonificando il tradimento una persona possa reinserirsi, come cittadino, nella società. Tentare di rielaborare il passato cercando di comprendere e, soprattutto, accettare i propri sentimenti e pensieri dell’epoca, è certamente un’impresa ardua, ma il sacrificio ne vale assolutamente la pena poiché in palio c’è la prospettiva di vivere un’esistenza all’insegna della costruzione e del piacere costante che da essa deriva.

Ma la svolta decisiva è certamente avvenuta nove anni fa, quando ho incontrato sulla mia strada quello che definisco il mio gruppo di appartenenza: il Gruppo della Trasgressione, il quale oggi per me rappresenta un’oasi di tranquillità in un deserto di incertezza. In questo gruppo mi sento libero di aprirmi completamente e, grazie al continuo stimolo dei miei compagni e, in particolare, del dott. Aparo, ho rintracciato vicende del mio passato che giacevano nei recessi più bui dell’inconscio. In questo gruppo ho maturato la consapevolezza che la perfezione non fa parte dell’uomo; anzi, è proprio grazie all’imperfezione che abbiamo la possibilità di crescere ed evolverci, perché accettandola ci predisponiamo ad includere nella mente le diversità che rendono ricco e variegato il nostro viaggio esistenziale.

Oggi sono cosciente che l’infanzia mi è stata negata; per sopravvivere a ciò mi sono costruito una prigione nella quale mi sono illuso di essere protetto: in realtà, ho solo seppellito le mie emozioni. Ma da quando ho deciso di riprendermi la mia vita, tutti i sentimenti che ho negato sono tornati in superfice, esigendo l’attenzione che non è stata loro dedicata a suo tempo. Continuare a negare questi bisogni sarebbe folle, perché perderei l’opportunità di continuare il cammino evolutivo che è alla base dell’esistenza e da cui scaturisce quella meravigliosa sensazione che mi fa sentire in armonia con tutto quello che mi circonda.

Io non sono padre, ma ritengo che questo cammino possa aiutare chi lo è a spezzare definitivamente la catena familiare, quella coazione a ripetere che ti zavorra e che inconsciamente ti porta a trasmettere ai figli i tradimenti subìti e i peccati commessi.

Note sul suicidio

Quando ci si uccide, spesso lo si fa per colpire un nemico:

  • la propria morte per punire qualcuno che si odia e nei cui confronti ci si sente impotenti;
  • la propria morte per uccidere una parte interna che opprime il soggetto e gli impedisce di formulare un progetto evolutivo.

I propositi di suicidio aumentano via via che il soggetto subisce la perdita delle sue funzioni e si trova a vivere in un presente senza progetti attendibili, senza un futuro nel quale riconoscersi. Il suicidio è un tentativo estremo di mantenere una propria libertà decisionale quando tutto sembra deciso da altri. Al nemico esterno il suicida dice: “Tenetevi pure il corpo ch’è diventato vostro, io me ne vado“;  al nemico interno: “Non ti permetterò di portare avanti la tua tortura“.

In Italia la legge prevede che la pena debba tendere al recupero del condannato, ma in carcere muoiono ogni anno per suicidio una cinquantina di persone, una percentuale molto più alta della media nazionale. Uno Stato che non prevede la pena di morte, ma che d’altra parte mantiene condizioni nelle quali un numero così alto di detenuti si dà la morte, fallisce nel proprio obiettivo e, in un certo senso, opera in direzione opposta a quella che persegue.

A volte i bambini, non sapendo come farsi valere o riconoscere, picchiano la testa contro il muro per protestare contro i genitori; la loro fantasia è che farsi del male equivalga a scagliare la propria rabbia contro un capitale di proprietà dei genitori: il bambino lo attacca e aggredisce se stesso per punirli! In carcere accade spesso che un detenuto si procuri tagli su tutto il corpo così da richiedere a volte anche più di cento punti di sutura: lo si fa per chiedere ascolto, ma molto spesso anche solo per “punire” chi non ascolta.

A volte si pensa che un ambiente fisico più vivibile possa giovare alla prevenzione del suicidio, ma le sue cause principali non sono le difficoltà ambientali o la carenza di spazi; ci si suicida perché il rancore verso gli altri e verso se stessi riduce lo spazio interno e le spinte creative personali e annienta progressivamente la fiducia che ci possa essere un diverso domani.

