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Abuso e Assuefazione
Hannah Arendt parla di “banalità” del male, mentre racconta l’operato di Eichmann, gerarca nazista al tempo dell’Olocausto, che riesce a commettere turpi atrocità continuando a pensare di essere nel giusto: dal suo punto di vista, egli non faceva altro che “rispettare le regole impartite dall’alto”.
La Arendt lo dice chiaramente: Eichmann non è altro che un burocrate che ha smesso di pensare, non riuscendo più a distinguere fra i valori che favoriscono la crescita delle persone e le ideologie che distruggono la dignità umana, pur se a volte si nascondono sotto una parvenza di legalità.
In fondo Eichmann non faceva altro che far tornare i conti: egli era uno “specialista” nell’organizzare il traffico ferroviario. Nella sua mente diceva a se stesso che il suo compito era solamente quello di muovere treni, mica di uccidere persone! Ed era anche bravo nel proprio lavoro, adempiva diligentemente ai propri “doveri”, quelli assegnatigli dalle autorità.
Mentre Eichmann aderisce completamente all’autorità del momento, il film mostra parallelamente il faticoso tentativo della Arendt di sottrarsi dallo scrivere quello che tutte le sue autorità di riferimento (il redattore del giornale, il preside dell’università dove insegna, i suoi vecchi amici) vorrebbero lei scrivesse: ovvero che Eichmann è un demone, un perverso e malvagio assassino senza scrupoli né coscienza. Ma lei non ci sta e, contro tutti, continua a battersi per ciò in cui crede: Eichmann, più che un “Mostro”, era un Signor Nessuno che, come tanti altri, eseguiva senza porsi troppe domande i compiti che gli erano stati assegnati.
Così, con il suo esempio, la Arendt ci mostra quanto sia difficile opporsi all’autorità, per il potere che l’autorità stessa esercita su di noi. È difficile mantenere la mente aperta al dialogo anche in un paese libero, figuriamoci in una dittatura quale è stato il nazismo.
Ma ciò che ci colpisce è che per Eichmann “opporsi all’autorità” non è nemmeno un’alternativa possibile. Egli non arriva neppure a porsi le domande: “Stiamo sbagliando qualcosa?”. “Sono responsabile?”. Imperturbabile e senza dar segno di sentirsi in alcun modo colpevole, ripete durante tutto il processo: “Io sono nel giusto, non ho fatto altro che eseguire gli ordini, ho adempito alle mie responsabilità”.
Centrale quindi è il tema dell’Autorità. Sembra sia fondamentale possedere prima di tutto un’autorità interiore che faccia da modello, da sestante, da guida, per orientarsi nella realtà e poter così distinguere sul nostro cammino le Autorità che ci chiamano a crescere dai falsi miti onnipotenti che si spacciano per autorità, ma che non hanno alcun interesse per la nostra crescita o evoluzione, e al contrario ci seducono attirandoci su scorciatoie dalla vita breve.
Questo ci porta ad interrogarci sulla “funzione” dell’autorità. Dopo diversi anni di frequentazione col Gruppo Trsg, mi sembra di poter dire che quando l’autorità è cieca, sorda e incapace di rispondere alla propria funzione, due sono le reazioni possibili:
- da una parte ci si arrabbia e ci si oppone, si attacca l’autorità e la si disconosce, smettendo così di sentirsi responsabili verso tutte le Istituzioni che quell’autorità deludente rappresenta;
- dall’altra parte, invece, si inserisce il pilota automatico quale potente “anestetizzante” della coscienza: progressivamente si mette a tacere la mente e si spegne il pensiero. Ancora una volta smettendo di sentirsi responsabili. Delusione e paura spesso contribuiscono a questa progressiva assuefazione, che è in grado di trasformare un “essere umano pensante” in un “automa manovrabile”.
Ma quand’è che l’Autorità ci induce a farci carico delle nostre responsabilità invece che a disconoscerle?
