Noi, tra il rogo che brucia e la danza che ci chiama

And the Court will rise
while the pillars all fall

[Peter Gabriel, The Court]

 

Racconta Peter Gabriel che inizialmente, alla ricerca di una immagine artistica da abbinare al lancio della sua nuova canzone “The Court”, quello che lo attrasse in quell’ intenso bruciore fu la sensazione di un qualcosa che restituisse visivamente “the result of the jugdment” (“l’esito della sentenza”).

Solo dopo scoprì ciò che si celava dietro questo scatto fotografico: un frammento dell’ennesima straordinaria visione artistica dello scultore inglese Tim Shaw, creata in risposta a quanto accaduto all’interno della Royal Academy of Arts all’inizio del 2022. E precisamente in risposta alla lettera di dimissioni inviata dagli artisti Gilbert e George, avente il seguente tenore: “Con la presente restituiamo le nostre medaglie e i nostri certificati … Malediciamo la Royal Academy e tutti i suoi membri”.

Ecco dunque il commento dello stesso Tim Shaw:Che si tratti di parole irriverenti o di energia tossica mirata, è una cosa seria maledire qualcuno. Essendo uno dei maledetti, sento l’obbligo di affrontare questo atto con una risposta vigorosa”. E così quel fuoco assume in realtà un significato diverso da una esecuzione, costituendo invece un passaggio necessario in un processo che dà il titolo alla sua installazione artistica: “togliere la maledizione”.

Questo si realizza attraverso un vero e proprio rituale collettivo ideato dall’Artista, originatosi già prima dell’accensione del rogo e confluito – dopo che le fiamme si spensero – in una processione danzante che sfilò verso il fiume alla luce delle torce: “una foschia fumosa si mescolava all’inebriante odore di campanule e aglio, mentre le ceneri venivano gettate cerimoniosamente nell’aria, nell’acqua e nella terra”.

 

Sono rimasto anche io estremamente colpito da tale cerimonia e da questo aneddoto che non conoscevo, pur avendo già apprezzato in passato lo scultore in altre sue famose opere, fortemente influenzate dalle sue origini irlandesi. Testimone diretto – all’età di 8 anni – dell’esplosione di una bomba al piano inferiore di un ristorante di Belfast dove si trovava con sua mamma (durante le tensioni dei primi anni ’70 a me solamente note grazie ad una delle prime canzoni degli U2 che ho amato), Tim Shaw è stato capace di restituire forma artistica anche alla “alternative justice” denunciando quella espressione di umiliazione pubblica, utilizzata nell’Irlanda del Nord nel medesimo periodo storico ma anche in epoca più recente, tramite l’uso di catrame e piume cosparsi su corpi di donne e uomini presi a bersaglio.

Tutto questo mi ha fatto ritornare alla mente un passaggio del nostro documentario “Lo Strappo. Quattro chiacchiere sul crimine”, quando il Giudice Marco Maiga con una mirabile sintesi afferma:

Lo scopo del processo non è quello di risarcire la vittima, di assicurare un colpevole alla vittima. Lo scopo del processo è quello di esercitare la cosiddetta pretesa punitiva dello Stato, cioè la pretesa di sanzionare, l’esigenza di sanzionare quelli che hanno violato le regole della comunità.  Il processo va avanti anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata anche se la vittima non c’è, la persona viene condannata se è ritenuta responsabile anche se la vittima non vuole”.

Ne discende una domanda, apparentemente innocua: e dunque, se la pretesa punitiva non è appannaggio del singolo individuo ma deve essere esercitata (solamente) dallo Stato, che ne è invece della cosiddetta “esecuzione della pena”?

In altre parole: possiamo dunque tutti noi, quali componenti della società civile, ritenerci ugualmente esonerati dal fornire alcun contributo nella fase che necessariamente segue alla comminazione della condanna?

Le traiettorie di questi ultimi 6 anni, che hanno portato alcune vittime dei reati della criminalità organizzata all’incontro con le persone detenute del Gruppo della Trasgressione, forse potrebbe suggerire una risposta di senso. E riportarci tutti a quell’immagine del rogo che, con gli occhiali che ci ha regalato l’Artista, può assumere un significato ben diverso da quello tradizionale di dannazione eterna.

