Caterpillar Radio RAI2 19/03/24

Signori, presto ci separeremo. Per qualche tempo io sarò con i miei due fratelli, dei quali uno sarà deportato e l’altro giace malato, in pericolo di morte. Ma ben presto lascerò questa città e, forse, per molto tempo. Stringiamo un patto qui presso il macigno di IlJusa: che non ci dimenticheremo prima di tutto di Iljuseeka e poi l’uno dell’altro. E qualunque cosa ci accada in futuro nella vita, anche se non dovessimo incontrarci per i prossimi vent’anni, dobbiamo sempre continuare a ricordare il giorno in cui abbiamo sepolto il povero ragazzo, al quale in passato avevamo tirato i sassi presso il ponticello – ve lo ricordate?- e di come poi abbiamo tutti preso ad amarlo. E, per quanto possiamo essere impegnati in cose della massima importanza, per quanto possiamo avere ottenuto grandi onori o essere precipitati in qualche grande disgrazia, in nessun caso dobbiamo dimenticare di come siamo stati bene un tempo, qui tutti insieme, uniti da un sentimento così nobile e buono, che ha reso anche noi, per il periodo in cui abbiamo amato il povero ragazzo, migliori forse di quello che siamo in realtà.

Aleksej da I Fratelli Karamazov

I Conflitti della famiglia Karamazov

 

Il paradosso del mucchio

Era il 18 marzo del 1904, 120 anni fa tra qualche giorno, quando alla Camera dei deputati Filippo Turati pronunciava il suo discorso: ‘Il cimitero dei vivi’.
Il cimitero erano le carceri, i sepolti vivi, i detenuti. Sono passati molti anni e sono cambiate molte cose, ma la cortina di fumo non è ancora del tutto stata dissipata.

Quando mi chiedono: ‘che vai a fare in carcere?’ uso, di solito, rispondere con domande a mia volta. ‘Sai cosa succede in un carcere? Come vive un detenuto? Qual è la sua esperienza, il suo pensiero, le sue opinioni? Ma un carcere l’hai, in fondo, mai visto?’ a cui spesso non ricevo risposta.
L’indifferenza che aleggia intorno alla vita carceraria, soprattutto post condanna e pre-scarcerazione, è ancora fortemente palpabile.
Per abbatterla è necessario che l’interesse da fuori verso dentro, oltre che quello scontato da dentro verso fuori, cresca ed iniziative come questa sono fondamentali a questo proposito.

Da un punto di vista più tecnico, la risposta a cosa ci vengo a fare in carcere, è invece la seguente: ragionare sui temi, su lati, spigoli e vertici del crimine proposti dal capolavoro di Dostoevskij insieme a gran parte del sistema molecolare del crimine. Il sistema molecolare del crimine è uno schema che propone una visione grafica del crimine, con al centro appunto il crimine ed intorno ad esso, in orbite separate, gli atomi del reo, della vittima e delle agenzie di controllo sociale.
Ed è esattamente quello che abbiamo fatto qui, ragionando intorno ai concetti del credito (non nella sua accezione giuridica) e del controverso e sorprendete diritto al rancore, pensando alle diverse concezioni di movente e riflettendo sulla portata degli errori giudiziari. Con le vittime e gli autori di reato.

La questione diventa più spinosa e complessa, probabilmente, nell’interrogarmi su cosa farne dell’esperienza vissuta in questo progetto, delle conoscenze acquisite, dei concetti scoperti.

Nel parlare del credito, che abbiamo inteso come la condizione di un individuo che non ha ricevuto qualcosa che invece gli spettava come l’affetto di un genitore, il sostegno, un’infanzia normale, la presenza delle istituzione, la tragedia di un caro strappato via con la violenza; abbiamo riconosciuto che talvolta, in certe condizioni, nell’agire criminale una parte è giocata dalla corresponsabilità sociale. Tutta la società ha parte della responsabilità della genesi del crimine.