Al Gruppo della Trasgressione abbiamo avuto la possibilità nel tempo di imparare a riconoscere le due funzioni dell’autorità: non solo quella di “punire” e “misurare” quanto grave deve essere la punizione, ma anche e soprattutto quella di “orientare”.
Tanto più, quindi, l’Autorità svolge il proprio ruolo di contenimento e orientamento, ampliando così i nostri orizzonti e rendendoci più “liberi” di coltivare i valori che danno dignità agli esseri umani, tanto più sapremo di trovarci di fronte a un’autorità positiva e autentica. Al contrario le autorità ingannevoli, che ci inducono su una strada che porta a restringere progressivamente i nostri orizzonti, sono facilmente riconoscibili perché ci illudono con facili gratificazioni, ottenibili senza alcun lavoro o fatica; oppure si impongono con la forza, quasi sempre spacciandosi come invincibili e onnipotenti ed essendo nei fatti più autoritarie che autorevoli.
A volte diverse autorità di segno opposto convivono dentro di noi, entrando in conflitto tra loro e costringendoci a scegliere tra il combattere per mantenere vivo il dialogo con la nostra coscienza e lo spegnere il pensiero, favorendo l’assuefazione a ideologie e fantasticherie ingannevoli, che si propongono come facili e allettanti surrogati dei nostri valori.
Il Gruppo della Trasgressione è un laboratorio che ci ha permesso di lavorare a lungo su questo tema. Il mito di Sisifo, attraverso il dialogo tra Sisifo e Asopo, ci ha insegnato a riconoscere e a rielaborare la reazione di opposizione, rabbia e misconoscimento reciproco che provocano le autorità assenti e incoerenti. Sisifo si arrabbia con Asopo fino all’arroganza di farlo inginocchiare, in quanto vede in lui un padre che lo ha lasciato senza acqua e senza cure. Ma alla fine egli diventa anche consapevole che la sua rabbia e il suo ostinato opporsi alle Istituzioni, per via di quella grande delusione subita, lo porteranno solo a ripercorrere all’infinito i propri errori.
Il film della Arendt mi ha fatto però riflettere su quanto sia importante lavorare anche sulla seconda reazione possibile di fronte ad un’autorità deludente: quella del “pilota automatico”, del “burocrate senza pensiero”, dell’assuefazione all’onnipotenza.
Il dialogo tra Asopo e Zeus si presta bene a questo scopo. Asopo, nella nostra versione del mito, sembra aderire senza alcun pensiero critico alle seduzioni dell’onnipotente Zeus, che vende illusioni e si vendica crudelmente contro chi osa disobbedirgli, che esercita il potere utilizzando l’Olimpo come territorio di sua proprietà esclusiva.
A mettere in crisi Asopo, assuefatto e acritico verso gli abusi del potere, è solo la constatazione che adesso gli abusi di Giove riguardano proprio sua figlia Egina. Prima di questo, tutto il dialogo con Sisifo, è una evidente dimostrazione di come possa prodursi una progressiva distanza fra potere e attenzione ai bisogni e alla prossimità dell’altro.
Tiziana Pozzetti
Sliding doors
Anche se non mi è stato possibile partecipare le ultime due volte, ho visto i film delle ultime settimane. Immagino che la discussione sul film di Cucchi sia stata interessante. A me aveva colpito la totale mancanza di fiducia di Stefano nelle autorità, anche in quelle che hanno provato autenticamente a tendergli una mano.
Abbiamo anche visto La terra dell’abbastanza, il film per l’incontro del 6 luglio. Mi sono persa alcune frasi che, a causa della parlata dialettale, non sono riuscita a decifrare. Ad esempio quando banchettano tutti insieme e il boss sceglie i due ragazzi perché loro “non hanno consapevolezza”, poi conclude con una frase che mi è sfuggita.