Per farmi meglio intendere ho bisogno qui, necessariamente, di chiedere aiuto a quella “capacità collettiva di costruire orizzonti sociali di speranza e di affermazione” alla quale questa estate la filosofa Rosi Braidotti ci ha nuovamente richiamati (dopo averne diffusamente trattato nel suo libro “Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte) attraverso le pagine del Corriere della Sera:

L’affermazione non è il rifiuto del dolore, ma una maniera consapevole e propositiva di trasformarlo in materia vivente e creativa. L’affermazione è gioia, qualità ontologica, derivata dalla capacità condivisa da tutti noi, di attivare una memoria incarnata, cioè legata all’esperienza vissuta, anche quella del dolore. Attivarla per meglio esprimere il nostro nucleo vitale, che altro non è che il desiderio fondamentale di continuare a esistere attraverso le relazioni”.

Ai miei occhi quindi l’etica affermativa sembra imporre ineludibilmente, a ciascuno di noi, di essere parte attiva in quello che, nei termini giuridici, viene definito il percorso trattamentale del condannato detenuto. Per cercare di dare un contributo nel trasformare il dolore, che necessariamente il reato commesso ha causato non solo alle vittime dirette ma all’intero tessuto sociale, in qualcosa di diverso: qualcosa che assuma sempre più i caratteri ontologici di una riparazione.

E in questo l’esperienza del Gruppo della Trasgressione – tramite il lavoro sulle coscienze delle persone detenute che in esso si riconoscono – si identifica proprio in quel lento procedere, verso il fiume della trasformazione (il famoso πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός di Eraclito).  Un movimento collettivo che potrebbe ben essere appena uscito dal famoso quadro di Matisse:

In una danza che anche l’intelligenza artificiale, nel videoclip di “The Court” capace di trarre ispirazione (e trasformazione) dal linguaggio scultoreo di Tim Shaw e dalla lirica di Peter Gabriel, ripropone in un frame ugualmente efficace:

Accompagnando per mano vittime e rei, la sfida che attende ciascuno di noi è dunque quella di contribuire ai percorsi riparativi dello strappo che il reato ha causato: perché, parafrasando il Poeta (Baudelaire), solo la danza può rivelare tutto il mistero che la vita tiene nascosto.

Monza – Teatro Binario7, 13.10.23

 

Cura o tradimento

Se potessi fare a meno di decidere
non sarei di certo così stanco

Ogni volta è una conquista riconoscere
quale sia la mia metà del campo

Guardo i fogli ancora bianchi sul mio tavolo
non ho idea di cosa farci e quindi sto

come un uomo che è davanti ad un citofono
e non ricorda più il cognome

[Nicolò Fabi, Tradizione e tradimento]

 

Il tratto di strada tra Malaga e Siviglia mi ha recentemente regalato due meravigliose sintesi visive in relazione alle tematiche con le quali ci stiamo confrontando durante gli incontri del Gruppo della Trasgressione, in questo ultimo anno così denso.

Nella ricerca del famoso dipinto di Goya nella Cappella dei Dolori della Cattedrale di Siviglia, mi sono imbattuto – quasi per caso – in questa raffigurazione della Negazione di San Pietro davvero significativa.

La négation de San Pedro, sec. XVII

Balza subito agli occhi, da un lato, la “citazione” ai movimenti dei personaggi che ritroviamo nella Vocazione di San Matteo di Caravaggio. Dall’altro, singolare è il distacco che l’anonimo autore francese vuole farne rispetto alla Negazione di San Pietro che lo stesso Caravaggio dipinse negli ultimi anni della sua vita: tanto “privata” la dinamica di quest’ultimo quadro (in quanto ristretta a tre attori: San Pietro che nega, la donna che lo accusa del contrario avendolo visto insieme a Gesù, il soldato alla quale la donna si rivolge per farlo catturare), quanto “pubblica” invece quella che il pittore francese, seguace di Caravaggio, ha inteso raffigurare.

Qui infatti, almeno da una mia prima impressione, sembra proprio che il soldato non si accontenti del racconto della donna e, per questo, “chieda conto” ad altre persone, sia pure in altre faccende affaccendate.

Ecco dunque l’immagine complessiva che questo dipinto, in maniera plastica, mi restituisce:  non solo “la chiamata a trarre il meglio da sé” ma anche il suo contrario, ossia il “tradimento di sé attraverso la negazione di quello che siamo (stati)”, è questione che non può essere circoscritta ad una dimensione strettamente personale.