La domanda di un detenuto mi lascia riflettere, chiede:’ Noi abbiamo detto che c’è anche responsabilità sociale nel crimine, ma nel processo poi la responsabilità è solo la nostra.’ Certo, la responsabilità penale è personale. Responsabilità per il fatto commesso dal reo.

Ma l’impressione di star vivendo un paradosso, rimane. È paradossale la situazione di un diritto penale simbolico, che considera fatti, più che fatti commessi da persone, ma che poi ovviamente — come con sofferta ironia amava sottolineare a lezione il mio professore di diritto penale — infligge le pene alle persone e non alle loro condotte.

Ma se è vero che la corresponsabilità sociale esiste ed influenza le scelte ed i comportamenti di determinati soggetti, in che misura la possiamo effettivamente ritenere responsabile? Per capire come tenerne conto dovremmo riuscire in qualche modo a misurarne il livello, la quantità, la percentuale di influenza. Ma è possibile misurare una cosa del genere?
In che modo potremmo riuscire a dire che essa è stata determinante nella determinazione a delinquere in modo certo e condannarla oltre ogni ragionevole dubbio?

Mi viene in mente il paradosso del mucchio. Dato un mucchio di sabbia, se eliminiamo un granello dal mucchio avremo ancora un mucchio. Eliminiamo poi un altro granello: è ancora un mucchio. Eliminiamo ancora un granello, e poi ancora uno: il mucchio diventerà sempre più piccolo, finché rimarrà un solo granello di sabbia. Possiamo dire in quale momento quel mucchio iniziale non è più un mucchio? Per gli antichi il paradosso stava nel mettere sullo stesso piano due concetti diversi, di tipo qualitativo da un lato, il mucchio, e di tipo quantitativo dall’altro, numerico, il singolo granello.

Possiamo dire che la corresponsabilità sociale esiste ed è partecipe nel crimine, ma non possiamo dire in che misura essa diventi determinante, non possiamo dire quando diventi un mucchio. Ecco un altro paradosso. Il sistema penale sembra esserne pieno. L’unico modo per escludere con certezza la presenza del mucchio è ridurlo alla singola unità, così come l’unico modo per escludere l‘incidenza della corresponsabilità sociale sembra essere combatterla incessantemente, fino ad eliminarla.

Del resto anche la nostra Costituzione impegna la Repubblica a ‘rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana[…]’ ed è nostro dovere civico impegnarci nello stesso senso.

Ed è qui che forse ho trovato la risposta ai miei interrogativi. Le consapevolezze acquisite in questo progetto devono essere liberate. Devono respirare e vivere. L’impegno è portare queste consapevolezze nel mio percorso, farle conoscere, darle uno scopo prima e dopo il crimine, durante il processo, durante l’esecuzione della pena. L’obiettivo è quello di riscoprirci uniti nella stessa comunità di destino, riflettere se stessi negli altri ed insieme fondare, non più solo la conosciuta responsabilità verso il fatto commesso, ma la responsabilità verso l’altro.
Il fine è quello di comporre una nuova modalità di risoluzione dei conflitti

Se mi chiedi cosa sono venuto a fare in carcere, la risposta è che sono venuto a risolvere il paradosso del mucchio.

Vincenzo Caragnano

I Conflitti della famiglia Karamazov

La libertà dentro il diritto a sbagliare

All’inizio del nostro percorso ero genuinamente curioso di scoprire come e quali tematiche avremmo potuto sviscerare nel tragitto. C’è un delitto, il delitto per antonomasia, l’atto estremo, nel romanzo, certo, ‘ma dove ci porterà l’analisi intorno ad esso?’, mi chiedevo.

Siamo al terzo incontro quando nella piazza viene sbattuto, come un fulmine a ciel sereno (almeno per me), un nuovo interrogativo: Esiste il diritto al rancore? L’odore di pioggia era già nell’aria, non a caso a Milano in questi giorni piove parecchio, ma delle nuvole ancora nessuna traccia, eppure il fulmine si è abbattuto rumorosamente al centro del teatro del carcere di Bollate.

