Verbale 18.01.23, Carcere Opera

Mercoledì, 18 gennaio 2023, si è svolto l’incontro settimanale presso il Carcere di Opera.

Il Prof.  ha aperto l’incontro partendo da un episodio bizzarro, recentemente accaduto, per proporre una riflessione circa la nostra visione della realtà. Ognuno -dice- ha una visione del mondo limitata in quanto vede ciò che ha davanti; nella delinquenza avviene la stessa cosa, si seleziona del mondo una piccola fetta di realtà, la si compone e le si attribuisce un punteggio, dopodiché si perseguono atteggiamenti collegati alla limitata fetta di realtà osservata, si fanno disastri e ci si ritrova nei guai.

Si inizia a leggere gli scritti dei detenuti sul nuovo progetto “La chiamata” che prevede un reparto impostato in modo innovativo e secondo le coordinate del nostro gruppo.

Si parte con lo scritto di Mimmo, redatto in un italiano bene articolato, sull’importanza di un’appropriata gestione dei “nuovi giunti”. Mimmo scrive che andrebbero tenuti separati da chi è già stato condannato e si sofferma sulla necessità di provvedere a un reale recupero delle persone detenute, in modo che, oltre che un peso, siano per la società anche una risorsa.

L’incontro prosegue con lo scritto di Francesco che racconta la sua esperienza di quando era stato arrestato e trasferito al carcere di Perugia e ricorda un viaggio estenuante, ammanettato con altri detenuti con un arrivo in cui è stato lasciato al freddo per una settimana.

Ne parte una riflessione sul trattamento che spesso i detenuti ricevono; di sicuro queste situazioni non favoriscono né un buon comportamento né un’alleanza con il personale penitenziario e con l’autorità.

La riunione prosegue con il racconto di Amendola, che riesce a descrivere situazioni drammatiche con un linguaggio ironico e coinvolgente. Racconta in modo divertente la sua esperienza, da quando era stato arrestato alle sue attuali condizioni, che passano da un arresto piuttosto duro ad alcuni periodi che ha vissuto in isolamento, senza i beni primari e in uno stato di totale sconforto e smarrimento.

Il Prof.  interviene e chiede a tutti i presenti di comunicare quello che hanno sentito durante il racconto di Amendola e poi successivamente quello che hanno capito. Parte una tavola rotonda, ognuno esprime il proprio punto di vista e tutti trovano il racconto molto coinvolgente, capace di mettere in luce i vari problemi che si presentano con le autorità e lo stato d’animo che si prova nelle varie fasi della detenzione.

Il dott. Aparo mette in evidenza l’importanza del racconto: il narratore è un po’ un artista, le persone di cui Amendola parla, ad esempio quando cita l’ufficiale che gli dà il cibo scaduto per dispetto, nonostante questi abbia una divisa, non viene descritto nella sua piatta realtà di figura istituzionale, ma come fosse il personaggio di un romanzo.

Il detenuto comune accomuna solitamente tutte le figure del carcere per confermare a se stesso l’arbitrio dell’intera istituzione, Amendola invece parla di singole persone che sbagliano e non dell’istituzione nella sua globalità. Questo succede poiché oggi egli ha uno spazio mentale che gli permette di raccontare le cose senza auto descriversi come un oggetto nelle mani della realtà istituzionale o della tirannia istituzionalizzata.

Il detenuto durante il suo percorso deviante, di solito, riesce a sentire di avere un ruolo nella realtà solo ricorrendo al narcisismo e all’autoesaltazione, cosa ben diversa da quello che viene chiesto a buon cittadino. Amendola, col suo racconto, è stato invece capace di uno sguardo attivo sulla realtà grazie alla consapevolezza del suo vissuto e senza ricorrere al potere della pistola.

Risulta evidente a tutti i partecipanti il cambiamento di Amendola rispetto agli incontri iniziali, quando egli parlava molto, a volte troppo, tanto da sembrare talvolta inopportuno; il Prof. mette in evidenza che anche l’atteggiamento del gruppo non era favorevole, forse, dice, non eravamo sufficientemente disponibili all’ascolto, in quanto era l’ultimo arrivato e si prendeva più spazio di quello che noi al momento eravamo pronti a concedergli.