Di fronte al suicidio, l’istituzione spesso reagisce tentando di intensificare il controllo, ma il controllo è una delle cause del suicidio. Impedire all’aspirante suicida la possibilità di portare a compimento il suo proposito non equivale a bonificare le fantasie di auto soppressione. Investire energie e soldi sul controllo è fatica sprecata, tanto più se si considera che hanno breve durata. Meglio investire su iniziative utili ad alimentare la volontà di vivere!

Il suicidio si previene con un ambiente che restituisca alla persona la possibilità di esprimere la propria rabbia verso gli altri e verso se stessi e con dei mezzi e delle attività che permettano di recuperare la fiducia in sé e nelle proprie potenzialità.

Infine, di fronte alla irreparabilità di una morte oramai avvenuta, è utile ricordare che ci si suicida in un momento, ma ci si toglie lo spazio per vivere a poco a poco. E’ doveroso per le istituzioni e per il soggetto mettere a fuoco che al suicidio si giunge solo come momento finale di un percorso, una serie di gradini che si salgono o si scendono a seconda del modo di procedere sia del soggetto sia dell’ambiente in cui egli vive.

Al Gruppo della Trasgressione il tema del suicidio è stato più volte oggetto di dibattito e di scritti. Nel 2003 il dott. Luigi Pagano, allora direttore di San Vittore, propose al gruppo di svolgere per un certo periodo la funzione di Peer support nelle celle a rischio e qualche anno fa la dott.ssa Manzelli, direttrice del carcere di San Vittore, aveva invitato il gruppo a partecipare a un convegno sul tema del suicidio per dire la propria. In entrambi i casi molti detenuti del gruppo seppero farsi onore.

Credo che i detenuti possiedano un capitale di conoscenze che merita di essere valorizzato e sfruttato, meglio se in progetti da portare avanti in collaborazione con le autorità istituzionali.

Non è necessario che i progetti abbiano espressamente a che fare con il suicidio; L’esperienza dice che qualsiasi progetto costituisce un’ottima prevenzione per il suicidio e un buon antidoto alla rabbia incendiaria che il tempo del carcere di solito non spegne.

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Incontro sul suicidio

L’incontro di mercoledì 3 novembre 2010, avvenuto nella Casa di Reclusione di Opera, ha permesso a 14 detenuti provenienti da 3 diverse aree del Gruppo della Trasgressione di riflettere insieme sul tema del suicidio. E’ doveroso, oltre che motivo d’orgoglio per tutto il gruppo, riferire che le riprese TV sono state possibili grazie alla professionalità del dott. Mimmo Spina, alla volontà del dott. Luigi Pagano, Provveditore regionale della Lombardia, del dott. Giacinto Siciliano, direttore del carcere di Opera, del capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, dott. Franco Ionta.

I membri del Gruppo della Trasgressione presenti erano: Francesco Ranieri, Rosario Giuliano, Alessandro Crisafulli, Mullah Genti Arben, Salvatore Morabito, Giuseppe Carnovale, Antonio Tango, Giovanni Crisiglione, Antonio Catena, Bruno De Matteis, Massimiliano De Andreis, Gualtiero Leoni, Gabriele Tricomi.

I protagonisti della giornata, a due settimane dall’incontro, rimangono fieri di essersi impegnati, di aver saputo integrare i loro interventi (essendo membri di gruppi diversi, molti di loro si vedevano per la prima volta quel giorno), di aver potuto vivere un’esperienza non comune: collaborare con le forze istituzionali per un obiettivo che ha permesso facilmente di abbattere i confini di categoria.

Riassumendo, i detenuti hanno detto che il suicidio:

  • è l’ultimo atto di un percorso nel quale si riduce gradualmente la possibilità di guardare con fiducia al proprio domani;
  • è la fuga per la libertà da una tortura sempre più insopportabile, pur se condotta dal soggetto ai danni di se stesso;
  • è favorito dalla difficoltà di tollerare, con la consapevolezza dell’oggi, la viltà del proprio passato, a maggior ragione quando la persona sente di aver perso la possibilità di rinnovarsi e vive un senso d’oppressione così invalidante da volerne fuggire ad ogni costo.

Il Gruppo della Trasgressione, dopo mesi di confronto sul tema, conclude che, in un grande numero di casi, il suicidio può essere inteso come l’atto finale di una tirannia esercitata per anni ai danni di se stessi, un gesto con cui l’oppressore e l’oppresso raggiungono un accordo paradossale e drammatico: attuare il volere del tiranno e, allo stesso tempo, sottrarsi alla sua tirannia.