Esiste il diritto al rancore? Cosa vuol dire diritto al rancore? Posso odiare? Mi è riconosciuto? Io non so rispondere a tutte queste domande, sicuramente non ne ho la presunzione. Posso però dire che, se il conflitto esiste, esisterà anche il rancore di chi a quel conflitto soccombe.

Il conflitto non è sempre violento (certi progetti, come questo, vorrebbero proprio rendere ogni conflitto non violento) e il percorso che porta ad una diversa composizione dei conflitti passa necessariamente dal riconoscimento dell’altro e quindi anche del diritto al rancore della vittima e sorprendentemente (per alcuni) dal riconoscimento che anche gli autori di reato hanno del, e talvolta sono mossi dal, rancore.

Per questo motivo, per me il diritto al rancore esiste, ma non tanto (e non solo) come causa del crimine, ma soprattutto come punto di partenza per il riconoscimento dell’altro difficile. Riconoscere il diritto al rancore come parte dell’individuo è un passo verso il riconoscimento della dignità altrui, fondamentale per riconoscersi e modulare diversamente i conflitti, nel rispetto di questa. Perché proprio il rispetto della dignità altrui è la chiave per raggiungere una modulazione non violenta dei conflitti.

Ecco, più che diritto al rancore sarebbe forse più corretto parlare di diritto a sbagliare e correlato diritto alla risocializzazione come il più recente diritto penitenziario afferma. Questa coppia di diritti, che dovrebbe iniziare seriamente a farsi spazio nelle discussioni circa la funzione della pena, è una conseguenza naturale della riconosciuta corresponsabilità sociale al crimine, che a noi è piaciuto chiamare credito.

Facciamo un esempio. Sono convinto che se nel necessario conflitto tra i personaggi de I Fratelli Karamazov questi si fossero vicendevolmente riconosciuti il diritto al rancore, il diritto a sbagliare, si sarebbe probabilmente potuto prevenire il conflitto violento.

Ivan Karamazov propone un suo modo per prevenire il conflitto violento, e lo fa attraverso la critica della libertà per mezzo del Grande Inquisitore nel capitolo V, libro V, Parte II.

Il Grande Inquisitore, nel racconto di Ivan, critica la figura del Cristo per aver concesso la libertà agli uomini, i quali non ne sono all’altezza poiché spinti da bisogni e necessità terrene useranno tale libertà in modo egoista e meschino, per perseguire i loro personalissimi desideri. Propone invece un sistema diverso, basato su dare agli uomini uno tale che tutti credano e si inchinino davanti a lui, e che immancabilmente ciò avvenga tutti assieme. Propone un’esigenza di comunanza di adorazione che ponga fine ai conflitti per mezzo dell’idolo al quale tutti si inchineranno perché convinti dal vessillo di questo: il pane terreno. Che altro non è che l’esigenza di sicurezza.

Anche noi abbiamo parlato di libertà, grazie ad Ivan e soprattutto grazie al dottor Aparo, concordando sul fatto che ci sono una serie di prerequisiti necessari al raggiungimento di questa. Per me uno su tutti, la dignità.
In generale con dignità umana si indica una particolare posizione dell’essere umano nei confronti degli altri esseri della natura e, conseguentemente, una particolare considerazione e trattamento che ad esso dovrebbero essere riservati. È bene sottolineare che oltre una condizione empirica essa esprime una condizione normativa.

Nel senso comune ci sono oggi due concezioni della dignità che devono essere considerate, una positiva ed una negativa. La prima coincide all’incirca con quanto su espresso, la seconda invece, sommariamente, con l’esigenza di sicurezza. Non è detto che le cose non debbano coincidere.
Conseguenza della concezione negativa è la ricerca di un uomo-entità, un idolo per dirla come il Grande Inquisitore, cui obbedire, che decide per gli altri.