Alcuni dei film che stiamo vedendo, sia questo che L’Odio, mi lasciano un senso di angoscia; dentro, mi sembra manchi il pezzo dell’alternativa. Se potessimo pensare ad una sorta di “sliding doors”, dove la potremmo collocare nel film? Quando il padre dà il consiglio sbagliato? O prima ancora? Forse lì era già troppo tardi? Quando nasce la “consapevolezza” e di cosa si nutre?
Mirko, il protagonista, mi ha ricordato tante persone che conosco. Un ragazzo, Leonardo, ha fatto l’alberghiero come Mirko e viene da una situazione familiare difficile. Guardando il film, mi sono chiesta cosa avrebbe fatto Leo al posto di Mirko: sarebbe tornato indietro con la macchina dopo avere investito un uomo? Avrebbe poi accettato di seguire il suo amico nel clan?
Chissà quanti ragazzi in qualche momento della loro vita si sono trovati di fronte a un bivio simile a quello in cui si è imbattuto Mirko! Ma alla fine qualcuno va di qua, altri di là. Perché? In fondo, anche Leonardo ha vissuto quotidianamente la notte dei locali e delle discoteche, dell’alcol che scorre a fiumi e delle droghe.
Beh, non lo so perché, ma sta di fatto che Mirko e Leonardo hanno preso strade diverse. Questo per dire che un’alternativa possibile quasi sempre c’è. Penso che a volte abbiamo bisogno di storie che parlino delle alternative, di dove trovarle e come coltivarle.
Tiziana Pozzetti
Prima e oltre il confine
Oggi ho parlato del Gruppo della Trasgressione e mi è venuta voglia di rivedere il documentario che ha realizzato Sofia alla scuola di giornalismo. Al di là dell’emozione, di rivedere facce amiche, ci sono stralci di importanti esperienze del Gruppo contenute in questo video. Ci sono i detenuti con i loro racconti, soprattutto degli incontri con i ragazzi nelle scuole, l’esperienza dell’ARTE con Stefano Zuffi, la musica in sottofondo, con la voce del Prof….
Però quante cose mancano! Mi ha fatto emozionare sentire i detenuti parlare della “mancanza di un gruppo esterno”, e poi questo Gruppo è arrivato. Sentirli credere davvero nel progetto della Cooperativa e della bancarella “frutta e cultura”.
Questa cosa mi ha emozionato più di tutte. In questo video la cooperativa era solo un’idea, oggi, a distanza di 10 anni, esiste nella realtà e incide sulla vita delle persone.
Forse questa è il più grande insegnamento che ho tratto dal Gruppo della Trasgressione e dal Dr. Aparo: tollerare che un’idea impossibile diventi possibile nel tempo, lavorandoci un poco per volta, con costanza, nonostante le difficoltà, passo dopo passo, nella consapevolezza che quei passi sono guidati dal fatto stesso di avere un’idea in cui crediamo, che ci motiva.
Era successa la stessa cosa con Sisifo. Io c’ero quando abbiamo iniziato in quel tugurio dell’ultimo piano della sezione giovani adulti di San Vittore, a cui si accedeva da quella scala a chiocciola angusta che partiva da metà corridoio.
Io non ci credevo che ce l’avremmo fatta. Sembrava tutto troppo difficile. Sembrava un’impresa impossibile, in quelle condizioni lì, con quelle persone lì, con quelle risorse lì. Niente giocava a nostro favore! Sinceramente Prof., dopo tanti anni posso dirglielo, quando aveva proposto di parlare di mitologia con quei 4 detenuti sgangherati, che cambiavano ogni 4 giorni, che non avevano esperienza del Gruppo e non avevano certo lo spessore che posseggono i detenuti che frequentano il Gruppo da tanti anni e a cui eravamo abituati, beh io ero certa che la cosa avrebbe avuto vita breve.
E invece poi guarda cosa è successo con Sisifo! Una delle esperienze più belle del Gruppo: in tour tra scuole e teatri! Beh questa parte un po’ nel video c’è. Ma oggi ci sarebbe ancor più materiale!