Durante il nostro ultimo inverno nel sottosuolo di San Vittore lo abbiamo ripetuto molte volte: è la funzione che noi attribuiamo all’altro ciò che può fare la differenza nel diventare nutrimento profondo per la sua evoluzione.

Però rimaneva sempre nascosta, in questa nostra dialettica volta a far (ri)nascere il sole nelle esistenze di giovani adulti, l’altra faccia della medaglia. E precisamente: che dire invece di chi non vuole rispondere alla chiamata? Di chi non vuole dissotterrare il talento? Di chi non vuole togliere il bavaglio nel quale ha imprigionato la sua coscienza?

Nel pensare pertanto a questo lato oscuro della luna, un altro quadro mi è venuto in soccorso: anche qui sempre grazie ad una “rivoluzione copernicana” rispetto alle nostre corde emozionali che un mese fa avevano vibrato al suono dei violini del mare.

Ed infatti, se le barche che hanno trovato infine approdo al carcere di Opera avevano necessariamente richiamato a ciascuno di noi – per non rimanere indifferenti al male – l’azione riprovevole dei carnefici, questo dipinto di Picasso mi suggerisce l’esatto contrario.

Barque de naïades et faune blessé, 1937

E’ risaputo come il pittore spagnolo avesse tratto anche dalla cultura greca fonte di ispirazione per la sua Arte visiva, ma qui non è tanto il tema della potenza distruttiva del Minotauro (a lui così caro) ad essere presente quanto quello della cura rigeneratrice, incarnata nell’azione delle Ninfe dell’acqua che soccorrono il Fauno ferito.

In altre parole è il mito rovesciato, dove le Ninfe non hanno più motivo di temere chi – fino a quel momento – le aveva fatte oggetto della sua riprovevole caccia.

E non vi ormai più ombra di dubbio che le “nostre” Naiadi siano proprio i Familiari delle vittime: ad iniziare da Marisa Fiorani con quell’incontro nel carcere di Opera del 6 settembre 2016, fino ad arrivare a Paolo Setti Carraro con la sua lettera (quasi un bilancio interiore) dello scorso giugno.

Ma penso anche a Manlio Milani e Agnese Moro, Giorgio Bazzega e alle tante altre donne e uomini che in tutti questi anni hanno fatto una scelta precisa quanto alla propria metà del campo. Perché questo quadro di Picasso ha, per me, la stessa forza evocativa di quel racconto che mi aveva fatto sobbalzare lo stomaco, una sera al cinema:

Di questo racconto, con il passare degli anni, apprezzo non solo la conclusione (quella che più di quindici anni fa mi aveva folgorato) ma anche l’inizio: questi Familiari hanno fatto un percorso interiore strettamente personale, ma in questa loro immensa fatica non sono stati mai lasciati soli.

Perché un altro proverbio africano dice che “per educare un bambino ci vuole un intero villaggio”. Allo stesso modo per curare un essere umano – vittima o carnefice che sia – affinché possa ritrovare sé stesso, senza più tradire la sua più vera natura: orgoglioso di fare parte di questo villaggio, insieme a tutti voi del Gruppo della Trasgressione.

Percorsi della devianzaReparto LA CHIAMATA

Il ritorno

Ieri mattina a San Vittore, mentre il nostro coach chiedeva a gran voce cosa ce ne possiamo fare di Hamadi, Roberto e di tutti gli altri giovani adulti del Reparto La Chiamata, ripensavo ad uno scritto di Armando Xifai del 2004 che ispirò poi un nostro primo esperimento da proporre in un laboratorio tematico per educatori scout del 2007 a Napoli.

Il titolo di quella sperimentazione era “Sulla cattiva strada” ovvero “appunti per una pedagogia della trasgressione”: un percorso alla fine del quale anche l’altro (che si è sempre considerato imperfetto in quanto “marchiato” dal sigillo di delinquente) diventa strumento di redenzione per sé stesso e, allo stesso tempo, per noi che amiamo farci chiamare società civile.

Buona Festa della Repubblica e buona (cattiva) strada.

Musica: La cattiva strada (F. De André – F. De Gregori), 1975 – by. Trsg. Band
Immagini: The Blues Brothers, USA, 1990                         
(edit by cescacuore, 2007)

Reparto La Chiamata

Decisi a crescere

So let your hips do the talking”

[Kings of Convenience, I’d rather dance with you, 2004]

 

Una favorevole congiunzione astrale, dopo un indimenticabile 20 e il 21 marzo, ci regala oggi il 22 marzo 2023. Giusto giusto venti anni fa, un sabato pomeriggio, una trentina di giovani scout varcavano per la prima volta la soglia di San Vittore per incontrare il Gruppo della Trasgressione.