Prende la parola Ciro, partendo da un suo scritto, fatto in precedenza, si interroga sul senso del chiedere perdono per i reati commessi in quanto, non potendo tornare indietro, ritiene che abbia poco senso. Il Prof. propone di porre ai parenti delle vittime una richiesta di “aiuto al cambiamento” piuttosto che una richiesta di perdono; forse questo potrebbe permetterci di avere una più facile collaborazione con Libera. Il perdono, inoltre, è asimmetrico, mentre la richiesta di cambiamento è un invito alla collaborazione.

Il pomeriggio prosegue con il gruppo della media sicurezza e viene proposto a tutti di trovare un argomento di cui parlare. Vincenzo Solli manifesta un suo attuale disagio per cui quando esce dal carcere non riesce ad occupare in modo ottimale il proprio tempo, non può tornare a casa dai parenti e sceglie di andare presso la Clinica Mangiagalli a vedere i bambini che sono nell’incubatrice poiché gli ricordano la nascita di suo figlio; riferisce che vedendo così tanta sofferenza nel mondo si sente più protetto dentro il carcere.

La riunione prosegue con la lettura degli scritti di Marcos ed Emanuele, sul reparto “La chiamata”, in cui entrambi esprimono l’esigenza di un’area in cui ci sia un’accoglienza adeguata per i “nuovi giunti” e una divisione equilibrata dei vari reparti con un supporto psicologico. Emanuele, in particolare, propone la figura di una sorta di mediatore che possa fare da ponte tra il detenuto e il personale penitenziario.

Il Prof. conclude l’incontro ritornando al discorso sullo stato d’animo che alcuni detenuti vivono fuori durante i permessi: se uno ha una famiglia, una moglie, trova uno scopo, altrimenti, quando esce in permesso, passato il primo momento di felicità, arriva quello dello sconforto e della frustrazione, perché in carcere a volte si arriva ad avere un ruolo, mentre fuori, a maggior ragione per chi è stato in carcere, è difficile essere qualcuno, soprattutto se soli. Occorrerebbe quindi una rete, una struttura che permetta al detenuto di sentirsi utile e accolto nei momenti trascorsi fuori dal carcere, in quanto avere un ruolo e un riconoscimento è fondamentale per il cambiamento.

La riunione si conclude con la richiesta, rivolta a tutti i detenuti, di preparare un progetto per riuscire ad utilizzare il tempo fuori dal carcere in modo soddisfacente e costruttivo.

Verbali

Sulla tossicodipendenza

Bollate, 11/02/2016 – Verbale dell’incontroNuccia Pessina

Il dibattito si è snodato a partire da una prima domanda e da alcune riflessioni a margine di questa: la tossicodipendenza è una malattia o una scelta? E’ importante rispondere perché un elemento, una situazione, un problema, a seconda di come viene definito, induce differenti reazioni. Secondo alcuni dei presenti, la tossicodipendenza può avviarsi e/o consolidarsi come una libera scelta; per altri inizia come scelta e diventa successivamente una malattia. Come si vede, la relazione tra scelta e malattia non è lineare; al convegno in programma è perciò opportuno che le esperienze di ognuno vengano ben documentate e comunicate dopo un’adeguata riflessione.

Massimiliano: Mi drogo da quando avevo 15 anni. Non so dire se è una malattia, ma so che, come il diabete, dovrò curarla per tutta la vita. Ma per me non ci sono pastiglie, ho bisogno di progetti, di cose intelligenti da fare, di cose e persone in cui credere. Sono 8 anni che non mi drogo, da quando ho ammesso di avere bisogno di aiuto e ho accettato di riceverlo; per la prima volta in vita mia, pur se in galera, paradossalmente, mi sono sentito libero.

Alessandro: Più che malattia, la chiamerei dipendenza.

Luciano: Penso che la prevenzione possa funzionare e debba essere stimolata.

Gianni: E’ una malattia che uno decide di prendere.

Dott. A: Malattia, disagio, libera scelta? Ogni diversa definizione dà luogo a risposte diverse; e questo vale per i diretti interessati, per le persone con cui i tossicodipendenti hanno relazioni, per le autorità legali e sanitarie.