Forse sarebbe ora che uscisse la seconda puntata di questo documentario. Una nuova giovane Sofia che frequenta un corso di giornalismo non l’abbiamo?
C’è anche un’altra cosa che manca in questo video, che in tanti anni di Gruppo è stata per me l’idea più esilarante e straordinaria: l’Officina della 4S! Anche in questo caso nel video è contenuto il seme di ciò che poi sarebbe diventato, quando Prof. dice: “Il modo per appagare l’uomo con storie che non siano di Soldi, Sangue e Sesso c’è”, beh quel modo per noi è diventato la quarta S: lo Sviluppo. L’articolo “Mente Libera” di Antonio Tango sul Giornale del Falso, penso sia una delle cose più spiritose, geniali e contemporaneamente profonde che abbia mai letto.
E poi manca anche tutta l’esperienza con Cajani e gli scout… e chissà quante altre cose che non mi vengono in mente ora.
Inoltre, so Prof. che per questo lunedì mi toglierà la parola, ma la versione di A Cimma che canta alla fine di questo video mi piace di più di quella che mi ha mandato!! Certo in quella che mi ha inviato la parte iniziale di Cisky è molto bella, ma la canzone è più chiusa, mi sembra più triste e cupa rispetto alla versione del video, che invece trasmette apertura e speranza! Mi piacerebbe avere la versione di questo video, che per me è la versione originale!
Tutto questo per dire che vorrei condividere anche con le persone del gruppo che sto conoscendo adesso e con i miei attuali colleghi di lavoro i 28 minuti del video di Sofia, che rende meglio delle mie parole il cammino del gruppo.
Chissà perché prima che inizi il video c’è un buio interminabile, forse perché inizia da una Storia sbagliata…
L’insulto – male e realtà
L’INSULTO – male e realtà
Tiziana Pozzetti
Siamo a Beirut e due uomini, Toni, Libanese, e Yasser, rifugiato Palestinese, entrano in conflitto per un incidente apparentemente banale: un tubo che si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato. Il diverbio potrebbe risolversi velocemente, ma ad un certo punto arriva l’insulto. Yasser guarda Toni e, puntandogli il dito contro, con disprezzo dice: “Sei un cane”.
Ora, la mia domanda è: siamo sicuri che Yasser stia veramente insultando Toni? E quando Toni denuncia, sta denunciando Yasser?
Con lo scorrere del film diventa sempre più evidente la cecità dei personaggi: Toni e Yasser non vedono l’altro per ciò che egli è veramente, ma per ciò che l’altro rappresenta per loro. La realtà di oggi viene interpretata, quindi, non per quello che è, ma sulla base del male subito nel passato: un insulto ancora vivo, che ha il potere di cambiare il modo in cui i due uomini vedono le cose, di far scivolare progressivamente le loro azioni verso un’orizzonte sempre più ristretto.
Se all’inizio del film si tratta di un banale incidente, che tutto sommato lascia loro la libertà di scegliere quale direzione prendere, alla fine diventa una questione di stato talmente grande che sfugge dalle mani dei protagonisti, i quali non possono nemmeno più scegliere di tirarsi indietro.
A quel punto, infatti, ogni scelta è gravida di conseguenze: porti avanti il processo? Distruggerai una famiglia. Rinunci? Sarai uno sporco traditore della patria.
Ma mentre le piccole scelte che i personaggi compiono ogni giorno li portano piano piano, e quasi senza rendersene conto, attraverso un imbuto sempre più stretto che si incunea progressivamente nell’oscurità del loro rancore, Toni improvvisamente sceglie di fermarsi. Scende dalla propria macchina e aiuta Yasser a rimettere in funzione la sua. Una piccola scelta, apparentemente banale, ma che in qualche modo orienterà il futuro di entrambi.