Voglio evocare, tra le tante cose che conservo preziose dentro di me, la “profezia” di Dino Duchini: “L’esperienza con i boyscout è alle nostre spalle, ma sento che gran parte del suo valore lo ritroveremo e lo spenderemo nel tempo che abbiamo davanti”.

Nello spegnere idealmente con voi queste venti candeline, esprimo sommessamente un desiderio – rivolto al nostro coach Juri Aparo e a tutti quelli che vorranno aiutarmi a realizzarlo – per i nostri prossimi progetti insieme con i giovani adulti: pezzi di Lego per pensare anche con le mani, un piccolo jukebox portatile per “lasciare che siano anche i nostri fianchi a parlare”.

 [A ballare sono negato ma ho a casa una piccola coach che mi potrebbe sicuramente aiutare…. nel mentre, vi regalo questo straordinario videoclip il cui messaggio vale molto più di altre mie parole strampalate]

Reparto La Chiamata

Milano e la Scala, le vittime e la mala

E’ possibile che uno psicoterapeuta ed un pubblico ministero ricerchino insieme, sia pure da traiettorie professionali e sguardi diversi, l’uomo dentro il criminale.

E’ possibile che giovani, alla ricerca di sé stessi pur senza commettere reati, entrino in carcere e ne escano migliori.

E’ possibile che Familiari delle vittime della criminalità organizzata decidano di provare a scongelare il loro dolore nell’incontro con l’altro, pur se origine dello strappo che ha lacerato le loro esistenze.

E’ possibile che persone detenute ad Opera decidano di chiedere un permesso e, invece di andare a trovare la loro famiglia, sentano il bisogno di cimentarsi nella più faticosa attività riparativa.

E’ possibile che, nel mentre viene scattata la foto che rende plasticamente evidente tutto questo, passi un altro bel pezzo di società con uno striscione arancione… e occorra rimettersi in cammino, con rinnovato impegno e passione civile.

Milano, 21 marzo 2023 – il nostro impegno in memoria delle vittime innocenti delle mafie, per ricucire gli strappi. E’ possibile.

 

Caro figlio mio

Caro figlio mio, o figlio mio caro: spesso noi due scherziamo – ripassando la grammatica anche in questo faticoso inizio di prima media – su come il mio professore di italiano al liceo diceva che la diversa posizione di una virgola nella stessa frase può cambiarne radicalmente il senso.

Ma anche la diversa disposizione delle parole conta…. e così nel “figlio mio caro” l’accento non cade più sull’amore ma sui costi della faticosa sopportazione da parte del genitore, in questa tua preadolescenza sempre più inquieta.

Capita spesso che fin da bambino qualsiasi esperienza ci venga proposta sempre suddivisa in due categorie: bianco o nero, buono o cattivo. E forse per questo cresciamo nel dissidio interiore di dover dare ascolto solamente ad una voce: e, preferibilmente nelle intenzioni di mamma e papà, quella dell’angioletto piuttosto che quella del diavoletto.

Se mi volto a guardare indietro, il ricordo ancora nitido è quello di me diciassettenne nell’anno di Noviziato con gli scout di Sesto San Giovanni: oggi sempre di più posso dire che è stato proprio quello il tempo in cui ho imparato a mettere ordine dentro me stesso. Fino a quel momento mi guardavo intorno e, forse per superare la banalità della gran parte delle cose che mi circondavano, avevo iniziato a trascrivere a mano su dei quaderni rossi i testi delle canzoni (soprattutto quelle in lingua inglese) che più mi facevano sentire vivo. Perché, al di là dello scoutismo e dei legami forti generatisi all’interno dell’ambiente scolastico nel quale i miei genitori mi avevano sapientemente inserito, per me “era sempre difficile rimettersi in marcia e, ogni volta che ritornavo a casa, era tutto e solamente un aspettare la successiva uscita. La città da una parte, così indecifrabile e indigeribile;  il bosco dall’altra, così desiderabile e terapeutico”.