Maurizio: Diciamo di aver fatto una “scelta” perché in realtà “malattia” è un termine che non ci piace.

Diego: Trovare qualcosa che ti dà piacere come te lo dava la droga è la risposta, ma non è così facile che questo accada.

Massimiliano: La droga ti svuota. Più ti droghi e più ti svuoti. Devi nutrirti di altro, ma ti ci vuole uno stimolo, un aiuto.

Massimo: Non riesco e non voglio considerarla una malattia, perché ciò potrebbe indurre ad adagiarsi nella cosa. Comunque, la droga ti svuota, ma spesso quando cominci è per riempire un vuoto che c’è già.

Gaetano: Per me è una malattia. Noi non accettiamo la parola “tossico”. Se non la accetti, non accetti di essere malato e dunque non ti curi. Ho cominciato a 15 anni, con la “maturità” dei 15 anni. E a 15 anni rifiuti l’aiuto, vivi solo per quello e ti svuoti. Poi maturi e “scegli” di uscirne, ma devi sceglierlo tu, devi sceglierlo per te.

Giuseppe A: Fare cose non basta per distrarsi dalla droga. Bisogna avere stimoli diversi.

Franco: La vera medicina per uscire dalla droga è avere un diverso nutrimento.

Roberto Dambra: Mi sono drogato a fasi alterne. Pulito dal 1996 al 2004. Vero che gli obblighi imposti dalla mia situazione (analisi presso il SERT e via dicendo) mi hanno aiutato, ma sono stato pulito per circa 4 anni dopo la fine degli obblighi. Poi ci sono ricascato. Perché? Non lo so.

Dott. A: Quali sono i confini della tossicodipendenza? Le azioni da essa indotte come il furto, la rapina, come vanno considerati? Sono parte della malattia?

Gianni: Un drogato è offuscato. Serve la mano di qualcuno e la propria volontà. Se commetti una rapina mentre sei in crisi di astinenza, è una conseguenza della malattia.

Maurizio: O rubi e poi ti droghi perché fa parte dello stile di vita delinquenziale o ti droghi e poi rubi per sopperire alla mancanza di soldi.

Gaetano: A proposito di ludopatia, molti reati sono commessi da persone tra i 50 e i 60 anni. Se sei malato, anche le azioni compiute sono conseguenza della malattia.

Massimiliano: Ho fatto furti anche quando non avevo necessità di drogarmi. E allora?

Esposito G: Mio figlio è drogato da quando aveva 13 anni. Io non ho mai toccato sostanze. La malattia è il vostro cervello. La fascinazione che provate per la droga è frutto del vostro cervello malato.

Alessandro: Anche mio padre ragiona come Giuseppe. Se io lavorassi, avessi una bella moglie, un figlio, alla sera, stanco per il lavoro della giornata, potrei anche farmi una canna. Che male c’è?

Gianni: Ma lei Dott. A che ne pensa?

Dottor A.: Ho cominciato a scrivere ciò che penso su “Voci dal ponte”, vi aggiungeremo quel che direte voi, cercando di ottenere un quadro progressivamente più organico delle nostre considerazioni sul tema.

Luciano: (per bocca di Tango) Qualcuno forse si droga perché fin da piccolo vede gente drogarsi.

Gianni: Il dottore non ha risposto!

Dott. Aparo: Credo sia opportuno considerare il tossicodipendente una persona che sceglie la malattia. Ma quali sono i confini della tossicodipendenza? Dal momento che la tossicodipendenza comporta un danno per la persona e per la società quali sono le reazioni appropriate a questo danno? Esiste un’alleanza che il tossicodipendente possa considerare valida e nei confronti della quale possa ritenersi ed essere ritenuto responsabile? E se l’alleanza fallisce e il danno ricomincia, cosa facciamo? Il tossicodipendente va considerato l’autore del furto o un burattino guidato dalla tossicodipendenza? Qual è l’atteggiamento più produttivo da parte dello psicologo? Nelle mie aspirazioni, io vorrei essere l’alleato di un burattinaio dimenticato che prova a restituire al burattino la libertà che gli ha tolto.

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