Il film sembra dirci qualcosa: al timone delle piccole scelte di ogni giorno, ci siamo noi. Dunque possiamo scegliere se usare le nostre competenze da meccanico per manomettere la macchina dell’avversario, oppure per aiutarlo a restare in gioco. Toni sceglie, e si percepisce che in quel momento del film accade qualcosa di diverso, di importante. Quel gesto all’improvviso squarcia l’oscurità che progressivamente stava avvolgendo i personaggi e riporta la luce, permettendo a Toni, forse per la prima volta, di vedere Yasser per ciò che realmente è: un uomo, non un nemico.
Perché è questa la verità: per tutta la parte iniziale del film Toni guardando Yasser vede il persecutore della sua famiglia. E quando Yasser di notte va fuori dalla sua officina e lo provoca fino a farsi dare un pugno, gli sta facendo un importante regalo: la possibilità di chiudere i conti con il passato.
Infatti, a chi ha dato quel pugno Toni? A Yasser veramente? O al nemico che tanti anni prima ha perseguitato la sua famiglia? O ancora a quella parte di sé che oggi rappresenta quel nemico? Perché se ad un certo punto inizi a vedere nemici dappertutto, anche in chi stava solo cercando di aggiustarti un tubo, allora forse quel nemico non è lì sotto al tuo balcone, ma è dentro di te, indissolubilmente legato a ciò che sei diventato, tanto da determinare le tue scelte e azioni.
Se questo è vero, Toni sferrando un pugno a Yasser non colpisce solo un uomo o un palestinese, ma sferra finalmente un pugno al passato che lo perseguita. Un passato che lo ha maltrattato, umiliato, privato dei suoi affetti, cacciandolo dalla propria casa come un “cane”. È quel passato che lo ha insultato, e non gli ha mai chiesto scusa.
Yasser però, dopo aver incassato il pugno, non risponde nello stesso modo in cui il passato di Toni ha sempre risposto. Risponde in un modo nuovo: gli chiede scusa. Chi guarda il film, in questo frangente ha la netta percezione che un conto in sospeso sia stato finalmente regolato. Tra i due personaggi certo ma, ancora più importante, tra ciascun uomo e il proprio passato.
Questo è il paradosso della coazione a ripetere: facciamo di tutto per rivivere esattamente quel passato che ci ha umiliato, eppur tuttavia speriamo che la storia abbia un epilogo differente questa volta. In pratica torniamo al male nella speranza di poterne estrarre il bene. Raramente però le persone a cui abbiamo dato un pugno hanno voglia di invitarci a cena, o di chiederci scusa.
Eppure Yasser nel film lo fa: viene insultato e denunciato ma torna per restituirgli la possibilità di ricevere finalmente quelle scuse che Toni da tanto, e ormai irragionevolmente, pretendeva di diritto. Perché Yasser si comporta così? È tutto merito delle micro-scelte!
Torniamo un attimo alla scena precedente, alla macchina in panne ferma nel parcheggio, con Yasser fermo lì impotente e chino sopra il cofano, non sapendo dove mettere le mani. L’impotenza è qualcosa che da sempre fa parte della sua vita. Scappato dalla propria casa, rifugiato in un paese dove viene declassato ad un ruolo lavorativo inferiore a quello per cui si era formato e che gli spetta, impossibilitato a trovare un lavoro ufficiale e costretto a dipendere dai favori altrui. Lui la frustrazione e l’impotenza le conosce bene, perché per tutta la vita si è sentito dire “ti lascio a casa perché è troppo rischioso assumerti”.
Quindi, all’inizio del film, quando Yasser dà del “cane” a Toni, cosa vede veramente in lui? Un uomo o un nemico che continua a distruggere i tubi che lui costruisce con sudore e fatica? In verità Toni rappresenta per lui un paese che non riconosce il suo valore e la sua identità. Quindi, quando Toni torna indietro per aiutarlo a far ripartire la sua macchina, sembra che stia facendo un piccolo gesto apparentemente banale, ma ha l’effetto potente di far sentir Yasser visto, riconosciuto, accolto da quel paese da cui aspirava da sempre di essere accettato.