Chi entra in carcere dopo anni di pratica deviante porta dentro un despota che non ha voglia di cedere le armi con cui negli anni dell’ubriachezza ha squalificato le proprie componenti più sane. Per poterlo fare ha bisogno di trovare all’interno dell’ambiente istituzionale alleanze capaci di sostenere e rinvigorire le componenti che, pur se per propria responsabilità, avevano avuto la peggio. Non è facile, ma è possibile; ed è quanto dice la Legge.

I detenuti, nel corso dell’incontro, non hanno mai preso la strada più facile, cioè quella di delegare ad agenti esterni la responsabilità del gesto suicidario, e hanno dato, invece, prova tangibile di quanto un ambiente appropriato e un buon tavolo di confronto possano motivare a cercare dentro di sé le ragioni del proprio malessere invece che espellerle.

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Legami profondi

Gratitudine e rancore. Che strano binomio! Questo il mio pensiero quando tale binomio è stato proposto per la riflessione. Mi sfuggiva il legame esistente tra i due termini.

Mi sono addentrata nella ricerca del significato della parola rancore e ho scoperto che la dinamica di relazione tra due persone tra le quali intercorrono episodi ripetuti di gentilezze e favori ricevuti presenta risvolti inaspettati e reazioni non necessariamente benevole.

Una gentilezza compiuta a favore di qualcuno che non l’ha richiesta può suscitare disappunto. La gentilezza può aver luogo, infatti, solo se c’è una mancanza in cui inserire l’azione, un bisogno più o meno esplicito che la giustifichi. Alle volte dunque, la gentilezza può essere percepita come una sottolineatura della mancanza, dell’incapacità di affrontarla della persona che ne fruisce. Un esempio banale ma efficace può essere quello di chi cede il posto a sedere sul tram a una persona che secondo il cedente ha più bisogno di stare seduta di lui. Ma compiendo questa gentilezza il cedente sottolinea la mancanza che vede nella persona omaggiata: mancanza di energia, mancanza di gioventù. La sua gentilezza può risultare sgradita. Insomma la gentilezza, quando non richiesta, se continuamente reiterata, può generare rancore invece che gratitudine.

Quando poi, leggendo Rainer Maria Rilke, mi sono imbattuta in una poesia sul figliol prodigo, ho compreso che il poeta aveva invece intuito la possibile problematicità nella relazione tra chi ama non richiesto e l’amato. Ciò mi ha costretto a pensare al significato della parabola e ad ammettere che, in fondo, non l’avevo mai veramente capita.
Non avevo capito la fine, con questa festa esagerata per accogliere un ingrato, né tanto meno l’inizio. Perché il figlio abbandona la casa paterna? La parabola non lo spiega.

Rilke propone una chiave di lettura che mi sarebbe parsa sconcertante prima della mia ricerca: il figlio se ne va, perché non vuole essere amato.
E perché non vuole essere amato? Forse perché non ha chiesto lui di essere generato. Forse perché essendo amato si sente privato di una porzione di libertà in quanto deve ricambiare, deve essere grato. Alla luce di questa interpretazione la parabola acquista finalmente un senso compiuto.
Il figlio che abbandona la casa paterna non è capace di gratitudine. Il figlio che ritorna l’ha imparata.

Il padre che lo amava all’inizio in quanto figlio, continua ad amarlo quando ritorna, ma forse con la festa grande non celebra solo il ritorno del figlio perduto ma la sua acquisita capacità di dire grazie, di provare gratitudine per l’amore ricevuto e non rancore.

Gratitudine e Rancore

Gratitudine e Rancore è il tema del nostro prossimo convegno.

Parlandone col dott. Aparo, ho pensato di mettere a confronto, per quella occasione, da una parte alcune immagini mie e di mio figlio e dall’altra la Medusa, una scultura che vedo al cimitero monumentale di Milano dove lavoro.

Ogni volta che la guardo, mi sento guardato e mi ricordo che il rancore pietrifica la crescita.

Io ero in balìa del rancore e lo usavo come una corazza per tenermi distante dagli altri e dai miei bisogni più intimi. Il risultato è stato che per anni mi sono sentito solo e ho rischiato di lasciar crescere da solo mio figlio Michael. Grazie al lavoro fatto in questi anni col gruppo, oggi sento che posso vivere anche senza quella corazza.

Auguro a tutti buon Natale e un felice anno nuovo e soprattutto un futuro ricco di legami e di gratitudine.

Antonio Tango