E così arrivai alla fine della route di quella mitica estate 1988 e i miei compagni di Noviziato mi affidarono in dono, come totem e pertanto segno caratteristico del mio essere, quello di Tigre Gioiosa. Dove, al di là della tigre che ancora oggi connota il mio carattere spigoloso, l’aggettivo gioiosa mi fu assegnato in termini “migliorativi”, come cioè un invito a collocarmi di più verso sfumature di colori sentimentalmente più caldi.

Già, le sfumature. Perché con il tempo mi arrivò in premio un’altra folgorazione, dopo il senso di quell’anno straordinario del Noviziato e dopo tutte quelle parole vitali delle quali mi nutrivo ricopiandole su quei quaderni rossi, come fossero un breviario laico per l’anima.

Fu ad un campo scout di “formazione capi” quando, durante una sessione serale e nel fiume in piena dei miei 22 anni, sentii pronunciare dagli educatori che avevano cura di noi l’elogio dell’equilibrista: colui che per rimanere in piedi sul filo, e non cadere nel baratro o nel vuoto che sia, deve continuamente sbilanciarsi da una parte e dall’altra. In quell’immagine, così semplice ma per me straordinariamente efficace, trovai la soluzione a tutti i miei residui mali. 

E iniziai a non tormentarmi più nella vana ricerca di un equilibrio stabile, perché solamente una sana instabilità poteva farmi andare avanti, un passo alla volta. Perché in ogni singolo passo c’è inevitabilmente il segno plastico di tutto questo: sbilanciarsi in avanti per non rimanere fermi.

Capirai allora perché quando, all’inizio del nostro cammino all’interno del Reparto La Chiamata, ho sentito il nostro comune amico Juri parlare dell’altalena, ho avvertito il cuore nuovamente battere forte come in quella sera di 30 anni fa. E ho realizzato che in questo ultimo viaggio nel sottosuolo del carcere di San Vittore sei sempre stato tu il protagonista dei miei pensieri. E proprio per questo ho deciso di vedere quali pagine dei miei quaderni rossi, giovedì dopo giovedì, tale nuova esperienza di comunità educante sarebbe riuscita a fare riemergere dopo tutti questi anni.

Perché la musica, ormai e per fortuna, fa parte anche della tua giovane vita. Non potrò mai dimenticare uno dei miei primi timidi approcci con te sul tema… quella sera quando, sdraiati sul lettone di casa e dopo averti fatto ascoltare l’assolo di Gilmour a Pompei, mi avevi confidato: “Non male papà, ma lo sai che anche Rovazzi sa suonare la chitarra?”.

Sicuramente l’Hotel California nel quale un tempo cercavo rifugio, trasportato dalle note della mia chitarra bianca, può avere lo stesso significato della Swishland del cantante che oggi preferisci: un luogo di evasione.

Ma io ti auguro di trovare qualcuno che sappia poi dare voce al tuo dáimōn, affinché quella naturale ed innata voglia di evadere non ti porti all’autodistruzione ma sia capace di farti realizzare il disegno che la vita ha in serbo per te. Non sarò geloso nei suoi confronti, ma infinitamente grato: del resto il nonno e la nonna, che tu ben conosci, hanno avuto la capacità di coltivare il terreno, prepararmi la strada indicandomi una direzione di senso (nonostante la naturale timidezza del primo e qualche milligrammo di ansia – ugualmente naturale – della seconda) con l’esempio e senza tanti giri di parole. Ma sono stati poi altri, diversi dai mei genitori, a raccoglierne il testimone e a fare con me e su di me “il lavoro sporco”: una maestra elementare e a seguire una manciata di altri bravi insegnanti, un prete e una suora, alcuni capi scout, un amico di famiglia.

Quando, ancora oggi, devo affrontare qualche momento di difficoltà e sconforto, mi fermo ad ascoltare le loro voci che ancora tutte risuonano dentro di me. O rileggo le parole messe in poesia che mio papà ha pubblicato prendendo spunto dalle lettere che ci scambiavamo quando ancora non sapevamo come parlare alle nostre reciproche anime. O ripenso a qualche bigliettino che, ancora oggi, mia mamma non si stanca di lasciarmi infilato in qualche sacchetto.

Perché anche tu scoprirai, con il tempo, che essere te stesso non significa tanto ritrovare dentro di te il tuo vero io quanto sapere fare sintesi della molteplicità di voci che necessariamente abitano in te. E, come un direttore di orchestra, saper far suonare insieme tutti gli strumenti. Certo, avendo il coraggio di ascoltarli tutti, nessuno escluso, e di accordarli nel modo migliore affinché il suono così generato sia quello più utile e proficuo per l’occasione richiesta.