Così, alla fine, scopriamo che i personaggi non stavano combattendo l’uno contro l’altro, ma ciascuno lottava contro i proprie demoni e, dietro ai gesti e alle parole, in un luogo più intimo e profondo, stava avvenendo qualcosa di importante per entrambi: uno scambio simbolico, che ha consentito a ciascuno di chiudere i conti con la propria storia e ricominciare a vedere l’altro per ciò che è realmente e non più come il “nemico” del passato, il cui insulto ci ha procurato una ferita talmente traboccante di rancore da avere il potere di tenere in ostaggio il nostro presente e di tenere in un’incubatrice, in sospeso tra la vita e la morte, il nostro futuro.
Ora, cosa c’entra il film con me, te e tutti noi?
Lo “scambio simbolico” ci riguarda tutti perché nessuno può crescere da solo. Per crescere abbiamo bisogno di qualcuno che ci guidi in modo accogliente e progressivo verso le nostre mete.
Facciamo alcuni esempi. Prendiamo un uomo che ha commesso un reato e mettiamolo in una cella. Potrà crescere? Potrà evolvere stando lì alla sola presenza dei muri, delle sbarre e dei propri fantasmi? Facciamo un altro esempio. Prendiamo un bambino e mettiamolo in una stanza piena di giochi, potrà crescere se lasciato da solo? Per quanto quei giochi siano stati creati per potenziare le sue capacità, non serviranno a niente al nostro bambino se nessun adulto si siederà accanto a lui per fargli vedere come si usano quegli strumenti.
Tutti, a tutte le età, siamo quell’adulto e quel bambino.
Abbiamo il compito di riconoscere le spinte problematiche che si agitano dentro di noi e con cui abbiamo bisogno di imparare a comunicare, per diventare a nostra volta adulti e una guida per gli altri. Un po’ come fanno i detenuti quando portano l’elaborazione dei loro vissuti e delle loro esperienze nelle scuole, nell’ottica della prevenzione al bullismo.
Ma non dobbiamo neanche dimenticarci che tutti noi abbiamo dentro un’identità che ha costantemente bisogno di crescere, di nutrirsi, di arricchirsi, di affinare le proprie capacità, di trovare risposta alle nuove sfide, di accettare i nuovi ruoli che ci chiedono ogni giorno di essere diversi, senza però perdere la nostra essenza, di combattere contro i fantasmi del passato che a volte ci mettono i bastoni tra le ruote. Nessuno può fare tutto questo da solo. Nessuno può crescere da solo.
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PS: Ringrazio davvero per tutti gli spunti e i contributi di ieri. Adriano in particolare per il riassunto iniziale e Roberto perché, non solo non si tira mai indietro quando viene provocato, ma ha fatto davvero un discorso profondo senza perdere di vista i temi centrali che stiamo trattando. Comunque Roberto, tutto il discorso sul doppio lavoro che stai facendo, devi scriverlo!! non può andare perduto…
Commenti alla prima giornata
Commenti alla giornata del 27/04/2020
Se dovessi sintetizzare questa esperienza direi che si tratta di un ciclo di incontri che prevedono di collegarsi ad un link tramite la piattaforma zoom, si può fare anche da cellulare. Oggi eravamo 41 persone.
Il Gruppo della Trasgressione include studenti di psicologia, filosofia e giurisprudenza, avvocati, magistrati, professori delle scuole medie e superiori, detenuti e vittime di reati.
Il tema di questo ciclo di incontri è “La banalità e complessità del male“. Oggi abbiamo iniziato dal significato della parola “banalità” partendo dallo spunto di una collega giornalista, laureata in filosofia, che ha citato il libro di Hannah Arendt sul processo ad Eichmann, per spiegare come la maggior parte delle volte il male si distribuisce su piccoli gesti apparentemente “banali” che non ci danno la sensazione di star facendo qualche cosa di male e che non ci fanno sentire proprietari di un’identità “deviante”, anche quando stiamo pericolosamente precipitando senza rendercene conto in quella direzione lì.