In entrambi i casi il fine ultimo è ottenere una comunità di uguali in cui esprimere la propria libertà. Nel primo caso sarà una comunità di destino di uomini democraticamente pari in cui la guida è assunta dalla legge-insegnamento che tutela la condizione normativo-empirica del singolo.
Nel secondo caso sarà invece una comunanza di adorazione sotto la guida di un capo-idolo, un despota.

Né io, né probabilmente la storia è ancora stata in grado di decidere quale percorso sia effettivamente il migliore.

L’inquisitore tace, aspetta per un po’ quello che il suo prigioniero gli risponderà. Il suo silenzio gli pesa. Ha visto che il prigioniero l’ha ascoltato per tutto il tempo, guardandolo dritto negli occhi con il suo sguardo calmo e penetrante e, con ogni evidenza, senza voler ribattere alcunché. Il vecchio vorrebbe che gli dicesse qualcosa, sia pur d’amaro, di terribile. Ma Egli all’improvviso s’accosta al vecchio e dolcemente bacia le sue labbra esangui, da novantenne.

Vincenzo Caragnano

I Conflitti della famiglia Karamazov

Siamo tutti fratelli Karamazov

Le parole del dottor Cajani mi hanno dato modo di riflettere. Condivido con lui la sorpresa nell’osservare lo stile di guida del dottor Aparo. Uno stile unico, direi quasi sincopato, a volte apparentemente disordinato, ma che alla fine ti porta con piacevole sorpresa dove sapevi o almeno intuivi di dovere andare, ma non sapevi di starlo facendo, ancora.

Sarà forse il callo della professione, ma c’è un incredibile invito alla ricerca di significato nel percorso guidato che stiamo compiendo insieme.
La ricerca di senso è sempre stata per me il rifugio sicuro di ogni esperienza ed anche in questo progetto sento oggi di aver intravisto la strada, maieutica, verso questo locus amoenus.

Mi sono chiesto, allora, perché. Il perché della domanda ‘chi è il protagonista de I fratelli Karamazov?’. La domanda è semplice, la risposta è complessa, lo scopo porta ad affacciarsi sul contesto dialogico della nostra ricerca.
Nella critica letteraria le risposte alla domanda si avvicendano. E non senza ragione. Molte sono già state date e molte ancora, probabilmente, verranno.
Sarebbe forse corretto parlare del carattere polifonico del romanzo che esplorando le diverse prospettive dei fratelli e del padre, Fedor Pavlovic, racconta la complessità dell’esperienza umana in ogni aspetto che ognuno dei personaggi rappresenta. Ed è tenendo questo bene a mente che suggerisco una diversa risposta.

I protagonisti del ‘nostro’ I fratelli Karamazov siamo proprio noi, nelle nostre complessità, nelle nostre esperienze, nelle nostre diversità.
In questa risposta inizio a rivedere le tappe del nostro tragitto.
Ci vedo il credito che ognuno potrebbe vantare verso gli altri, il modo di affrontarlo, infinitamente diversificato da individuo ad individuo, declinato in una serie di aspetti ed esperienze che colorano la crescita di ciascuno.
Ci vedo tutte le soggettive letture del mondo, degli errori, e del modo di affrontarli.
Ci vedo la necessità di ricomporre tutte le pagine strappate, per leggere il libro nell’insieme, di ascoltare le voci di chi ha fatto e di chi ha subito, per iniziare a capire e per non sbagliare più.

Dostoevskij ha bisogno dei suoi personaggi principali per raccontare la complessità della società russa, dei temi della morale, della religione, della libertà, della ricerca del senso della vita esattamente come noi tutti siamo i necessari protagonisti del nostro racconto.
Il tutto di cui siamo parte si scopre soprattutto nell’altro. La difficile presa di coscienza della comunità di destino di cui siamo i pezzi è il percorso per riscoprire una diversa composizione dei conflitti, che parta e sia fondata sul riconoscimento dell’altrui dignità e sullo sperimentare un’Esperienza contraddistinta dalla fiducia.

Siamo tutti fratelli Karamazov, tutti insieme protagonisti della Nostra storia.

Vincenzo Caragnano

I Conflitti della famiglia Karamazov