Confesso anche che credevo, nel mio strampalato senso giovanile di onnipotenza, di poter trarre da tutte le parole che con cura trascrivevo su quei quaderni non solo nutrimento interiore ma anche ispirazione per una canzone che avrei voluto scrivere io, e che sarebbe per ciò solo passata alla storia. Da anni sorrido di tutto questo anche perché ormai mi è chiaro che, se rinasco, non voglio più essere un cantautore ma un sentimental dj, sempre pronto a trovare – in ogni occasione della vita – quel disco capace di far star meglio una persona attraverso l’invito a curarsi, facendo risuonare dentro di sé parole di altri. E, proprio grazie a quella cura, saper ritrovare le proprie parole e riuscire finalmente a pronunciarle, come atto creatore capace di dare il vero nome alle cose.

Ma, a pensarci bene, è questo anche l’impegno che voglio prendere oggi – in questa festa del papà cosi particolare e quantomai sentita – con te e con tutti i giovani adulti del Reparto la Chiamata.

Per amore del mio popolo non tacerò”, e per aver invitato altri a non tacere più qualcuno ha anche perso la vita: il suo nome è don Peppe Diana, ucciso un 19 marzo di tanti anni fa (era il 1994) nella sua Chiesa, a soli 36 anni e nel giorno del suo onomastico, da un killer del clan dei casalesi. E ancora oggi sono molti a rimpiangerlo, perché in lui erano riusciti a trovare un padre.  Ma, come era solito dire ai suoi parrocchiani, “non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di aver paura, il coraggio di fare delle scelte”.

Caro figlio mio, “la vita è un bivio”: così ci ha ricordato – in maniera tanto semplice quanto efficace – Mattia durante uno dei nostri primi incontri a San Vittore. Quando anche tu ti sentirai prigioniero, ricordati quel pezzo di via Francigena che abbiamo voluto fare insieme – io e te soli – la scorsa estate: dopo 9 ore di cammino e portando anche il tuo zaino di fronte all’ultima fatica, imprecavo al cielo come un pazzo invitando il Sindaco di Monteriggioni a costruire un tapis roulant al posto di quella impervia salita che conduce all’ingresso delle mura medioevali.

 

Non abbiamo mai riso così tanto, perché anche tu sapevi che stavo scherzando: lo scoutismo infatti ci insegna che la strada più larga ed in piano difficilmente è quella che porta più lontano.

A differenza di Mattia e di tanti altri giovani adulti che non riescono più a trovare la via di casa, le scelte della tua vita tu le hai ancora tutte davanti. Buona strada allora: insieme a tua mamma e a tua sorella, sai che facciamo il tifo per te.

E io faccio il tifo anche per i giovani adulti del Reparto la Chiamata, perché ti auguro anche di scoprire sulla tua pelle che quando poi diventi padre le persone a cui vuoi bene le guardi e le ascolti come se fossero tutti figli tuoi.

Casa circondariale di Milano San Vittore, 12 gennaio 2023 – 16/19 marzo 2023

Reparto LA CHIAMATA        Genitori e figli

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 10

Relazione di appartenenza.

Una vostra parte è dentro il carcere, e questa siamo noi” (Armando Xifaj, sottosuolo del carcere di San Vittore, 9 aprile 2005 – Workshop Agesci “Chi è dentro è dentro, chi è fuori fuori?”)

Reparto La Chiamata

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 9

Dáimōn o demone?

L’anima discende in quattro modi: attraverso il corpo, i genitori, il luogo, le condizioni esterne.
Per prima cosa, il corpo: discendere, cioè crescere, significa ubbidire alla legge di gravità, assecondare la curva discendente che accompagna l’invecchiamento.
Secondo, accettare di essere un membro della tua famiglia, di fare parte del tuo albero genealogico, così com’è, con i suoi rami contorti e i suoi rami marci.
Terzo, abitare in un luogo che sia adatto alla tua anima e che ti leghi a sé con doveri e usanze.
Infine, restituire, con gesti che dichiarano il tuo pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l’ambiente ti ha dato” (James Hillman, Il codice dell’anima)

Reparto La Chiamata

La Chiamata al carcere di San Vittore # week 8

Il talento di pensare (penso dunque sono)

“In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. – Vedo, rispose”. (Platone, Repubblica, 514 a-b)

Reparto LA CHIAMATA