Il concetto di “complessità” ci invita invece a riflettere su come il male finisca con il tempo con il rispondere ad una funzione, ovvero quella di darci un’identità, tendenzialmente negativa, ma pur sempre un’identità riconoscibile e facilmente indossabile, che è molto meglio rispetto a non avere alcuna identità e molto più facile rispetto ad un’identità che ci chiede di crescere attraverso il lavoro e la fatica quotidiana.
Da qui diverse persone hanno fatto un collegamento al bullismo, perché chi più di un dodicenne che commette un reato è alla ricerca di un’identità?
E poi anche perché l’obiettivo è di portare gli scritti finali nelle scuole che nel tempo hanno creato un’alleanza con il Gruppo, per costruire interventi di crescita personale e di educazione alla legalità.
Collegandosi al bullismo si è parlato quindi di giovani che, più o meno consapevolmente, compiono dei reati. Spesso all’inizio di questo percorso verso il mondo dei reati succede che i ragazzi si giustifichino affermando “ero lì per caso” e i genitori a loro volta confermano questa versione “mio figlio si trovava lì per caso, non è cattivo, è un bravo ragazzo che ha trovato gli amici sbagliati”. Ed è vero, non sono ragazzi “cattivi”. Ma oggi abbiamo iniziato a riflettere su come il “caso” diventi spesso una scorciatoia che ci libera dalla responsabilità di dover fare bene.
Aggiungo che questo apre la strada a numerosissime domande, perché quasi sempre chi ci chiede di “fare bene” è un’Autorità (interna o esterna) con cui inevitabilmente sentiamo di avere un conflitto aperto.
Così gli amici sbagliati rispondono ad una domanda ben precisa, che è la domanda di chi non si sente riconosciuto e sta cercando di crescere sostituendo inconsapevolmente il diventare grande con il sentirsi “grande”.
Ma il fare senza l’essere è un castello di carte senza fondamenta.
Personalmente questo tema mi interessa particolarmente essendo stata coinvolta nel mio lavoro in ospedale in un progetto dal titolo “minori autori di reato“.
Quindi possiamo dire che vengono trattati temi difficili nel corso di questi incontri, ma l’esperienza di GRUPPO crea una sintonizzazione tra le persone e una sorta di stomaco condiviso che permette a tutti di “digerire” temi complessi, che ci chiedono lo sforzo di ascoltare con attenzione per contribuire anche noi all’incontro, per dare un senso alle nostre esperienze e ai nostri vissuti, che sono sempre al centro della discussione del gruppo.
L’incontro anche nella sua forma on-line costituisce qualcosa di creativo e galvanizzante che con il tempo incide sulle nostre vite dandoci la sensazione di aver utilizzato queste ore per fare qualche cosa di utile, perché “dare” significa mettersi in gioco attivando tutta una serie di funzioni di holding che inevitabilmente ci spingono ad assumere la responsabilità dell’altro e quindi a crescere come persone.
Nel carcere di Opera una volta un detenuto ha scritto una poesia: “Timbro il tempo per esserci, sapendo che ogni secondo sprecato è una parte di me che muore“. Abbiamo tutti bisogno di timbrare il nostro tempo per sentire di esserci.
Mi piacerebbe coinvolgere in questo percorso i genitori dei ragazzi che hanno commesso un reato perché penso che potrebbero arrivare a dare ai ragazzi delle scuole un importante contributo, rendendosi contemporaneamente conto che possono fare qualcosa anche per aiutare i loro figli a crescere. E forse alla fine di questo percorso potremmo cambiare il nome del progetto da “minori autori di reato” a “minori autori del proprio destino”.